Storia degli Ebrei a Rimini.
Serie completa degli scritti.

Gli Ebrei a Rimini (1015-1799)

Primo capitolo

1548, Rimini anticipa il ghetto ebraico
Sette anni dopo c’è la «bolla» di Paolo IV


Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale della città obbliga gli Ebrei riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano. Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che con la «bolla» intitolata «Cum nimis absurdum» del 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa seguendo il modello realizzato nel 1516 dalla Serenissima Repubblica di Venezia. La «bolla» pontificia induce la nostra Municipalità il 20 agosto 1555 a delimitare la zona in cui agli Ebrei è permesso risiedere, ovvero la sola contrada di Sant’Andrea corrispondente all’odierna via Bonsi, in un tratto che va dall’angolo degli attuali Bastoni Occidentali (detti allora «Costa del Corso») sino all’oratorio di Sant’Onofrio. All’inizio ed alla fine del ghetto sono posti due portoni.
Le tre contrade citate nel 1548 sono quelle di San Silvestro, Santa Colomba e San Giovanni Evangelista. La chiesa di San Silvestro sorgeva nell’attuale piazza Cavour chiudendola verso la nostra via Gambalunga. Fu atterrata nel 1583 «per la nuova fabbrica del Palazzo Comunale, e per rendere libera tutta la piazza della fontana fino alla strada maestra», ora corso d’Augusto (Tonini, «Mille», p. 55).
La parrocchia di San Silvestro occupava la zona che partendo dalla piazza è delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e via Sigismondo.
Attraversata dall’odierna via Cairoli verso l’esterno (cioè verso Sud) la via Sigismondo, si entrava a sinistra nella parrocchia di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino) a fianco della chiesa; ed a destra in quella di Santa Colomba che prendeva il nome dall’allora cattedrale. Sotto la sua giurisdizione passa la zona amministrata da San Silvestro dopo la demolizione di questa chiesa nel 1583.
La strada che costeggiava il lato Est della piazza (dove sorge la Pescheria settecentesca) prima è stata chiamata contrada di San Silvestro e poi (dopo il 1583) «del rivolo della fontana» o «del corso», adottando il nome già usato per il tratto che va dal Castello alla piazza.
La delibera del 22 luglio 1548 prevede per gli Ebrei anche l’obbligo di portare un distintivo. Ma non è una novità. Già il 13 aprile 1515 il Consiglio riminese aveva stabilito il dovere da parte loro d’indossare una berretta gialla se maschi ed un qualche «segno» (una benda anch’essa gialla) se donne. Il precedente più antico risale al 1432 quando Galeotto Roberto Malatesti aveva ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che introduceva per loro il «segno» di distinzione obbligatorio.
Il provvedimento del 1548 impone anche una serie di divieti che riguardano ad esempio l’acquisto di «beni stabili eccetto casa et Bottega», lo stabilirsi in città «senza licenza» del Consiglio generale e persino il «toccar frutti in piazza, né metter le mani ne’ panieri, cesti o some». Questo editto riafferma una consolidata linea politica locale, diretta a limitare i diritti della comunità ebraica.
Nel 1489 a carico dei loro componenti era stata decisa un’imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i Turchi. L’astio esistente nei loro riguardi aveva prodotto nel 1429 e nel 1503 un assalto ai banchi ebraici. Da ricordare che nel 1501 era nato il «Sacro Monte della Pietà» (o banco dei pegni) per fare concorrenza ai prestatori ebraici e togliere loro la clientela più povera (fino a cinque lire il prestito era gratis). Ma il 22 giugno 1510 agli Ebrei è stata poi concessa l’autorizzazione a «facere bancum imprestitorum», cioè di svolgere legalmente attività finanziaria. E l’anno successivo è stato stipulato l’accordo con Emanuelino ed Angelo da Foligno che per il loro banco avrebbero pagato alla Municipalità una tassa annua di 400 lire. Delle società di prestito ebraiche nel corso del secolo si servì lo stesso Comune, afflitto da costante mancanza di denaro.
Nel 1515 (il 13 aprile) si discute la proposta di bandire gli Ebrei dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo.

Non ci fu il tumulto
di cui parla C. Tonini
Quel giorno il Consiglio generale approva all’unanimità l’adozione di tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandire gli Israeliti; far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi; ed infine stabilire «che nell’avvenire volendo detti Ebrei continuare l’habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla».
Per le donne il successivo 28 aprile è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte, facendo loro nel contempo divieto di porre sul capo i mantelli secondo (aggiungiamo noi) l’usanza comune della nostra popolazione di sesso femminile. Restano disattesi questi ordini del segno distintivo se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, sono ripetuti in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio». Gli Ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta ed alla benda gialle (secondo il sesso), ma di recare semplicemente un segnale sul mantello. La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città».
I tre punti del 13 aprile 1515 hanno una premessa di tutti rispetto negli atti del Consiglio generale, che è però dimenticata dagli storici (Clementini prima e Carlo Tonini poi). In tale premessa si dice che gli Ebrei erano visti in città come «inimici».
Carlo Tonini, nel riferire i provvedimenti del 13 aprile 1515, premette che «la città era in tumulto per cagione degli Ebrei». Riferisce che «fu proposto di sbandeggiarli, quali nemici della religione e promotori di scandali nel popolo», chiedendone licenza al pontefice. Conclude che «in causa di questo tumulto fu fatto venire un numero di cavalli di lieve armatura», la cui spesa «volevasi fosse fatta pagare agli Ebrei, alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi».
Il passo di Clementini sui soldati «condotti, e trattenuti per guardia degli Ebrei», ha portato Carlo Tonini a scrivere di un «tumulto per cagione degli Ebrei» (del quale non c’è traccia nel testo di Clementini). Tonini aggiunge che i militi erano stati chiamati in città a «difesa» degli Israeliti, e quindi da considerarsi a loro carico. Clementini aveva parlato di «guardia», termine il quale oltre che difesa (di una parte lesa) può significare anche controllo (e repressione di facinorosi…).
Se il passo di Tonini sul «tumulto per cagione degli Ebrei» significa che erano stati essi a provocare una sommossa, tale affermazione non ha nessun legame logico con quella successiva, relativa all’intervento di truppa forestiera per proteggerli («alla cui difesa appunto erano venuti que’ militi»).
Questo controsenso non ci sarebbe nella peggiore delle ipotesi, che cioè quel «per cagione degli Ebrei» significasse che la loro sola presenza in città (che li considerava «nemici») aveva provocato una rivolta popolare arginata dall’autorità manu militari per salvaguardare l’ordine pubblico.
Nel 1422 papa Martino V aveva fatto divieto agli Ordini mendicanti di provocare sommosse popolari contro gli Ebrei, accusati di avvelenare le fonti dell’acqua e di produrre azzime intrise di sangue umano (Segre, pp. 157/158). Nel 1442 Eugenio IV aveva pubblicato una «bolla» per interrompere ogni rapporto economico fra Ebrei e Cristiani, ordinando agli «infedeli» di vivere isolati e segregati, di portare il solito segno distintivo, di restituire le usure percepite e di non esigerne più per il futuro (ibidem).
A Rimini la Municipalità il 24 marzo 1540 era stata costretta ad intervenire per difendere gli Ebrei, con l’intimazione ai Cristiani di non colpirne le case ad usci e finestre. Nello stesso anno gli è concesso di tenere un banco a Rimini, Verucchio e Montescudo.
Da un atto notarile del 1556 sappiamo che le famiglie ebree riminesi erano allora dodici. Il 7 marzo esse delegano un correligionario a rappresentarle davanti all’autorità cittadina onde chiedere la consegna delle abitazioni necessarie ed adatte alle loro singole esigenze, per non risultare inadempienti alla «bolla» papale.
Nel 1557 la Municipalità ha già realizzato il ghetto trasferendovi i singoli nuclei famigliari come documenta un rogito del 10 novembre, relativo alla vendita di una casa situata nella contrada assegnata appunto agli Ebrei «pro habitatione».
Nel 1562 la Municipalità proibisce (29 aprile) ai Cristiani di abitare nella contrada degli Ebrei, ma autorizza (14 ottobre) il ricco Ebreo Ceccantino di avere casa «extra ghettum».
Nel 1569, il 26 febbraio, Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. Però nel 1586 se ne trovano ancora a Rimini. Essi chiedono in Consiglio il 22 dicembre di poter continuare a vivere «familiariter» in città al di fuori del luogo detto «il ghetto» dove si rifiutano di permanere. Non ricevono risposta, a quanto pare. Il 9 dicembre dello stesso 1586 il Consiglio aveva autorizzato gli Ebrei che avevano licenza di abitare in tutto lo Stato della Chiesa, a risiedere a Rimini appunto nel ghetto.
Il 19 settembre 1590 sostanzialmente non è approvata in Consiglio la proposta di approntare gli strumenti amministrativi per cacciare dalla città gli Ebrei che non l’avevano ancora abbandonata, e che sono equiparati a «vagabondi e forestieri» per i quali si voleva una pronta espulsione.
Le cose andarono così: si richiese, ottenendo voto positivo (13 pro, 2 contra), che fossero cacciati gli Ebrei, ma con l’aggiunta fondamentale che ciò sarebbe avvenuto «caso si potesse e vi fosse Motu proprio o Breve pontificio». Il cavillo giuridico contraddiceva l’esito del voto stesso. Gli ordini papali c’erano (il ricordato bando del 26 febbraio 1569 di Pio V), ma evidentemente nessuno aveva voluto in passato applicarli né voleva attenersi ad essi in futuro. Quindi le cose restavano immutate, con la parvenza di una novità, il desiderio di allontanare da Rimini gli Ebrei considerati pericolosi per l’ordine pubblico al pari dei «vagabondi e forestieri».
Nel 1615 il ghetto è distrutto da una rivolta popolare, secondo il racconto di monsignor Giacomo Villani (1605-1690). Alla «perfida gens Iudeorum» è ordinato di lasciare Rimini, e le porte del ghetto sono distrutte su richiesta di alcuni nobili. Commenta Carlo Tonini: «Così la Città nostra ebbe il contento di vedersi liberata da quella odiata gente» (VI, II, p. 761). La cui vicenda era a suo avviso «principalmente religiosa» (ibidem, p. 748).
Nel 1656 a «un tal Hebreo Banchiere» di cui non si fa il nome ma che era conosciuto dal mallevadore («il gentilhuomo Hebreo di questa Città»), si concede di aprire un banco con la facoltà di avere presso di sé la famiglia. Il 16 giugno 1666 il Consiglio di Rimini invece boccia (31 contrari, 14 a favore) la proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto per gli Ebrei ad «utile e beneficio» della città. Infine nel 1693 alcuni commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, con un memoriale letto in Consiglio il 17 febbraio ottengono l’autorizzazione ad inoltrare al pontefice la supplica per poter rientrare in città. Come sia andata a finire la faccenda, la Storia non lo dice. Essi ritornano ad apparire (improvvisamente) nei documenti un secolo dopo.
Torniamo alla via del ghetto. Contrada Sant’Andrea era chiamata nel secolo XVI la strada che oggi conosciamo come via Bonsi. Nel 1615 essa cambia denominazione (racconta Villani), quando il 15 giugno è ordinato agli Ebrei di andarsene da Rimini, ed il loro «vicum» diventa di Sant’Onofrio, come l’oratorio che vi sorge. Successivamente muta ancora, ed è via dei Bottari. A parlare di contrada di Sant’Andrea sono gli atti pubblici della Municipalità del 20 agosto 1555 (AP 859, Archivio di Stato di Rimini, Archivio storico comunale, c. 282v).
La storia della contrada è legata alla vicenda delle due porte che in epoche successive chiudono l’uscita meridionale della città. Quella «antica», l’arco di porta Montanara ora collocato verso piazza Mazzini, è della metà del XIII secolo (1240-1248, quando si costruiscono le mura federiciane, scrive Luigi Tonini, I, pp. 196-197). Essa sorgeva aderente all’oratorio di San Nicola fra le vie Bonsi e Venerucci.
Nel XIV secolo è posta sui Bastioni la porta «nuova», demolita nel 1890. Secondo monsignor Villani essa era detta anche «Aquarola» perché attraversata dall’acquedotto (Ravara, p. 19). Nello spazio che vi intercorreva (chiamato «fra le due porte» dal Medioevo sino all’Ottocento) esistettero due ospedali, uno dei quali era definito di Sant’Andrea.


Secondo capitolo

Dal dazio del porto ai prestiti
Le attività economiche a partire dal 1015


La prima notizia relativa alla presenza ebraica in Rimini risale al 1015 e riguarda il teloneo «judeorum» ovvero l’appalto dei dazi d’entrata nel porto, del quale si parla pure in un testo del 1230. In entrambi i casi l’appalto è condiviso con altri soggetti locali, il monastero di San Martino nel 1015 ed i Canonici nel 1230.
Attività di prestito ad usura sono documentate nel quattordicesimo secolo per Verucchio (1336, da parte di tale Sabbato) e per Rimini: nel 1357 e nel periodo fra 1384 e 1387 figura Manuello di Genatano che compare negli atti notarili assieme a Gaio di Leone, Dolcetta di Guglielminuccio (vedova di Genatano e quindi madre di Manuello), Vitaluccio di Consiglio, Abramuccio di Bonaparte, Matassia di Musetto, Abramuccio di Bonagiunte, Elio di Olivuccio. I ricordati Manuello e Vitaluccio appaiono anche in contratti di soccida, ovvero relativi all’allevamento di bestiame (Muzzarelli, pp. 33-35, 39).
I prestiti potevano essere restituiti non soltanto a Rimini ma pure a Perugia, Fano, Ancona, Urbino, Forlì, San Marino, Santarcangelo, Montefiore o Gradara. Esisteva cioè un vasto collegamento fra gli agenti finanziari locali e le varie piazze, tra cui negli atti è ricordata pure Mantova (ibidem, p. 35).
Nel corso del quindicesimo secolo gli Ebrei ebbero notevoli favori da parte dei Malatesti (Jones, p. 15). Agli inizi del Quattrocento Rimini era «costituita prevalentemente da ceti mercantili e artigianali», con «una fiorente comunità ebraica a completare il quadro variopinto di una città cosmopolita» (Vasina, p. 29). Nel 1429 con la morte di Carlo Malatesti finisce l’equilibrio da lui creato all’interno della società riminese, «ed affiorano con immediatezza umori e contrasti da lungo tempo sopiti o repressi» (ibidem, p. 51). Avvengono manifestazioni contro i mercanti forestieri e la comunità ebraica, con il saccheggio dei loro banchi: è un favore fatto agli agenti fiorentini presenti in città come emissari dei Medici i quali vedevano negli israeliti una terribile concorrenza (ibidem, p. 65).
Abbiamo già ricordato che in questo periodo (1432) Galeotto Roberto Malatesti ottiene da papa Eugenio IV un «breve» che introduce per gli Ebrei il «segno» di distinzione obbligatorio. E che nel 1503 si replica l’assalto contro i loro banchi, due anni dopo la creazione di quello dei pegni, il «Sacro Monte della Pietà».
Anche Sigismondo fu in rapporto con i banchieri ebraici. Nel 1462 per la fabbrica del Tempio egli ottiene un prestito da Abramo figlio di Manuello di Fano (Vasina, p. 62). Sul finire del secolo quattordicesimo abbiamo incontrato Manuello di Genatano e sua madre Dolcetta. Abramo figlio di Manuello aveva un fratello, Salomone, banchiere ed importante personaggio della comunità ravennate. Abramo e Salomone si trasferiscono dalle nostre parti, e gestiscono un banco nel castello di Montefiore attorno al 1459 (Muzzarelli, p. 36).
Salomone sposa Benvenuta da cui ha quattro figli, uno dei quali (Beniamino) sposa Dolcetta avendone due eredi maschi. La madre Benvenuta, il ricordato Beniamino e sua moglie Dolcetta muoiono di peste nell’arco di dieci giorni durante l’estate del 1482 (Segre, p. 165). Nel 1494 a Cesena è ucciso dalle truppe francesi di Carlo VIII, Rubino di Giacobbe (appartenente ad una dinastia di finanzieri) mentre tentava di fuggire verso Rimini. I furti commessi da quelle truppe a danno della comunità ebraica cesenate, impediscono a quest’ultima di versare alla Tesoreria pontificia la tassa dovuta nel 1494-95, come annotò il cronista cesenate coevo Giuliano Fantaguzzi (ibidem, p. 169).
A metà del quindicesimo secolo Rimini «continua a rappresentare il principale centro finanziario ebraico della Romagna» (ibidem, p. 162), dalla quale transitano gruppi provenienti dalla Marca e dall’Umbria e diretti nella pianura padana per evitare gli effetti della predicazione degli Zoccolanti contro gli Ebrei e le loro attività finanziarie caratterizzate da tassi che a Ravenna sono documentati anche al 30 ed al 40 per cento (ibidem). Al proposito va però precisato che solitamente gli Ebrei praticavano «tassi notevolmente inferiori agli usurai cristiani» (Falcioni, p. 158).
I felici rapporti intrattenuti dagli Ebrei con Sigismondo finiscono con «acuire l’intransigenza religiosa popolare e l’odio sociale» nei loro confronti. Negli Ebrei si vede espresso il sostegno ad un regime finanziariamente e politicamente aggressivo, caratterizzato da un’economia di tipo aristocratico in cui una gran massa di bisognosi s’oppone ad una corte di privilegiati (ibidem, pp. 5, 114, 159).
Legata strettamente al traffico di denaro, è l’impresa agricola gestita con il citato contratto di soccida che prevede la compartecipazione a guadagno e spese, secondo la regola «ad medietatem lucri et damni», come ricaviamo dagli atti relativi a Manuello di Genatano negli anni Ottanta del secolo quattordicesimo (sono ben cinque nell’agosto 1386). La durata del contratto variava da uno a quattro anni.
Nel 1445 Angelo di Manuello per un anno di affitto di un bue pretende tre sestari di grano che diventano quattro allo scadere dell’anno. Nel 1483 un altro affitto riguarda metà di un bue, per due sestari di grano del successivo raccolto. (Muzzarelli, p. 39)
Ci sono poi i contratti di enfiteusi, come quello che il prestatore di denaro Elia di Leone stipula nel 1397 con un Cristiano impegnandosi a fornire quanto necessario per coltivare una vigna di tre tornature (ibidem). L’enfiteusi è la concessione di un fondo con l’obbligo di migliorarlo e di pagare annualmente un canone in denaro o in derrate.
Per gli altri mestieri s’incontrano tintori come Bonaventura di Dattilo, oppure stracciaroli come Abramo di Giacobbe detto «el seccho» e Sabatuccio di Salomone (Muzzarelli, p. 40), oltre ad un Abramo di Angelo da Rimini che poi opera a Ravenna, dove è presente un suo ricco collega nel mestiere, il forlivese Daniele detto Maiucolo (Segre, pp. 159, 169).
Nel 1456 Sigismondo Pandolfo Malatesti vende una casa a Giuseppe di Manuele residente a Rimini ma proveniente da Fossombrone. Nel 1452 Manuello di Salomone di Fano vende a due Cristiani altrettanti piccoli canneti. Nel 1478 Salomone di Musetto di Rimini compra da un altro ebreo una casa in contrada San Giovanni e Paolo, e tre anni dopo una tornatura di terra arativa da un Cristiano.
Nel 1484 incontriamo Musetto di Musetto e Salomone di Musetto (forse fratelli) che acquistano rispettivamente tre tornature di terra in parte arativa, in parte a vigna ed in parte a canneto, assieme alla terza parte di un mulino «ab oleo». Musetto il padre dell’omonimo e di Salomone potrebbe esser lo stesso che è citato in un documento vaticano (Segre, p. 156) del 1436 con cui il cardinal camerlengo gli concede un salvacondotto di sei mesi per circolare liberamente nello Stato pontificio. Questo Musetto (padre) è qui definito figlio di Elia da Rimini ed appare come il tipico uomo di finanza signorile operante in Ravenna. Egli nel 1446 per cause politiche (la dominazione veneziana), e per la riduzione dei tassi dal 40 al 30 per cento (imposta nel 1441) arriva sull’orlo del disastro economico, ed è costretto a cedere al suo creditore addirittura i rotoli della «Thora» ed i paramenti rituali usati in Sinagoga (Segre, pp. 158, 162).
Ebrei riminesi appaiono anche in contratti d’affitto per lo stesso periodo di fine 1400. Uno è stipulato con frate Girolamo rettore del convento di San Giovanni per una casa in contrada San Silvestro. (Muzzarelli, pp. 40-42)
Per riassumere i caratteri economici della locale società israelitica, vale quanto i loro avversari scrivevano a Ravenna: gli Ebrei hanno «ardimento» di comprare cose stabili «contra ogni bon costume, la fede catolica et quello che per tutto el mondo se observa». Cioè l’attività di prestito è il punto di partenza per acquisire proprietà immobiliari (Segre, p. 164). Questo fa temere che essi conquistino troppa autorità e libertà, per cui si richiede di porre loro un freno. D’altra parte la Chiesa romana emana frequenti «lettere di tolleranza» allo scopo di autorizzare «e giustificare sul terreno della politica più che della fede» i banchi ebraici (ibidem, p. 163).


Terzo capitolo

Le sinagoghe ed il cimitero di Rimini
Linee di una «geografia» israelitica in città


Nel febbraio 1506 gli Ebrei riminesi decidono di realizzare il loro cimitero ed acquistano un campo di proprietà di Sigismondo Gennari e fratelli (Tonini, p. 749), posto fuori della porta di Sant’Andrea e confinante con la fossa della città («fovea civitatis»), con l’Ausa e con due appezzamenti di terra appartenenti ad Ebrei. Nel marzo 1507 il cimitero detto anche «Orto degli Ebrei» è già pronto se Stella di Deodato esprime nel proprio testamento la volontà di esservi sepolta (ibidem).
Nel 1520 il cimitero è concesso in affitto dalla comunità israelitica ad un Cristiano che s’impegna a tenerlo in modo appropriato, utilizzandone una parte ad orto, evitando il suo uso a pascolo e creando le fosse «pro sepulturis Hebreorum pauperum et miserabilium decedentium in Civitate» (Muzzarelli, pp. 41-42). Quindi non tutti nella comunità ebraica riminese erano di ceto economicamente elevato o medio.
Il documento del 1506 permette una precisa collocazione del cimitero. Nella pianta della città di Rimini disegnata da Alfonso Arrigoni e pubblicata nel 1617 nel «Raccolto istorico» di Cesare Clementini, è ben delineato il corso del canale dei Mulini che prende acqua dal Marecchia ed entra in Rimini vicino alla porta di Sant’Andrea la quale s’affaccia sull’antica via Aretina. Ancor oggi esiste la via dei Mulini che dai Bastioni meridionali scende sino alla via Venerucci (allora San Nicola, dall’omonimo oratorio sull’angolo con via Garibaldi).
Il corso del canale dei Mulini è documentato all’esterno della città nelle mappe contemporanee dell’Istituto Geografico Militare ed è schematicamente indicato entro le mura in una pianta del 1520 (Archivio di Stato di Rimini, «Carte Zanotti», busta 3), recentemente edita da Oreste Delucca (p. 37). In maniera ovviamente approssimativa la pianta indica il percorso del canale dei Mulini che all’uscita dal mulino del Comune si divide in due corsi. Uno s’avvia «in foveam civitatis», cioè alla fossa che è ricordata come confine per il cimitero ebraico. L’altro corso prosegue verso il centro della città.
Nella carta di Arrigoni il bivio fra i due corsi è invece correttamente posto sotto la chiesa di San Matteo detta «degli Umiliati». I quali erano stati chiamati a Rimini nel 1261 affinché lavorassero e facessero lavorare panni di lana di ogni genere e colore, eccettuato gli scarlatti, i verdi ed i dorati (L. Tonini, III, p. 111, e «Mille», p. 124). L’acqua che usciva dalla loro manifattura dove si usavano sapone ed argilla, doveva essere scaricata nel fiume.
La prima sinagoga è attestata sin dal 1486. S’affaccia sulla piazza della fontana (ora Cavour) dal lato della pescheria settecentesca, nella contrada di San Silvestro. Essa è poi definita come «vechia», quando è realizzata la seconda che in rogito del 1507 è chiamata «magna», nella contrada di Santa Colomba o San Gregorio da Rimini (via Sigismondo), nella porzione di quartiere tra l’odierna via Cairoli ed il Teatro Galli, lato monte. Nel 1555 la sinagoga «magna» risulta invece situata in contrada di San Giovanni Evangelista detta «delli Hebrei» (via Cairoli), a poca distanza dalla chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant’Agostino), e proprio dalla sua parte, come si ricava dal documento datato 14 novembre riguardante la decisione presa dagli Ebrei riuniti nella Sinagoga «magna» di vendere la casa detta «la Sinagoga vechia» (Zanotti, Atti, p. 207).
Della sinagoga «vechia» in questo documento del 1555 si scrive che è posta vicino («iuxta») alla strada detta «Rivolo della Fontana» o «del Corso», cioè nell’angolo della piazza Cavour con la contrada di Santa Colomba (via Sigismondo). Il «Rivolo» andava dalla piazza del Castello sino alla piazza Cavour, cambiando poi qui il nome in contrada di San Silvestro. La sinagoga «vechia» era quindi situata nella parrocchia di San Silvestro, delimitabile con il corso d’Augusto, via Cairoli e via Sigismondo e piazza Cavour. La nuova sinagoga è trasferita prima nella zona della parrocchia di Santa Colomba che è speculare verso monte rispetto alla parrocchia di San Silvestro; e poi nella parrocchia di Sant’Agostino sul lato dove sorge la chiesa.
Nel 1569, dopo che il 26 febbraio papa Pio V ha dato il bando agli Ebrei da tutte le sue terre ad eccezione di Ancona e Roma, gli israeliti di Rimini decidono di vendere l’ultima sinagoga, quella posta nella parrocchia di Sant’Agostino. Il 16 maggio il bolognese Prospero Caravita (abitante in Rimini) ed il ravennate Emanuellino di Salomone, come rappresentanti della comunità israelitica locale, stipulano l’atto relativo, consapevoli che per l’editto pontificio tutti gli Ebrei che si trovavano nella nostra città l’avrebbero dovuta abbandonare entro breve tempo. Quest’ultima sinagoga è composta di tre stanze («una domum consistentem ex tribus stantiis»): la più grande è quella dove si riunivano a pregare gli uomini, un’altra più piccola dove si adunavano a pregare le donne, ed un’altra infine posta sopra quest’ultima e sempre ad uso delle donne.
Pure questo documento ci è stato tramandato da Zanotti (Atti, pp. 152-154), ed è ricordato da Carlo Tonini nella sua preziosa storia degli ebrei Rimini, dove però non parla di una casa con tre stanze bensì di tre case distinte (VI, 2, p. 759).
Della presenza ebraica a Rimini si perdono le tracce nei due secoli successivi. Nel 1775 le cronache di Zanotti e Capobelli registrano un battesimo conferito all’Ebreo Isacco Foligno (C. Tonini, VI, 2, p. 762, nota 1). Sappiamo da documenti della Municipalità che nel 1796 gli «Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» gestivano cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi.
Il 30 maggio 1799 durante la rivolta dei marinai si registra il saccheggio di due loro botteghe. Zanotti nel suo «Giornale» del 1796 (SC-MS. 314, BGR, p. 155) scrive che i fondachi ebraici si trovavano «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi […], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni» (Dolcini, p. 495). Palazzo Valloni è quello del Cinema Fulgor, all’angolo di corso Giovanni XXIII.
Forse quegli Ebrei erano tornati a Rimini al tempo del pontificato di Clemente XIV (1769-1774) che aveva assunto un atteggiamento favorevole nei loro confronti, cercando di risollevarne le sorti economiche. Un episodio ci illumina sul suo atteggiamento: «Da cardinale il Ganganelli era stato inviato dal papa Clemente XIII a Jampol in Polonia per fare un'inchiesta, sollecitata da una ambasceria inviata al papa dagli Ebrei di quella città, su un presunto omicidio rituale. Il resoconto del Ganganelli (di cui una copia, che si trovava presso la Comunità di Roma, fu scoperta dallo storico Abramo Berliner), spiega che si trattava di un caso di suggestione collettiva» (Mascioli).


NOTA BIBLIOGRAFICA

C. Clementini, Raccolto istorico, II, Rimini 1627, p. 663
O. Delucca, Una terra fra le acque. Il borgo e il territorio Sant’Andrea nel Medioevo, in «Sant'Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 29-64
A. Dolcini, Napoleone il “bifronte”, Bologna 1996 (qui il cognome dei «Conti Bandi» cit. da Zanotti, Giornale 1796, è erroneamente riportato come «Bondi»)
A. Falcioni, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L’economia, Rimini 1998
M. G. Muzzarelli, Rimini e gli Ebrei fra Trecento e Cinquecento, «Romagna arte e storia», 10/1989, pp. 31-48
C. Ravara Montebelli, Le acque nel borgo Sant’Andrea in epoca romana, in «Sant’Andrea un borgo fra le acque», 2005, pp. 11-26
R. Segre, Gli Ebrei a Ravenna nell’età veneziana, in «Ravenna in età veneziana» a cura di D. Bolognesi, 1986, pp. 155-170
Carlo Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 1, 1887; vol. VI, 2, 1888, pp. 748-763
Luigi Tonini, Rimini dopo il Mille, a cura di P. G. Pasini, Rimini 1975
Luigi Tonini, Storia di Rimini, vol. I, 1848
Luigi Tonini, Storia di Rimini nel secolo XIII, III, 1862
Mascioli, <http://www.mascioli.info/storiaebreiitaliani.html>
A. Montanari, Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Stilgraf, Cesena 2000, pp. 671-731; e Furore dei marinai, in corso di stampa (ma leggibile in Internet)
A. Montanari, 1615, distrutto il ghetto in «Il Sito riminese del 1616, Quante storie n. 2», p. 8, «il Ponte», 20 novembre 2005
M. Zanotti, Atti, SC-MS 285, Biblioteca Gambalunga [BGR], Rimini
M. Zanotti, Giornale di Rimino 1796, SC-MS 314, BGR, Rimini
Gli scritti di Jones e Vasina sono ripresi da Studi Malatestiani, Studi storici, fascc. 110-111, Istituto storico italiano per il Medio evo, 1978
ACR, ASR = Archivio comunale, in Archivio di Stato di Rimini

Ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700
Alcuni restano in città. Una di loro si fa monaca nel 1858

[V versione, 11.06.2006]

Gli Ebrei residenti a Rimini sul finire del XVIII secolo si dichiarano «membri e dipendenti dal ghetto di Pesaro», come scrive il notaio Zanotti nel suo «Giornale di Rimino» relativamente al 1796 (Dolcini, p. 495). Dai documenti della nostra Municipalità risulta che in quell'anno gli «Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» gestiscono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi («il Ponte», 11.12.2005). Un'altra notizia relativa al 1775, tratta dalle cronache riminesi di Zanotti e Capobelli, riferisce di un battesimo conferito all'Ebreo Isacco Foligno.
Partendo da questi dati, siamo andati a cercare elementi di collegamento fra le città di Pesaro e Rimini in un importante studio di Viviana Bonazzoli («L'economia del ghetto», pp. 16-53).

Da Venezia
a Pesaro
Il cognome Foligno si trova attestato a Pesaro: un Elia Foligno nel 1787 figura fra i sindaci ed amministratori della Scuola spagnola del ghetto (p. 24). Due anni dopo, nel 1789, con la stessa carica a Pesaro troviamo indicato Moisé Aron Costantini (ib.). Nei documenti riminesi appaiono Samuel ed Elcana Costantini. La forma corretta per il secondo nome è Elcanà, come ricaviamo sempre da Bonazzoli, nel cui saggio si legge che nel 1716 «Sara Mazor vedova di Moisé di Elcanà Costantini costituisce suo procuratore il suocero», per «poter vendere et alienare li capitali che essa si trova havere in Venezia» essendo il figlio proprio Samuele ancora in età minore (p. 46).
In un testamento pesarese del 1754 si legge che una figlia di Elcanà Costantini era Consola, sorella quindi del ricordato Moisé (marito di Sara Mazor), e vedova di Leone Costantini che le aveva dato due figli, Moisé ed Elcanà. Probabilmente questo Elcanà figlio di Leone e di Consola è quello che incontriamo a Rimini nel 1796. Nel 1754 Consola Costantini designa eredi universali i figli Moisé ed Elcanà, riferendosi ad un capitale «che ella si ritrova avere nella Zecca di Alvina» cioè nel deposito del dazio del vino in Venezia (p, 47). Il richiamo a Venezia per Consola è il secondo dopo quello di Sara Mazor. La città lagunare, scrive Bonazzoli, era la regina dell'Adriatico, e la posizione di Pesaro va collocato nel sistema di scambi fra le due coste, ricordando che la «simbiosi Ragusa-Ancona» era «al tempo stesso complementare e competitiva nei confronti di Venezia». Pesaro ed altri porti adriatici secondari si trovavano «in posizione subordinata e con funzione di centri intermedi di redistribuzione e raccolta - quanto a merci in entrata e in uscita - e di collegamento fra le principali correnti degli scambi e le economie dell'entroterra» (p. 26). Tra gli altri porti secondari della costa occidentale dell'Adriatico, possiamo porre (per motivi che vedremo) anche quello di Rimini.
Sempre secondo Bonazzoli «in relazione a questo contesto adriatico dove mercati intercontinentali, mercati sovraregionali e mercati subregionali si presentano strettamente integrati», va considerato il ruolo del nucleo ebraico di Pesaro (ib.). In quel contesto va pure esaminato il significato del passaggio di alcune famiglie ebraiche da Pesaro a Rimini nel corso del 1700. Renata Segre riferisce che nel secolo XVIII le pelli d'agnello commerciate da Abramo Levi (p. 172) e dirette verso il nord Europa erano imbarcate proprio a Rimini. Se ne parla in un documento romano del 1793. Abramo Levi aveva per le mani la maggior parte di quel prodotto, e «la sua concorrenza suscitava le proteste dell'Università dei pellicciai, ultimi deboli echi di motivi antiebraici delle corporazioni di mestiere».
Sempre a proposito della presenza degli Ebrei a Pesaro (che alla fine del XVIII secolo assommano a circa 450 persone, con un aumento di una quarantina d'unità in mezzo secolo), occorre fare un salto indietro nel tempo. Bisogna riandare al 1555, l'anno della «bolla» di Paolo IV «Cum nimis absurdum» che istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa. In quell'anno Pesaro è sottoposta al dominio del duca d'Urbino, e quindi non è toccata dal provvedimento. Poi nel 1569 Pio V dà il bando agli Ebrei da tutte le sue terre, ad eccezione di Ancona e Roma. La situazione di Pesaro cambia quando nel 1631 cessa il dominio roveresco e la città passa alla Santa Sede per la morte di Francesco Maria II, con un atto di devoluzione firmato dall'arcivescovo di Urbino Paolo Emilio Santori. Anche gli Ebrei di Pesaro diventano quindi sudditi pontifici. Però, come scrive Renata Segre, «avevano motivo di ritenere che la politica di sradicamento [...] non si sarebbe estesa a loro» (p. 155). C'era il precedente verificatosi nei domini estensi che nel 1598 erano passati sotto il governo di Roma. Ma sapevano pure che anche nella Legazione di Urbino come a Ferrara «si sarebbe perseguita con durezza e intransigenza» una politica di isolamenti e conversione. Quindi gli Ebrei di Pesaro continuano a vivere nella città dopo il 1631.

Commerci
e fiere
Circa le loro attività commerciali, Segre spiega che essi frequentano le fiere annuali di Senigallia (a luglio) e di Fermo (in agosto), ma s'indirizzano pure verso il Ravennate dove tentano di sottrarre alla concorrenza degli Ebrei ferraresi «l'attività commerciale attorno al Riminese» (pp. 162-163). Il vescovo di Imola nel 1776 scrive al papa che gli Ebrei si dividono il territorio per non danneggiarsi reciprocamente come fanno i cappuccini quando vanno a cercar le «loro limosine» (p. 180, nota 76). Segre avverte però che in concorrenza con Senigallia ci sono pure le fiere di Rimini, già a partire da metà Seicento (ib.). Su queste fiere e sulla presenza in esse di Ebrei di Pesaro, Ancona Urbino diremo altra volta.
A Rimini sin dal 1500 si teneva una «fiera delle pelli», che possiamo collegare all’attività di Abramo Levi, per la ricorrenza di sant’Antonio dal 12 al 20 giugno, seguìta da quella di san Giuliano (nata nel 1351) nell’omonimo borgo (tra ponte di Tiberio e Celle) dal 21 giugno (vigilia delle festa del santo) sino a tutto luglio: il calendario resta stabile sino all’inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre (Adimari, II, p. 9). Nel 1627 esse come unica «fiera generale» retrocedono dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 si tengono dall’8 settembre all’11 novembre (C. Tonini, «Storia di Rimini», VI, I, pp. 416, nota 1, e 455), assorbendo quella di san Gaudenzio istituita nel 1509 per il mese di ottobre (ib., VI, 2, p. 865). Nel 1656 nasce invece la nuova fiera di sant'Antonio sul porto dal 6 all’11 luglio (scoperta soltanto di recente, Moroni, p. 75; Serpieri, p. 71). Nello stesso anno, non a caso, a «un tal Hebreo Banchiere» si concede di aprire un banco portando con sé la famiglia. Gli Ebrei erano stati cacciati da Rimini nel 1615 dopo una rivolta popolare con distruzione del ghetto. Nel 1666 il Consiglio cittadino rigetta (con 31 no e 14 sì) la richiesta di crearne uno nuovo.
Su questo sfondo di attività commerciali che collegano i vari centri costieri del medio Adriatico, avviene il passaggio per Rimini di mercanti ebraici, e poi il loro stabilirsi (come racconta Zanotti nel suo «Giornale»), «ne soffitti del Palazzo de Conti Bandi [...], situato lungo la via Regia in faccia al palazzo del conte Valloni», quello per intenderci del Cinema Fulgor, all'angolo di corso Giovanni XXIII.

Notizie anche
per l'Ottocento
Qui troviamo, come abbiamo scritto sopra, Abram e Samuel Levi. Il cognome Levi a Pesaro è presente in vari documenti citati da Bonazzoli. Il nostro Moisé di Bono Levi potrebbe esser figlio di Diamante a cui si riferisce un atto del 1788 dove la donna è detta vedova di Bono Levi (p. 20). L'atto si riferisce alla divisione dell'inquilinato perpetuo di una casa nel ghetto (o «jus gazagà», concesso dietro corresponsione di un canone annuo ai proprietari cristiani delle abitazioni), sino a quel momento posseduto «ab indiviso». Alla divisione partecipa anche Ester vedova di Moisé Samuel Levi. Il Samuel Levi riminese potrebbe essere un suo nipote. Nel 1792 a Pesaro è citato un Abram Levi (altro nome riminese), sindaco della locale «compagnia della Carità della scuola itagliana di questo ghetto».
Nel 1779 a Pesaro sono ricordati Elia Foligno e Salomon Mondolfo (p. 24). Questi due cognomi ricorrono di frequente a Pesaro fra 1600 e 1700. A Rimini si parla di «fratelli Foligno», per cui ogni ulteriore approfondimento è impossibile, allo stato della ricerca. Nel 1842 un Giuseppe Foligno di Pesaro è citato in un avviso a stampa di Rimini come «creditore pignorante» (SG 232). Circa i Mondolfo scrive Bonazzoli: «Frequentissime sono le relazioni fra i mercanti del ghetto di Pesaro e gli ebrei residenti a Venezia, dove le principali ditte hanno procuratori o corrispondenti; così, solo a titolo di esempio, il 21 marzo 1678, Gabriel e Isac Mondolfo sono in relazioni commerciali con Isac Baldoso, anche lui esponente di una famiglia sefardita [proveniente dalla Spagna, n.d.r.] di rilievo e stretto interlocutore dei Costantini» (p. 31). Gli stessi Costantini sono una «importante famiglia serfardita veneto-candiota» (p. 30).
Le relazioni all'interno della comunità ebraica e delle singole famiglie sono destinate a produrre riflessi pure all'interno delle città che esse toccano con i loro commerci o che abitano stabilmente. Da ciò si comprende l'importanza che, per ricostruire meglio la storia riminese, ha l'esame della presenza ebraica in città: sul quale argomento purtroppo non c'è molto da leggere.
Quando nel 1888 pubblica il secondo tomo della sua storia, Carlo Tonini denuncia il «fitto bujo» addensatosi nella memoria dei concittadini a proposito delle vicende ebraiche, e chiede scusa «se a taluno sembrasse che fossimo stati troppo minuti» nel raccontarle (p. 763). A molti esse interessavano soltanto quando per qualche «israelita» si addiveniva alla conversione. Succede per Rosa Levi che il 22 aprile 1852 riceve il Battesimo come Maria Matteini, e nel 1857 entra nel monastero di Santa Catterina di Forlì dove il 9 dicembre 1858 professa i voti, fornendo allo stesso Carlo Tonini l'ispirazione per una ode a stampa (SG 10-12).

Nota bibliografica

R. Adimari, «Sito riminese», Brescia 1616
V. Bonazzoli, «L’economia del ghetto» in «Studi sulla comunità ebraica di Pesaro», a cura di R. P. Uguccioni, Pesaro 2003, pp.16-53
M. Moroni, «Il porto e la fiera di Rimini in età moderna » in «Tra San Marino e Rimini: secoli XIII-XX», San Marino 2001, pp- 43-93
R. Segre, «Gli ebrei a Pesaro sotto la Legazione apostolica» in «Pesaro dalla devoluzione all’illuminismo», Venezia 2005, pp. 155-186
A. Serpieri, «Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra storia e cronaca», Rimini 2004
SG = Schede Gambetti, Biblioteca Gambalunga di Rimini (Ringrazio la dottoressa Cecilia Antoni della Gambalunga per la ricerca del materiale qui utilizzato.)

Le prime tre parti di questa ricerca si leggono in questa pagina.

Ebrei «necessarissimi» per Rimini
Contro la crisi nel 1670 si richiede il ghetto

Alcuni inediti documenti del XVII secolo, conservati nell'Archivio di Stato di Rimini, permettono di scrivere in maniera del tutto nuova la storia dei rapporti fra la nostra città e gli Ebrei.
Abbiamo già considerato in precedenti pagine alcuni fatti.
Nel 1548 Rimini istituisce per gli Ebrei un ghetto, sette anni prima della «bolla» di Paolo IV che lo impone in tutto lo Stato della Chiesa.
Nel 1615 il ghetto riminese è distrutto da una rivolta popolare (stando al racconto di monsignor Giacomo Villani). In essa ebbero un ruolo d'istigatori i padri Girolomini o Romiti di Scolca (a quanto si ricava da un testo del canonico Giovanni Antonio Pedroni cit. da C. Tonini, «Storia di Rimini», VI, 2, p. 761).
Nel 1656 a «un tal Hebreo Banchiere» è concessa l'apertura di un banco con la facoltà di recare con sé la famiglia. Nello stesso anno comincia la nuova fiera di sant'Antonio sul porto.
Il 16 giugno 1666 il Consiglio municipale boccia la proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto ad «utile e beneficio» della città.
Il 14 febbraio 1693 alcuni commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, ottengono l'autorizzazione ad inoltrare al pontefice la supplica per poter rientrare in città: un loro memoriale letto in Consiglio [AP 873]. Nel verbale di quella riunione si legge che «d'alcun tempo in qua» a loro era stata proibita la dimora in Rimini con danno comune sia del Monte della Pietà sia della dogana e di «altro».

Amici
romani
Il primo documento inedito che presentiamo è del 28 dicembre 1670 [AP 453].
In una lettera dei consoli di Rimini al loro procuratore romano Ceccarelli leggiamo che al papa era stata inviata la richiesta di concedere la «facoltà di poter eriggere in questa Città un nuovo Ghetto d'Hebrei».
A Ceccarelli si suggerisce di richiedere agli organi competenti che la pratica sia affidata ai due monsignori indicati nel testo, «con i quali habbiamo noi per riparare in ogni caso le difficoltà che si potessero incontrare».
Con Ceccarelli infine i consoli lamentano il ritardo nell'istruzione di quella pratica da parte dell'agente romano, Baldassare Papei.
Due altre missive inviate al procuratore Ceccarelli [19 marzo e 9 aprile 1671, AP 453] indicano i motivi che spingevano la nostra comunità a richiedere la riapertura del ghetto: occorreva portare «sollievo» economico a Rimini introducendo un «qualche poco» di commercio, fondamentale per una ripresa nelle «presenti contingenze della nuova fiera» per la quale gli Ebrei erano «necessarissimi».
La «nuova fiera», autorizzata da papa Clemente X il 13 agosto 1670, doveva tenersi (come quella del 1656) sul Porto sempre in onore di sant'Antonio da Padova, avendo come scopo di ricavarne «utile, e solievo grande» alla città ed al suo territorio.
Il regolamento, registrato in Roma il 22 febbraio 1671, ne prevedeva lo svolgimento tra il 25 maggio ed il primo giugno.
Ceccarelli aveva il compito di far da tramite fra Rimini ed un monsignore (Fani) a cui i consoli s'indirizzano il 19 marzo 1671 ribadendo che un nuovo ghetto sarebbe stato di «sollievo» alla città perché avrebbe portato ad un aumento dei traffici e «del numero delle persone tanto necessario qui alla scarsezza del Popolo, e del denaro».
Si aggiunge con il monsignore che la città aveva bisogno di uscire da uno stato di «depressione» tentando «i proprij, e più risoluti sollievi».
Se ne ricava che i riminesi cercano di rinascere con le loro stesse forze (soprattutto perché non possono confidare in aiuti esterni, date la generale situazione di crisi), ma hanno necessità di avere in città chi, come gli Ebrei, favorisse la circolazione del denaro e quindi le attività mercantili.
La richiesta del nuovo ghetto non approda a nulla perché essa era in contrasto con le norme vigenti nello Stato della Chiesa.

Perniciosi
ma utili
In un altro documento inedito, il «Bando contro gli Hebrei» emanato dal cardinal legato di Ravenna il 9 aprile 1624 si richiama una «bolla» di Clemente VIII (1592-1605) che aveva proibito agli Ebrei di aver domicilio e stanziare nello Stato ecclesiastico se non a Roma, Ancona e Ferrara.
La «bolla» dovrebbe essere del 1593. Ma il richiamo a Ferrara rimanda al 1598, quando avvenne l'annessione dei domini estensi.
Ciò premesso il legato ravennate nel 1624 scrive: «per combattere le pernizie che suol apportare a Christiani la frequenza, e la continua pratica di queste genti», si ordina agli Ebrei ancora presenti nelle sue terre di partirsene entro due giorni.
Con la proibizione del domicilio, conclude il bando del 1624, non s'intende di proibire agli Ebrei pure «che per occasione di mercantie da comprare o vendere non possano andare e capitare in tutte le città, e luoghi». E ciò in virtù di quanto concesso, poco dopo la ricordata «bolla» di Clemente VIII, da un «motu proprio» pontificio che permetteva «tre o quattro giorni per ogni soggiorno per dimorare in una città».

Per il libero
commercio
Queste disposizioni non furono sempre applicate se, come già ricordato, nel 1693 «gli Ebrei che erano soliti a venire a servire con le loro mercanzie» la città, presentano al Consiglio di Rimini un memoriale che denuncia la discriminazione attuata nei loro confronti, e che ha lo scopo di richiedere l'autorizzazione ad inoltrare una supplica al papa perché quella discriminazione cessasse.
Nel verbale consiliare si legge che la presenza degli Ebrei recava «vantaggio» a tutta la città, e che gli autori del memoriale avevano «buon mezzo a Roma per far penetrare» al pontefice i danni notevoli provocati dalla mancanza di un «libero commercio».
I testi che abbiamo citato permettono di leggere in controluce alcuni aspetti della vita sociale di Rimini di quel periodo. Nel ceto dirigente è presente la consapevolezza che soltanto il «libero commercio» può permettere una ripresa economica.
Le linee politiche locali si scontrano con il potere politico (ed ecclesiastico) centrale e periferico (cardinal legato, vescovo).
Per conseguire i risultati sperati, Rimini deve ricorrere a raccomandazioni romane che in altri documenti e in molte vicende sono una costante: esse, come nel caso del ghetto, non sempre recano i frutti sperati. (Di tutte queste raccomandazioni parleremo altra volta.)
Non esiste in quel ceto dirigente una pregiudiziale antiebraica e non si accettano passivamente da parte di esso le disposizioni romane. Anzi ci si adopera per vederle superate o sconfessate con un atteggiamento laico riscontrabile anche in altri momenti della vita del tempo (come nella cultura).
Infine credo che pesi molto la vicinanza con Pesaro, sottoposta dal 1631 al governo romano. Nella città marchigiana gli Ebrei erano diventati sudditi pontifici ed avevano continuato a risiedervi.
I consoli riminesi che reggono le sorti della municipalità nel primo bimestre del 1693 (la decisione che abbiamo riportato risale alla seduta consiliare del 14 febbraio), sono Domenico Tingoli, Scipione Diotallevi, Pietro Cima, Federico Tonti, Pasio Antonio Belmonti, Niccolò Paci, Francesco Ugolini.
Domenico Tingoli (+1716) è suocero di Scipione Diotallevi che ha sposato Maria Maddalena, nata da Maria Francesca Olivieri, pesarese, sorella di Fabio Olivieri (1658-1738, cardinale nel 1713) e cugina del Gianfranco Albani, cardinale dal 1690 e poi papa Clemente XI (1700-1721). Annibale Tingoli, fratello di Pompeo (+1616) che era il nonno di Domenico Tingoli, aveva sposato Maddalena Gambalunga sorella di Alessandro Gambalunga, il creatore delle biblioteca pubblica riminese.
Alessandro Gambalunga era marito di Raffaella Diotallevi appartenente alla stessa famiglia di Scipione genero di Domenico Tingoli. Una Violante Diotallevi era stata la prima moglie di Pompeo Tingoli. Il quale dalle seconde nozze ha Violante che sposa un Francesco Diotallevi.
Il padre di Domenico Tingoli, Carlo, ebbe come fratello il celebre Lodovico (1602-1669) che sposò Lucrezia Belmonti, alla cui famiglia appartiene un altro console del 1693, Pasio Antonio Belmonti.
Lodovico Tingoli fu aggregato alle più importanti accademie italiane, tra cui quella degli Incogniti di Venezia. E fu autore con suo nipote (acquisito) Filippo Marcheselli detto seniore, de I cigni del Rubicone (Bologna 1673). Filippo seniore (1625-1658) era figlio di Francesco Maria Marcheselli e di Cassandra Belmonti, sorella di Lucrezia moglie di Lodovico Tingoli.
Un altro figlio di Cassandra e Francesco Maria è Giovanni Battista Marcheselli che sposa Ginevra Tingoli, figlia di Lodovico e Lucrezia Belmonti, e che genera Filippo juniore (1665-1711).
Finora si era ritenuto, sulla scorta di Carlo Tonini, che Filippo Marcheselli seniore fosse figlio di una sorella non di Lucrezia Belmonti ma dello stesso Lodovico Tingoli. (La notizia corretta sulla parentela e sin qui inedita, è contenuta nel fascicolo Marcheselli, AP 731, Archivio di Stato di Rimini, Archivio storico comunale di Rimini. Tonini dal fatto che Lodovico Tingoli fosse zio di Filippo seniore, aveva concluso che il giovane fosse nato da una sorella di Tingoli stesso.)

La fiera
sul porto
Alcuni di questi Ebrei pesaresi li ritroviamo appunto nella fiera del 1671 (durata non gli otto giorni previsti, ma undici, da venerdì 22 maggio a lunedì primo giugno), assieme a colleghi di Ancona ed Urbino.
In tutto le ditte di Ebrei intervenute sono otto: tre per Ancona ed Urbino, due per Pesaro, con undici presenze che, sopra un totale di 168 presenze, rappresentano il 6,5%.
Le merci da loro introdotte in fiera con undici presenze totali hanno un valore pari al 28,25% di tutte le merci.
Gli affari invece sono magri: dei 5.914 scudi dichiarati come valore delle merci entrate, essi vendono soltanto il 16, 82%, pari a 995 scudi (cioè il 10,16% del venduto totale, pari a 9.787 scudi).
Gli anconetani vendono 110 scudi su 144; i pesaresi 450 su 1.500, gli urbinati 435 su 4.270. Il totale del venduto è di 995 scudi, su 5.914 di merci introdotte in fiera.
Questi otto mercanti ebrei lavorano nel settore tessile-abbigliamento.
Le loro undici presenze sono il 17,74% di quelle dell'intero settore, pari a 62 dei 168 ingressi complessivi in fiera per i vari settori merceologici. Il tessile-abbigliamento costituisce il 36,9% dell'attività fieristica.
Le 62 presenze dei mercanti del settore introducono merce per 15.643 scudi (sui 20.929 complessivi, pari al 74,74%), e ne vendono 6.684 su 9.791 (68,26%). Rispetto alla media del settore del 68,26, gli ebrei raggiungono, come si è detto, soltanto il 16,82%.
Un confronto fra i tipi di prodotti offerti dagli Ebrei meno favoriti nella fiera riminese e quelli di altri mercanti, non porta a riscontrare differenze di qualità (con conseguente maggior costo) che giustifichino il dato finale. Cioè se gli Ebrei complessivamente vendono di meno, ciò pare dovuto più ad un pregiudizio nei loro confronti che ad obiettivi elementi commerciali.
Se ad esempio consideriamo i panni e le «panine», vediamo che i sette mercanti che li presentano, vendono il 51,3%, contro lo zero del loro collega ebraico Leomber in uno dei suoi tre ingressi in fiera nella quale complessivamente non gli va troppo bene: vende soltanto «seta e pizzi d'oro», immaginiamo ad una clientela più benestante e con meno pregiudizi religiosi nei suoi confronti. Questo aspetto rimanda al discorso sulla distruzione del ghetto nel 1615 operata da una rivolta popolare.

Ancona, Pesaro
ed Urbino
Vediamo nei particolari l'attività di questo mercanti ebraici.
Da Ancona arrivano: Bonaventura Ireni (con «taffettà, bottoni, fasce da marinaro»; venduti 70 dei 100 scudi dichiarati), Samuelle di Salvadore (con «penne da cappello»; non vende nulla dei 4 scudi dichiarati), Iacobbe Leone (con «saie di Bergamo» [panno lucido, sottile e leggero]; vende tutti i 40 scudi entrati).
Da Pesaro provengono due ditte: Leomber e compagno (presenti tre giorni, vendono 400 scudi dei 1.300 dichiarati di seta, pizzi d'oro, «panine diverse» [panni rozzi, di scarso valore], bavella [filamento di seta] e seta); e Salomone e Bandar (con «robba sottile»; venduti 50 dei 200 scudi entrati).
Da Urbino giungono: David di Moiese (presente due giorni, con cotone di Fossombrone, saie francesi, camellotti [panno confezionato con lana mista a pelo di capra], calzette di Fabriano e «diverse robbe» dal valore di 1.200 scudi, di cui 165 venduti), Aron di Michele (lana venduta tutta per 70 scudi), e David Vinante e Sabbà da Castro (vendono 200 dei 3.000 scudi di saie e droghetto [stoffa francese di lana a basso prezzo]).

All'indice di queste pagine: "Storia degli Ebrei a Rimini".


«L'heretico non entri in fiera»
Società, economia e questione ebraica a Rimini nei secoli XVII e XVIII.
Documenti inediti
[Sintesi della comunicazione,
Rimini, Studi Romagnoli, 28.10.2007]

La questione ebraica a Rimini tra 1600 e 1700 ripropone aspetti specifici già presenti in età precedente: l'alternanza di acute tensioni e di condizioni favorevoli.
Il 10 giugno 1432 Galeotto Roberto Malatesti ha ottenuto da papa Eugenio IV un «breve» che imponeva agli ebrei riminesi il «segno» di distinzione obbligatorio.
Il «segno» era stato introdotto nel 1215 dal IV concilio lateranense sotto Innocenzo III: una rotella di stoffa gialla da portare cucita sulla parte sinistra del petto.
Due assalti ai loro banchi avvengono nel 1429 e nel 1503.
Finita la dominazione malatestiana nel 1509, agli ebrei nel 1510 è concessa l'autorizzazione a «facere bancum imprestitorum», cioè di svolgere legalmente attività finanziaria.
Nel 1515 succede l'episodio che meglio riassume i caratteri della questione ebraica a Rimini.
Il 13 aprile 1515 il Consiglio generale della città prende atto che a Rimini gli ebrei sono visti «ut inimicos», ed approva all'unanimità tre provvedimenti:
1. chiedere licenza al papa di bandirli;
2. far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi;
3. stabilire «che nell'avvenire volendo detti Ebrei continuare l'habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla».
Gli ordini del segno distintivo restano disattesi se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, essi sono ripetuti, in obbedienza anche ai decreti del 1215.
Gli ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta od alla benda gialle, ma di poter recare semplicemente un segnale sul mantello: la «rotella» di cui s'è detto.
La città ricorre al papa, «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città» stessa.

I soldati usati nel 1515 «per guardia de gli Ebrei», sono forse parte dei 600 armati già impiegati nel 1510 per volere del papa, a causa di risse e disordini politici locali.
Oppure sono i «nuovi fanti» giunti nel febbraio 1513 «per la custodia della città», afflitta da continue violenze.
Oppure sono le guardie destinate frenare i «faziosi» del contado (maggio 1513), per le quali è creata una nuova tassa.
Carlo Tonini scrisse che nel 1515 Rimini «era in tumulto per cagione degli Ebrei». È un'affermazione priva di fondamento. Non ci fu nessun tumulto «degli Ebrei», ma semmai «contro» di loro. La gente li considerava (scrive Tonini), «quali nemici della Religione e promotori di scandali». («Ut inimicos» abbiamo letto nel verbale del Consiglio generale sotto la data del 13 aprile.)
Nel 1515 si vuol semplicemente far pagare alla comunità ebraica la spesa militare degli ultimi cinque anni, fatta però non per colpa sua. In quell'anno, come osserva lo stesso Carlo Tonini, «fra gli altri mali eravi quello, di tutti forse peggiore, della mancanza di pecunia».
La questione ebraica a Rimini nel 1515 si sovrappone perfettamente con il clima di guerra civile provocato, dopo la morte di Sigismondo Pandolfo Malatesti (1468), dalle due fazioni in lotta.
Nel luglio 1512, con la vana speranza di pacificare la città, si sono istituiti i «signori Venti di Giustizia», attribuendogli «facoltà assoluta di punire, e condannare». Ma neppure essi, sul finire dello stesso 1512, hanno potuto evitare l'uccisione di Vincenzo Diotallevi.
È uno dei tanti delitti politici che si susseguono dal 1470. Delitti che, come ha osservato Rosita Copioli, continueranno «a far colare sangue» per un secolo.

Nel 1540 la Municipalità è costretta ad intervenire per difendere gli ebrei, con l'intimazione ai cristiani di non colpire gli usci e le finestre delle loro case.
Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale obbliga gli ebrei riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove si trovavano.
Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che il 17 luglio 1555 istituirà il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa, secondo il modello realizzato nel 1516 dalla Repubblica di Venezia.
Il 27 marzo 1549 agli ebrei di Rimini è imposta una contribuzione straordinaria per il «Sacro Monte della Pietà», nato nel 1501 proprio per fare concorrenza ai prestatori israeliti. Al «Monte» però gli ebrei riminesi non possono accedere.


Le norme discriminatorie dettate da Paolo IV contro gli ebrei nel 1555, sono attenuate nel 1562 da Pio IV.
Nel 1569 Pio V dà il bando agli ebrei da tutte le sue terre entro tre mesi, ad eccezione di Roma e d'Ancona, con la «bolla» Hebraeorum gens sola, anticipata nel 1566 dalla Romanus Pontifex di Pio V.
Rimini va controcorrente. Il 9 dicembre 1586 il Consiglio generale autorizza a risiedere nel ghetto cittadino gli ebrei titolari di licenza per abitare nello Stato della Chiesa.
Il 22 dicembre 1586 gli ebrei chiedono al Consiglio di poter continuare a vivere «familiariter» al di fuori del ghetto, dove si rifiutano di permanere. Non ricevono risposta, a quanto risulta.

Soltanto il 19 settembre 1590 in Consiglio è presentata la proposta di approntare gli strumenti giuridici per cacciare dalla città gli ebrei che non l'avevano ancora abbandonata, e che sono equiparati a «vagabondi e forestieri».
Approvata a larghissima maggioranza, la decisione è destinata a restare senza risultato, grazie ad una aggiunta secondo cui l'espulsione sarebbe avvenuta nel «caso si potesse e vi fosse Motu proprio o Breve pontificio». Gli ordini papali c'erano già (bando del 1569).
Nel 1593 Clemente VIII (1592-1605) delibera l'espulsione definitiva degli ebrei dallo Stato della Chiesa, fatta di nuovo eccezione per Roma ed Ancona (come nel bando del 1569).

Dopo il 1593 dunque a Rimini non dovrebbe esserci più alcun ebreo. Ma non è così. Nel 1615 una rivolta popolare distrugge il loro ghetto posto «in Via S. Andrea o S. Onofrio».
La rivolta popolare è favorita (se non promossa) dall'atteggiamento della Chiesa locale e di alcuni nobili. Tra i quali figura un personaggio di spicco nella vita curiale e politica romana, Giovanni Galeazzo Belmonti, vice gran priore dell'Ordine militare di Santo Stefano.
Nel 1624 Roma proibisce agli ebrei il domicilio nello Stato ecclesiastico, ma non il soggiorno in qualsiasi luogo o città «per occasioni di mercantie», secondo la regola introdotta da Clemente VIII per periodi massimi di tre o quattro giorni.

Il 15 maggio 1656 a Rimini un «Gentilhuomo Hebreo di questa Città» (forse un componente della famiglia Gentilomo, attestata a Pesaro), si fa mallevadore di «un tal Hebreo Banchiere», al quale è concesso di aprire il banco con la facoltà di tenere presso di sé la famiglia.
Il 16 giugno 1666 il Consiglio generale riminese boccia la proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto, ad «utile e beneficio» della città.
Rimini è sulla linea commerciale che dalle coste marchigiane porta a quelle ferraresi, entrambe controllate dai mercanti ebraici. I domini estensi nel 1598 sono passati sotto il governo di Roma, come accaduto a Pesaro nel 1631.
Sul finire del 1670, la Municipalità riminese inoltra (inutilmente) al papa la richiesta di concedere la «facoltà di poter eriggere in questa Città un nuovo Ghetto d'Hebrei».
Ci si giustifica con la necessità di portare «sollievo» economico a Rimini per mezzo di un «qualche poco» di commercio, fondamentale per una ripresa nelle «presenti contingenze della nuova fiera», per la quale gli ebrei sono considerati «necessarissimi».
Nel 1693 gli ebrei chiedono di essere autorizzati a rivolgersi direttamente al pontefice per poter ottenere di rientrare in città. E fanno presente di avere a Roma un «buon mezzo» per comunicare con il papa.
Il 17 febbraio 1693 il Consiglio generale discute il memoriale di quei commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, e concede loro l'autorizzazione ad inoltrare al papa la supplica desiderata.
Come sia andata a finire la faccenda a Roma, non è dato di sapere.

La votazione del 1693 rovescia l'atteggiamento del Consiglio generale circa la presenza ebraica. I contrari sono soltanto due su 43. Erano stati 31 su 45 nella votazione del 16 giugno 1666 circa la richiesta di ricostituire il ghetto.
Nel verbale del 17 febbraio 1693 si legge pure che «d'alcun tempo in qua» agli ebrei era stata proibita la dimora in Rimini con «danno comune» sia del «Monte della Pietà», sia della dogana, sia di «altro per la loro assenza».
Gli israeliti erano dunque tornati ad essere presenti a Rimini dopo la distruzione del ghetto nel 1615. Nel loro memoriale si dichiara che «l'avergli levato il libero commercio» aveva provocato «danni notabili» a tutta la vita cittadina.

Il memoriale è del 1693. L'anno prima a Ferrara (la cui realtà economica era caratterizzata dalla predominanza ebraica), è stato introdotto dal cardinal legato Giuseppe Renato Imperiali il «libero commercio» dei grani (anche se per soli dodici mesi), nella provincia e fuori di essa, ripetendo analogo provvedimento pontificio di Clemente IX (1667-69).
Il memoriale riminese del 1693 sembra rispondere alle attese del governo cittadino, il quale tenta di realizzare una propria politica, autonoma da Roma, nei confronti degli ebrei, non in nome di astratti princìpi ma in virtù di concretissime ragioni di generale convenienza economica.

Nel 1660 avviene a Rimini un episodio emblematico.
L'«Hebreo Servadio» è fatto prigioniero per esser stato trovato «senza licenza di dimorarvi», assieme al «suo amico» David.
Servadio è salvato dalla pena corporale dei «tre tratti di corda» grazie all'intervento presso il vicario vescovile, di «Girolamo Giordani, gentilhuomo di Pesaro», di passaggio a Rimini.
Servadio è multato di dodici scudi destinati alla Curia, e di due scudi per la cancelleria. La somma è pagata per lui da «un tal Gioseffo Montefiore hebreo di Pesaro».
Servadio e David inviano un memoriale di protesta al Sant'Offizio.
Il Sant'Offizio chiede al governatore riminese Angelo Ranuzzi «una sincera, ed esatta informazione della verità del fatto».
Nel frattempo il vicario ottiene da Servadio la dichiarazione di non aver presentato alcun ricorso a Roma.
Ma Roma ordina a Ranuzzi che siano restituiti a Servadio i dodici scudi della multa, con la spesa di uno scudo per la cancelleria.
Ranuzzi esegue, ed informa Roma della richiesta fatta a Servadio dal vicario di una smentita circa il memoriale inoltrato dall'ebreo al Sant'Offizio. Richiesta a cui Servadio s'è sottomesso allo scopo di evitare ulteriori fastidi.

Ritorniamo al 1656 ed alla concessione al «Gentilhuomo Hebreo» di aprire il banco a Rimini, tenendo presso di sé la famiglia.
Il 1656 è anche l'anno in cui a Rimini prende avvio la nuova fiera di sant'Antonio sul porto (dal 6 all'11 luglio), ripetuta nel 1659 e sospesa nel 1665 dal governatore.
Essa riprende dal 1671 al 1680 con una continua diminuzione del «concorso» di mercanti e compratori. Per cui porta soltanto «incomodo» ai commercianti locali.
Abbiamo visto che nel 1670 Rimini chiede al papa «un nuovo Ghetto d'Hebrei», «necessarissimi» nelle «presenti contingenze della nuova fiera».
Nel 1678 non c'è disponibilità di moneta per gli affari della fiera, «per non essere seguiti li raccolti».
Nel 1691 la fiera ritorna, senza smalto e senza gli effetti positivi sperati.

Alla fiera del 1671 (durata undici giorni anziché gli otto previsti), sono presenti otto ditte di ebrei, tutte del settore tessile-abbigliamento: tre di Ancona, tre di Urbino, due di Pesaro.
Le merci da loro introdotte hanno un valore pari al 28,25% del totale.
Gli affari invece sono magri, immaginiamo non per la qualità dei prodotti offerti ma per il pregiudizio religioso nei loro confronti.
Essi vendono soltanto il 16,82% dei loro prodotti, cioè il 10,16% del venduto totale della fiera. La media generale del venduto è del 46,71% contro il 10,16 degli ebrei.

La prima notizia del diciottesimo secolo relativa alla presenza ebraica a Rimini, risale al 1775 e riguarda il battesimo di Isacco Foligno, di probabile origine pesarese.
Nel 1796 alla fine di giugno, la contribuzione per i francesi è imposta pure agli ebrei. I quali sono arrestati «onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli».
Appartengono a cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcanà Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi.
Quegli ebrei, «dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini», temendo, nel «passaggio delle Truppe Francesi», di poter esser «molestati per raggion d'avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello», ottengono di toglierlo dopo il versamento alla comunità riminese di un «dono gratuito» di cinquecento scudi.
Il «dono» è fatto, come scrivono i consoli di Rimini, «in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi». La Municipalità, soddisfatta della generosa offerta, versata oltretutto in moneta e non in oggetti preziosi, tralascia di sottolineare che essa andava contro le leggi.

Nel 1799, il 30 maggio, la rivolta dei marinai, a cui s'accodano quelli che il mercante-cronista Nicola Giangi chiama «li birbanti di Città», si conclude con il saccheggio anche di due botteghe gestite da ebrei.
Il notaio-cronista Zanotti descrive l'episodio come opera degli «insorgenti» antifrancesi che egli (da convinto legittimista) però distingue dai «rivoltosi» i quali, spinti dal «maligno furore della Plebaglia», agiscono invece contro la cosa pubblica.

In un documento romano del 1793 si parla delle pelli d'agnello commerciate da Abramo Levi, imbarcate proprio a Rimini, e dirette verso il nord Europa.
A Rimini sin dal 1500 si teneva una «fiera delle pelli» per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno. Da essa deriva la fiera che nasce sul porto nel 1656, dedicata a sant'Antonio. Il 1656 è l'anno in cui si concede ad un israelita di aprire il banco.

Per quanto sconosciuto nella sua precisa identità, questo «Hebreo Banchiere» è simbolo della tesi sostenuta da Maria Grazia Muzzarelli per la realtà cesenate del Quattrocento: gli ebrei sono stati considerati «da sfruttare sempre, tollerare a tratti e vessare ogni volta che» ce ne fosse bisogno politicamente.

Al testo completo di "Heretico"
Indice della "Storia degli ebrei a Rimini"

Antonio Montanari.
«L'heretico non entri in fiera»
Società, economia e questione ebraica a Rimini nei secoli XVII e XVIII.
Documenti inediti
[Testo a stampa, Studi Romagnoli 2007]

1. L'«ultima ruina» da papa Urbano VIII[1]

Gli ebrei sono stati «considerati dei “diversi” da sfruttare sempre, tollerare a tratti e vessare ogni volta che si verificavano esigenze di maggiore compattezza ed uniformità» [2]. Le conclusioni tratte da Maria Grazia Muzzarelli per la realtà cesenate quattrocentesca, valgono anche per la vicenda politica riminese di età successiva, argomento di queste nostre pagine. Il titolo datovi, «L'heretico non entri in fiera», sintetizza un passaggio dei Capitoli sulla fiera del 1671 alla quale avrebbe potuto «liberamente venire, andare, e pratticare, vendere e comprare ogni sorte di Persone, eccettuati Heretici, Scismatici, Ribelli di S. Chiesa, Banditi di vita, e condannati, acciò che li Mercanti, che vi vengano possino assicurarsi da essi» [3]. Gli ebrei, normalmente evitati dai cristiani al pari di «Heretici, Scismatici, Ribelli di S. Chiesa», non figurano nella lista degli esclusi per il motivo magistralmente indicato dalla Muzzarelli. Non accettati e riconosciuti dalle istituzioni, essi sono tollerati nella speranza che la loro presenza permetta di uscire da una situazione di grave depressione economica.
Attraverso l'esame dei rapporti intercorsi nei secoli XVII e XVIII fra Rimini ed i gruppi ebraici che la abitarono o frequentarono [4], tenteremo di riassumere la vita sociale della città, delineando aspetti inesplorati dell'azione politica della classe dirigente locale. La quale si scontrò continuamente con il potere centrale del governo ecclesiastico, e con quello periferico del clero cittadino arroccato nella difesa di privilegi e di esenzioni [5]. Nel 1659 il cardinal legato Giberto Borromeo [6] può lamentare d'aver visto messa a dura prova la propria pazienza nelle discussioni con gli amministratori riminesi durate «sette, et otto hore continue». E ne ricava l'implicito ammonimento impartito al governatore della città Angelo Ranuzzi, che il «grave sconcerto» in cui versava Rimini è la conseguenza del comportamento di quegli stessi amministratori, «disapplicati» a ben dirigere gli affari pubblici [7]. Il «tedio» di cui Borromeo parla con Ranuzzi, e che ha sperimentato in quelle discussioni, nasce probabilmente da un fatto: gli amministratori circa la crisi riminese [8] avevano opinioni diverse dalle sue, e insistevano sopra un punto particolarmente indigesto al legato ed al clero. La città, secondo gli amministratori riminesi, era stata condotta all'«ultima sua ruina» dalle spese militari imposte pochi anni prima (1641-1644) da Urbano VIII, come la Municipalità spiega alla Congregazione del Buon Governo [9].
Anche per motivi meno gravi ma non per questo di minore importanza, Rimini doveva incessantemente discutere sia con il vescovo della città sia con le autorità romane. Basti qualche esempio. Nel 1668 papa Clemente IX scioglie la Congregazione dei Girolamini che a Rimini dal 1517 aveva in affidamento la chiesa della Colonnella, il cui juspatronato era stato riconosciuto nel 1506 da papa Giulio II alla Municipalità [10]. Il vescovo vuol togliere alla comunità il diritto di nominarne i cappellani [11]. I consoli ribadiscono alla Congregazione della soppressione [12] che già nel 1622 i Girolamini «fecero litigio con il Publico, ma furono costretti a mantenere il jus patronato del Publico». La Congregazione temporeggia. Il vescovo Marco Gallio cerca anche di far «applicare» la chiesa della Colonnella al seminario vescovile, il che appare agli amministratori locali «stravagante e cosa molto disdicevole» [13]. Rimini replica a Roma che non potevano esserle tolti i propri diritti né dal vescovo né dal legato né dalla sede apostolica [14]. La morte di Clemente IX (9 dicembre 1669), e la sede vacante sino al 29 aprile 1670 quando è eletto Clemente X, bloccano la pratica. Soltanto nel gennaio 1671 la città, grazie ai buoni uffici del futuro cardinale Gasparo di Carpegna, pro-datario e vicario generale ma soprattutto ex vescovo di Rimini (1656-1659), ottiene parziale soddisfazione: restava aperto il discorso sui beni della chiesa [15]. Di una «lite» intercorsa fra la Municipalità ed un Ordine religioso, è traccia in carte relative al monastero di San Giuliano ed alla fiera su cui diremo infra e che si svolgeva nell'omonimo borgo. In occasione di essa i monaci volevano affittare alcune stanze di loro proprietà. La Municipalità si oppone, non ritenendole «opportune ad abitazione di onorati mercatanti», in quanto erano state ridotte dal monastero «a stalle d'animali, et a postriboli di femmine di mondo» [16]. Indicativa dell'ingerenza romana negli affari cittadini, è una vicenda del 1775: Pio VI, a proposito della gestione della riminese «Eredità Gambalunga», sospende gli effetti del testamento di Alessandro Gambalunga (fondatore dell'omonima biblioteca, dal 1619 la prima in Italia ad essere civica) e, anziché tutelare, come l'atto prevedeva, i diritti di quattro «Luoghi Pii», interviene per riparare alle «tante dissipazioni» e ad una mole «smisurata di debiti» che stavano portando verso la «total ruina» gli eredi di quella famiglia [17].
Il governatore Ranuzzi nel 1660 stila un ritratto di Rimini in cui si mescolano sagaci annotazioni ed ammonimenti di pedagogia politica [18]. Detto che i suoi cittadini sono «più dediti all'amoreggiare, che al combattere», e che «quasi tutti i delitti sono commessi» dai contadini in campagna, Ranuzzi osserva che i nobili per apparire eleganti sperperano con grande facilità tutto il loro patrimonio [19]. Nessun dubbio esiste circa l'incapacità dei nobili non soltanto riminesi di sapersi amministrare (come i fatti dimostrano ampiamente). Ma Ranuzzi nello scrivere quel ritrattino al curaro era forse guidato soltanto da un suo privato livore verso quanti reggevano la cosa pubblica, piuttosto che dal desiderio di recare un contributo alla comprensione di una società in crisi tremenda anche per colpa della politica romana. L'alleanza fra aristocratici e potere ecclesiastico regge sino all'arrivo dei francesi in Italia nel 1796, mentre una nuova menta¬lità sta diffondendosi in Europa, sulla scia della bufera dell'Ottantanove con i conseguenti risvolti giuridici e politici [20]. La contribuzione richiesta dai francesi alle città occupate manu militari è l'occasione per rompere ogni infingimento e denunciare che i capitali degli ecclesiastici erano «morti, e di solo lusso», in virtù di considerazioni politiche ed economiche che inserivano Rimini nel circuito dei lumi lombardi di Beccaria [21].
Se l'ascesa dei «giacobini» locali è la pagina conclusiva di una vicenda che contrappone Municipalità e Chiesa, il momento in cui (un secolo prima) si prende coscienza della necessità di gestire la città seguendo una linea di indipendenza nei confronti di Roma, è il 1670 quando Rimini chiede «un nuovo Ghetto d'Hebrei» [22], considerati «necessarissimi» [23] all'economia cittadina da decenni in ginocchio. Nel 1666 in Consiglio era stata bocciata analoga proposta [24], legata alla nuova fiera [25] sul porto autorizzata nel 1656, ripetuta nel 1659 e sospesa nel 1665 dal governatore. Essa riprenderà [26] dal 1671 al 1680 con una continua diminuzione del «concorso» di mercanti e compratori [27] per cui non porta «se non incomodo» ai commercianti locali [28]. Soltanto nel 1691 la fiera ritorna [29], senza smalto e soprattutto senza gli effetti positivi sperati.
Alla fiera del 1671 (durata undici giorni anziché gli otto previsti), sono presenti otto ditte di ebrei [30], tutte del settore tessile-abbigliamento. Tre sono di Ancona, tre di Urbino, due di Pesaro [31]. Le merci da loro introdotte hanno un valore pari al 28,25% del totale. Gli affari invece sono magri, immaginiamo non per la qualità dei prodotti offerti dagli ebrei, ma per un pregiudizio religioso nei loro confronti. Dei 5.914 scudi dichiarati come valore delle merci entrate, le otto ditte di ebrei vendono soltanto il 16,82%, pari a 995 scudi [32], cioè il 10,16% del venduto totale della fiera, pari a 9.787 scudi. Nel 1693 alcuni ebrei che erano «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini prima che fosse loro proibito «d'alcun tempo in qua», ottengono di poter inoltrare al papa un memoriale per farvi ritorno [33]. Essi sostengono che «l'avergli levato il libero commercio» ha provocato alla città un «danno comune».
La questione ebraica è una specie di cartina di tornasole nell'analisi dei due fronti: quello statuale-religioso da una parte, e dall'altra quello amministrativo locale. Il potere statuale-religioso (centrale e periferico) appare rigorosamente vessatorio ed intollerante man mano che si scende dai vertici ecclesiastici alla base del clero. A sua volta il clero influenza e condiziona il comportamento ostile delle masse popolari verso gli ebrei, fatti oggetto di scherno e violenze. Il governo cittadino ad un certo punto tenta di realizzare una propria politica autonoma da Roma nei confronti degli israeliti, non in nome di astratti princìpi ma in virtù di concretissime ragioni di generale convenienza economica. I mercanti ebraici scrivono il loro memoriale nel 1693, l'anno dopo che a Ferrara (la cui realtà economica era caratterizzata dalla predominanza del ceto ebraico [34]), è stato introdotto dal legato Giuseppe Renato Imperiali il «libero commercio» dei grani, anche se per soli dodici mesi, nella provincia e fuori di essa [35], ripetendo analogo provvedimento pontificio di Clemente IX (1667-69). Il libero commercio (già realizzato a Rimini nel 1468 sotto il governo di Isotta, Roberto e Sallustio Malatesti per mercanti cittadini e forestieri), sarà riconosciuto nello Stato della Chiesa, per eliminare il contrabbando [36], dalla Constitutio di Benedetto XIV nel 1748, in cui si dichiara come la sua proibizione nel passato fosse stata eseguita dalla Inquisizione «con tale asprezza» da rovinare le «povere» famiglie di «buona parte de' Possidenti, coloni e contadini» [37].

2. Per «un nuovo Ghetto d'Hebrei»

Su questo sfondo possiamo rievocare un emblematico episodio del 1660. L'«Hebreo Servadio» [38] è fatto prigioniero per esser stato trovato a Rimini «senza licenza di dimorarvi», assieme al «suo amico» David. Salvato dalla pena corporale dei «tre tratti di corda» per intervento presso il vicario vescovile, del signor «Girolamo Giordani, gentilhuomo di Pesaro» [39] di passaggio a Rimini, Servadio è multato di dodici scudi destinati alla curia e di due scudi per la cancelleria. L'intera somma è pagata per lui da «un tal Gioseffo Montefiore hebreo di Pesaro» [40]. Servadio e David inviano un memoriale di protesta al Sant'Offizio. Il quale chiede al governatore riminese Ranuzzi «una sincera, ed esatta informazione della verità del fatto» [41]. Nel frattempo il vicario vescovile di Rimini ottiene da Servadio la dichiarazione di non aver presentato alcun ricorso a Roma. Ma Roma ordina a Ranuzzi che siano restituiti a Servadio i dodici scudi della multa [42], con la spesa di uno scudo per lo «zoco» (emolumenti della cancelleria). Ranuzzi esegue ed informa Roma della richiesta fatta a Servadio dal vicario per la smentita circa il memoriale inoltrato dall'ebreo al Sant'Offizio. Richiesta a cui Servadio s'è sottomesso per evitare ulteriori fastidi. Dieci anni dopo, nel 1670, la Municipalità inoltra inutilmente al papa la richiesta di concedere la «facoltà di poter eriggere in questa Città un nuovo Ghetto d'Hebrei» [43], giustificandola con la necessità di portare «sollievo» economico a Rimini per mezzo di un «qualche poco» di commercio, fondamentale per una ripresa nelle «presenti contingenze della nuova fiera» per la quale gli ebrei sono ritenuti «necessarissimi» [44]. La vicenda economica locale s'intreccia con la più generale questione ebraica. Partiamo da quest'ultima, riassumendola in ordine cronologico.
Il 10 giugno 1432 Galeotto Roberto Malatesti ottiene da papa Eugenio IV un «breve» che impone agli ebrei riminesi il «segno» di distinzione obbligatorio, del resto già introdotto dal IV concilio lateranense del 1215 sotto Innocenzo III: una rotella di stoffa gialla cucita sulla parte sinistra del petto. Nel 1433 il podestà di Cesena adotta analogo provvedimento, valido anche per Bertinoro e Meldola. Il signore di Cesena Domenico Malatesta Novello, dietro supplica di due banchieri ebraici, Masetto Angeli e Leone Zenatani, ordina la revoca del provvedimento, per mantenere buoni rapporti con la società israelitica tanto utile alla città con i propri traffici mercantili e monetari. Nel 1501 nasce a Rimini il «Sacro Monte della Pietà» per fare concorrenza ai prestatori ebraici [45]. Due assalti ai loro banchi avvengono nel 1429 e nel 1503. Nel 1510 è concessa loro l'autorizzazione a «facere bancum imprestitorum», cioè di svolgere legalmente attività finanziaria [46].
A Rimini il 13 aprile 1515 il Consiglio generale, preso atto che gli ebrei sono visti in città «ut inimicos» [47], approva all'unanimità tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandirli; far loro pagare le spese [48] per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi [49]; ed infine stabilire «che nell'avvenire volendo detti Ebrei continuare l'habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla» [50]. Restano disattesi questi ordini del segno distintivo se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco [51], essi sono ripetuti in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio» lateranense del 1215. Gli ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta od alla benda gialle (secondo il sesso), ma di recare semplicemente un segnale sul mantello [52]. La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città» [53]. Circa i soldati usati nel 1515 «per guardia de gli Ebrei», va precisato che essi forse sono parte dei seicento armati impiegati nel 1510 (per volere del papa, a causa di risse e disordini politici); oppure dei «nuovi fanti» giunti nel febbraio 1513 «per la custodia della città», afflitta da violenze continue d'ogni sorte, e delle guardie destinate a frenare i «faziosi» del contado (maggio 1513), per le quali è creata una nuova tassa. Si può ipotizzare che nel 1515 si vogliano far pagare alla comunità ebraica le spese militari registrate negli ultimi cinque anni. Soprattutto perché in quell'anno «fra gli altri mali eravi quello, di tutti forse peggiore, della mancanza di pecunia» [54].
Nel 1540 la Municipalità è costretta ad intervenire per difendere gli ebrei, con l'intimazione ai cristiani di non colpirne le case ad usci e finestre. Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale obbliga gli ebrei riminesi [55] a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano (San Silvestro, Santa Colomba e San Giovanni Evangelista). Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che con la «bolla» Cum nimis absurdum del 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa, seguendo il modello realizzato nel 1516 dalla Repubblica di Venezia. Il 27 marzo 1549 agli ebrei è imposta una contribuzione straordinaria per il Monte di Pietà [56]. Al quale però gli stessi ebrei non possono accedere [57]. La «bolla» pontificia del 17 luglio 1555 induce la nostra Municipalità il successivo 20 agosto a delimitare la zona in cui agli ebrei è permesso di risiedere, ovvero la sola contrada di Sant'Andrea [58] corrispondente all'odierna via Bonsi, in un tratto che va dall'angolo degli attuali Bastioni Occidentali (detti allora «Costa del Corso») sino all'oratorio di Sant'Onofrio. All'inizio ed alla fine del ghetto erano stati posti due portoni. Nel 1557 il ghetto è già realizzato. Vi si trasferiscono i dodici nuclei famigliari esistenti in città [59]. Nel 1562 la Municipalità proibisce (29 aprile) ai cristiani di abitare nella contrada degli ebrei [60], ma autorizza (14 ottobre) il ricco ebreo Ceccantino di avere casa «extra ghettum» [61]. Sabato 26 febbraio 1569 Pio V dà il bando agli ebrei da tutte le sue terre entro tre mesi, ad eccezione di Roma e d'Ancona [62].
Rimini va controcorrente. Il 9 dicembre 1586 il Consiglio generale autorizza gli ebrei con licenza di abitare nello Stato della Chiesa, a risiedere nel ghetto cittadino [63]. Il 22 dicembre 1586 essi chiedono allo stesso Consiglio di poter continuare a vivere «familiariter» a Rimini al di fuori del luogo detto «il ghetto», dove si rifiutano di permanere. Non ricevono risposta, a quanto risulta dalle carte [64]. Soltanto il 19 settembre 1590 in Consiglio [65] è presentata la proposta di approntare gli strumenti giuridici per cacciare dalla città gli ebrei che non l'hanno ancora abbandonata, e che sono equiparati a «vagabondi e forestieri». Approvata a larghissima maggioranza, la decisione è destinata a restare senza risultato, grazie ad una aggiunta secondo cui l'espulsione sarebbe avvenuta nel «caso si potesse e vi fosse Motu proprio o Breve pontificio». Il cavillo giuridico contraddiceva l'esito del voto stesso. Gli ordini papali c'erano già (bando del 26 febbraio 1569), ma non erano stati applicati. Nel 1593 Clemente VIII delibera l'espulsione definitiva degli ebrei dallo Stato della Chiesa, fatta di nuovo eccezione per Roma ed Ancona, sulla scia del provvedimento di Pio V del 1569.
A Rimini gli ordini di Clemente VIII restano disattesi se gli ebrei sono ufficialmente scacciati dalla città soltanto nel giugno 1615, quando una rivolta popolare (favorita dall'atteggiamento della Chiesa locale, in modo particolare dei padri Girolamini o Romiti di Scolca [66] e di alcuni nobili [67]) distrugge il loro ghetto posto «in Via S. Andrea o S. Onofrio, e in quella occasione si vide l'odio popolare contro quella gente» [68]. Nel 1624, per combattere «la pernizie che suol apportare a Christiani la frequenza, e la continua pratica» con gli ebrei, è pubblicato da Roma un bando che proibisce loro il domicilio nello Stato ecclesiastico, ma non il soggiorno in qualsiasi luogo o città «per occasioni di mercantie» [69] secondo la regola introdotta dal ricordato Clemente VIII (il fanese Ippolito Aldobrandini, 1592-1605) per periodi massimi di tre o quattro giorni. Il 15 maggio 1656 a Rimini un «Gentilhuomo Hebreo di questa Città» (forse un componente della famiglia Gentilomo, attestata a Pesaro), si fa mallevadore di «un tal Hebreo Banchiere, di cui si dirà a suo tempo», al quale è concesso di aprire un banco con la facoltà di tenere presso di sé la famiglia [70]. Il 16 giugno 1666 il Consiglio generale boccia (pro 14, contra 31) la ricordata proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto ad «utile e beneficio» della città [71]. La richiesta va inquadrata nella situazione storica dello Stato della Chiesa ed in quella geografica particolare di Rimini. La città è sulla linea commerciale che dalle coste marchigiane porta a quelle ferraresi, entrambe controllate da mercanti ebraici. I dominii estensi [72] nel 1598 sono passati sotto il governo di Roma, come accadde a Pesaro nel 1631, dopo che è cessato il potere roveresco [73] per la morte di Francesco Maria II.
Nel 1693 gli ebrei cambiano politica. Non lasciano decidere al Consiglio generale come nel 1666, ma chiedono ad esso di essere autorizzati a rivolgersi direttamente al pontefice per poter ottenere di rientrare in città. Essi fanno presente al Consiglio di avere a Roma un «buon mezzo» per comunicare con il papa. Il 17 febbraio 1693 il Consiglio [74] discute il memoriale di quei commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, e concede loro l'autorizzazione ad inoltrare al pontefice la supplica desiderata. Come sia andata a finire la faccenda a Roma, la Storia non lo dice. Invece i documenti riminesi contengono tra le pieghe altri interessanti elementi. Anzitutto nella votazione del 17 febbraio 1693 (pro 41, contra 2), si rovescia l'atteggiamento dei consiglieri a riguardo della presenza ebraica, rispetto a quella del 16 giugno 1666 per ricostituire il ghetto (pro 14, contra 31). Nel verbale del 17 febbraio 1693 poi si legge che «d'alcun tempo in qua» agli ebrei era stata proibita la dimora in Rimini con «danno comune» sia del Monte della Pietà sia della dogana e di «altro per la loro assenza». Gli israeliti erano dunque tornati ad essere presenti a Rimini dopo il 1615. Nel loro memoriale del 1693 si dichiara che «l'avergli levato il libero commercio» aveva provocato «danni notabili» alla vita cittadina.


3. Le fazioni annientano Rimini

Agli ebrei si addossavano responsabilità politiche che invece hanno altre cause negli eventi riminesi successivi alla scomparsa di Sigismondo Pandolfo Malatesti (9 ottobre 1468). Il breve governo di Isotta, Roberto e Sallustio è diviso sui rapporti con Milano per cui parteggia Roberto, e con Venezia, sostenuta da Isotta e Sallustio. Nell'agosto 1469 le truppe pontificie bombardano con 1.122 colpi la città e distruggono quasi completamente il Borgo Nuovo di San Giuliano. Sallustio l'8 agosto 1470 è ucciso dietro la casa della famiglia Marcheselli a cui apparteneva la giovane della quale egli s'era invaghito [75]. Ed un cui componente, Giovanni Marcheselli, è accusato del delitto. Linciato dal popolo e ridotto in fin di vita, Giovanni Marcheselli [76] è lasciato morire vicino all'anfiteatro. Le autorità fanno bruciare il suo cadavere quattro giorni dopo. I Marcheselli subiscono la condanna dell'esilio. La situazione riminese peggiora nel 1482 alla scomparsa di Roberto «il Magnifico» con la successione del figlio Pandolfo IV detto Pandolfaccio. Dieci anni dopo, il 6 marzo 1492, Raimondo Malatesti, discendente della collaterale «branca Almerici», è ucciso dai figli di suo fratello Galeotto Lodovico, tutore di Pandolfaccio (nato nel 1475). L'uccisione di Raimondo è considerata da Clementini all'origine di tutti i mali che affliggono successivamente Rimini, ovvero «il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori» Malatesti e della loro casa [77]. Il 31 luglio 1492 Pandolfo e Gaspare sono utilizzati dal padre Galeotto Lodovico per una congiura contro Pandolfo IV e la sua famiglia. A mandarla all'aria evitando una strage, ci pensa Violante Aldobrandini, seconda moglie dello stesso Galeotto Lodovico e sorella di Elisabetta, madre di Pandolfo IV. Galeotto Lodovico ed il figlio Pandolfo sono uccisi. Gaspare, arrestato e processato sommariamente, è decapitato [78]. Per circa un secolo, questi omicidi politici continuano «a far colare sangue» [79]. Nello stesso 1492 le comunità ebraiche di Sicilia [80] e Sardegna sono espulse dalla dominazione spagnola che, a partire dal 1505, le caccerà pure dal Regno di Napoli (Napoli, Trani, Nola, Bari). Esse si rifugeranno a Roma, nel Levante, in Turchia ed a Corfù.
Nel marzo 1497 «a Rimano morivano di fame», ricorda il veneziano Marin Sanudo che cita gli aiuti inviati in città dal suo governo, e la visita fatta in laguna da Pandolfo I e sua madre Elisabetta Aldobrandini, sorella del «conte Zoan» da Ravenna, condottiero della Serenissima [81]. Nel 1508 Rimini assiste ad una congiura «in favore degli ecclesiastici» [82], alla vigilia della sconfitta di Venezia (14 maggio 1509) da parte della lega di Cambrai, ed alla cessione della città dalla Serenissima a papa Giulio II (26 maggio) che le dà un nuovo assetto politico con la «costituzione Sipontina» [83]. In essa si prevede che le tasse degli ebrei restino nella casse municipali [84]. Agli scontri tra le fazioni cittadine si cerca di reagire durante il periodo di «disordine» del luglio 1512 con l'istituzione dei «signori Venti di Giustizia», ai quali è attribuita «facoltà assoluta di punire, e condannare». Ma neppure essi possono evitare sul finire dello stesso 1512 l'uccisione di Vincenzo Diotallevi, dopo la quale i consoli riminesi il 14 febbraio 1513 decidono (come abbiamo visto) di «condurre nuovi fanti per la custodia della città», ed il 2 maggio chiedono a Roma un governatore «virile» ossia di «petto forte», come chiosa con elegante pudicizia Carlo Tonini [85].
Le lotte intestine di Rimini favoriscono l'arroganza del potere centrale di Roma. Una vicenda esemplare, ma non troppo nota, può riassumere simbolicamente la crisi di Rimini dalla morte di Sigismondo a tutto il secolo XVIII. È quella della biblioteca malatestiana di San Francesco. Nata da un progetto del 1430, essa anticipa quella di Cesena, ed è la prima ad essere pubblica [86], precedendo l'Ambrosiana di Milano (1609), l'Angelica di Roma (1614) e la stessa Gambalunghiana di Rimini (1619). Essa è lentamente depredata prima da Giulio II nel 1511 e poi a metà Seicento dal vescovo Angelo Cesi. La dispersione del patrimonio che essa conteneva illustra bene il senso di decadenza di una città resa incapace, dalla politica romana e dalle rivalità nobiliari ad essa funzionali, di guardare alle proprie glorie passate per costruire un presente che ne fosse degno.


4. La ricomparsa degli ebrei nel XVIII secolo[87]

La prima notizia del secolo XVIII relativa alla presenza ebraica a Rimini, risale al 1775 e riguarda il battesimo di Isacco Foligno, di probabile origine pesarese [88]. Nel 1796 alla fine di giugno, la contribuzione per i francesi è imposta pure agli ebrei che sono arrestati «onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli» [89]. Quelli «dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» [90], temendo, nel «passaggio delle Truppe Francesi», di poter esser «molestati per raggion d'avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello», ottengono di toglierlo dopo il versamento alla comunità riminese di un «dono gratuito» di cinquecento scudi. In realtà il «dono» è fatto, come scrivono i consoli di Rimini, «in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi». La Municipalità, soddisfatta della generosa offerta, versata oltretutto in moneta e non in oggetti preziosi, tralascia di sottolineare che essa andava contro le leggi. Nel 1799, il 30 maggio, la rivolta dei marinai [91], a cui s'accodano quelli che il mercante-cronista Nicola Giangi [92] chiama «li birbanti di Città» [93], si conclude con il saccheggio anche di due botteghe gestite da ebrei. Il notaio-cronista Zanotti descrive l'episodio come opera degli «insorgenti» antifrancesi che egli (da ferreo legittimista) riesce però a distinguere dai «rivoltosi» i quali, spinti dal «maligno furore della Plebaglia», agiscono contro la cosa pubblica.
In un documento romano del 1793 si parla delle pelli d'agnello commerciate da Abramo Levi [94] ed imbarcate proprio a Rimini verso il nord Europa. Abramo Levi aveva per le mani la maggior parte di quel prodotto: «la sua concorrenza suscitava le proteste dell'Università dei pellicciai, ultimi deboli echi di motivi antiebraici delle corporazioni di mestiere» [95]. Una «fiera delle pelli» si teneva fin dal 1500 a Rimini tra borgo San Giuliano e le Celle [96], per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno. Era seguìta da quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo borgo (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio). Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre [97], inglobando pure quella detta di san Gaudenzio [98] nata in ottobre nel 1509 [99]. La concentrazione delle tre fiere in un unico appuntamento (successivamente tra 8 settembre ed 11 novembre [100]), è l'effetto del declino commerciale ed economico della città, a cui non si sa reagire. Nel 1627 esse come unica «fiera generale» sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre [101]. Nel 1630 è sospesa la «fiera delle pelli» per la pestilenza [102], preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce invece la ricordata fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio (riscoperta soltanto di recente [103]). Nello stesso anno, come abbiamo visto, a «un tal Hebreo Banchiere» si concede di aprire un banco portando con sé la famiglia a Rimini. Di lui si fa mallevadore quel «Gentilhuomo Hebreo di questa Città» che, per quanto sconosciuto nella sua precisa identità, resta come simbolo di una verità evidente ma taciuta. Quella appunto sottolineata da Maria Grazia Muzzarelli, e che abbiamo ricordato all'inizio: gli ebrei sono stati considerati «da sfruttare sempre, tollerare a tratti e vessare ogni volta che» ce ne fosse politicamente bisogno.


Fiera di Rimini 1671.
Quadro statistico generale


Tipologia
merci

Italiani
ingressi


Stranieri
ingressi


«Hebrei»
ingressi

Merci
dichiarate

Merci vendute
%
Ingressi, valore
non dich.

Totale ingressi
Abbigl.
49
1
11
15.264
6.683
42,72
1
62
Mercerie
14


1.841
757
41,18
0
41
Strum. lavoro
59


3.363
2.268
67,44
2
61
Alimentari
5


55
55
100,00
26
31
TOT. ingressi
127
1
11



29
168
TOT. merci



20.901
9.763
46,71



Nel calcolo delle merci si è tenuto conto soltanto di quelle dichiarate (139 ingressi su 168).
Statistiche riguardanti i settori merceologici. Tutti i dati si riferiscono a 139 presenze su 168, cioè a quelle per cui è stato dichiarato il valore delle merci introdotte in fiera. Le percentuali sono arrotondate per eccesso.
Il settore tessile-abbigliamento introduce in fiera il 75% di tutti i prodotti e ne vende il 69% (ovvero il 43% dei propri). Seguono gli strumenti di lavoro (16% di entrate, 23 di vendite), e le mercerie (9% di entrate, 8 di uscite). Gli alimentari costituiscono lo 0,26% di entrate e lo 0,56% di vendite.
Se il settore tessile-abbigliamento vende il 43% delle merci dichiarate in entrata, gli ebrei (undici persone di otto ditte, tutti nel settore tessile-abbigliamento) vendono soltanto il 17% circa.
La percentuale media, su tutti i settori, delle merci vendute rispetto a quelle offerte, è del 47% circa. I valori sono espressi in scudi.

DATI RIGUARDANTI GLI EBREI (VALORE IN SCUDI)


Città di provenienza
Valore del venduto
Valore introdotto
% del venduto
Ancona
110
   144
76,38
Pesaro
450
1.500
30,00
Urbino
435
4.270
10,18
Totale
995
5.914
16,82


Note

Nota 1. Abbreviazioni usate: ASBo = Archivio di Stato di Bologna; ASCRn = Archivio storico del Comune di Rimini presso Archivio di Stato di Rimini; BGR = Biblioteca comunale Alessandro Gambalunga di Rimini; MMR = Miscellanea Manoscritta Riminese, Fondo Gambetti, BGR.
Nota 2. Cfr. M. G. MUZZARELLI, Gli Ebrei a Cesena nel XV secolo. Dalle ricerche di Antonio Domeniconi, «Studi Romagnoli» XXX (1979), Bologna, Fotocromo Emiliana, 1983, pp. 197-207, p. 207.
Nota 3. Cfr. la premessa ai Capitoli della Fiera da farsi sul Porto di Rimini (22.2.1671), AP 623, 1600-1700, C, foglio 12, ora in Carteggio generale, busta 5 «Capitoli vari» (ex AS4), ASCRn, c. 1v.
Nota 4. Le prime notizie risalgono al 1015 e riguardano il teloneo «judeorum» ovvero l'appalto dei dazi d'entrata nel porto, del quale si parla pure in un testo del 1230. Attività di prestito sono documentate dal 1357. Cfr. MUZZARELLI, Rimini e gli ebrei fra Trecento e Cinquecento, «Romagna arte e storia», 16 (1986), pp. 31-48, 32.
Nota 5. Cfr. A. RANUZZI, Informazioni sopra il Governo di Rimini [...], Roma, 1660. Il testo è in G. GARAMPI, Apografi. Miscellanea Ariminensis, I, cc. 317-34, Sc-Ms. 227 [1782], BGR; ed è stato trascritto e riprodotto in Rimini dai secoli XV al XIX nei documenti del tempo, II, Rimini, Bacchini, 1979, a cura di A. POTITO, pp. 301-320, 321-357. Qui (pp. 317-318) si cita una «grave causa» della comunità contro il clero cittadino «sopra il pagamento dei pesi» fiscali, «pretendendo gli ecclesiastici» di esserne gravati «più di quello che loro» toccherebbe secondo i beni posseduti, con la precisazione: «ma ora si tratta amichevolmente l'aggiustamento per via di concordia». Della «transazione stipulata» nel 1664 fra i cleri riminesi e la Municipalità si parla in un inedito ed importante testo, Dimostrazione degli utili…, «Rimini. Clero», MMR, spiegando che da essa gli stessi cleri ricavarono «riguardevoli vantaggi». La «transazione» fu approvata il 2 febbraio 1664 dal Consiglio cittadino (56 voti pro, uno contra) allo scopo di godere «la quiete sì bramata» con gli ecclesiastici. Cfr. AP 869, Atti Consigliari 1655-1676, ASCRn, c. 114r. Nella stessa seduta si donano tremila scudi alla Santa Sede per la guerra in corso e le conseguenti «urgenti necessità» (ivi, c. 113v).
Nota 6. Giberto III Borromeo (1615-1672), nato da Carlo III e Isabella (figlia di Ercole e Margherita d'Adda, e vedova di Carlo Barbiano di Belgioioso), studia dai gesuiti a Brera ed a Pavia, dove consegue nel 1636 la laurea in legge. Nel 1638 si trasferisce a Roma. È nominato nel 1644 vice-legato di Ferrara e governatore di Perugia da Urbano VIII (1623-1644). Sotto Innocenzo X (1644-55) entra a far parte della legazione di Avignone (1645), ed è creato cardinale (1652) e protettore dei padri minori conventuali (1654). Da Alessandro VII (1655-67) è inviato in Romagna nel 1657. Cfr. <www.nuovorinascimento.org/rosp-2000/persone/borromeo/borromeo.htm>.
Nota 7. Lo scritto di Ranuzzi è paradigmaticamente proposto in P. MELDINI, La formazione del fondo manoscritto della Gambalunga, «I codici miniati della Gambalunghiana di Rimini», Arese, Motta, 1988, p. 10. Il 19 giugno 1660 il Consiglio generale di Rimini concede la cittadinanza onorario a Ranuzzi per il suo «ottimo governo» (pro 46, contra 6, cfr. AP 869, cit., c. 64v/r).
Nota 8. Nel 1663 l'Annona riminese censisce 15.392 bocche: 3.183 (20,7%) sono in città ed 889 (5,8%) degli ecclesiastici. Le restanti 11.320 (73,5%) si dividono fra contado e bargellato. Le percentuali di grano e farina disponibili per ogni bocca sono in generale rispettivamente del 2 e dello 0,14. Quelle per il contado, dell'1,3 e dello 0,082. Quelle della città, del 3,9 e dello 0,24. Agli ecclesiastici vanno il 3,6 e lo 0,23. Il contado con il 41% delle bocche, dispone del 26% di grano e del 23% di farina. Le bocche di città (20,7%) dispongono del 40% di grano e del 34,5% di farina. Gli ecclesiastici registrano il 5,8% di bocche, il 10,3 di grano e il 9,3 di farina. Dati elaborati su Descriptio Animarum, etc, «Rimini, Annona frumentaria», MMR.
Nota 9. Cfr. doc. 31 in «Rimini, Comune di», MMR. Si tratta della «prima guerra del ducato di Castro» che ci coinvolge nel 1643: il 26 maggio Toscana, Venezia e Modena firmano un trattato per invadere dal Veneto e dalla Toscana lo Stato ecclesiastico proprio in Romagna.
Nota 10. Sulla storia della chiesa della Colonnella, cfr. A. MONTANARI, I Padri "della Becca" alla chiesa della Colonnella di Rimini. Documenti (1680-1726) dell'Archivio storico comunale di Rimini conservati nell'Archivio di Stato di Rimini, copia pro manuscripto, 2007, BGR, segn. M.0700.01085, passim.
Nota 11. Cfr. sub 10.1.1669 e 27.1.1669, in AP 452, Registro di lettere, 1669, ASCRn.
Nota 12. Cfr. ivi, sub 20.2.1669.
Nota 13. Cfr. ivi, sub 12.5.1669. In quel periodo (1668-69) mons. Gallio era nunzio papale a Napoli, dopo esser stato (dal 1666) vice reggente della diocesi di Roma e consultore del Sant'Uffizio.
Nota 14. Cfr. ivi, sub 26.5.1669.
Nota 15. Cfr. ivi, sub 29.1.1671.
Nota 16. Cfr. Informationi sopra le giurisdizioni della Fiera, e del Capitano del Porto della Città di Rimino, AP 626, ASCRn, c. 1v. (Il doc. è post 1625 ed ante 1668.)
Nota 17. Cfr. MONTANARI, L'«opulenza superflua degli Ecclesiastici». Nobili, borghesi e clero in lotta per il «sopravanzo» della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo, «Studi Romagnoli» LI (2000), Cesena, Stilgraf, 2003, pp. 941-986, p. 953.
Nota 18. Cfr. RANUZZi, Informazioni sopra il Governo di Rimini, cit., pp. 302-303.
Nota 19. Cfr. Rimini dai secoli XV al XIX, cit., p. 302:«Vi sono molte famiglie antiche e nobili che fanno risplendere la Città, trattandosi i Gentiluomini con decoro et honorevolezza, con vestire lindamente, far vistose livree et usar nobili carrozze: nel che tale è la premura et il concetto fra di loro, che si privano talvolta de' propri stabili, né si dolgono di avere le borse essauste di denari per soddisfare a così fatte apparenze».
Nota 20. Cfr. MONTANARI, L'«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., p. 952.
Nota 21. Al proposito si veda quanto scriviamo sul ruolo di Nicola Martinelli ne L'«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., pp. 956-964: si può verificare in momenti anteriori (1763) la sottomissione del potere laico a quello religioso (ivi, p. 959). Sugli eventi riminesi del 1797 e degli anni successivi, cfr. MONTANARI, Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Cesena, Stilgraf, 2000, pp. 671-731, e ID., Il furore dei marinai. Crisi istituzionale della Municipalità di Rimini per la rivolta dei "pescatori" (30.5.1799-13.1.1800), «Studi Romagnoli» LIII (2002), Cesena, Stilgraf, 2005, pp. 447-511.
Nota 22. Cfr. lettera dei consoli di Rimini all'agente romano Ceccarelli, AP 453, Lettere degli Eletti, 1670, ASCRn, 28.12.1670.
Nota 23. Cfr. le missive allo stesso Ceccarelli, AP 453, cit., 19.3.1671 (ove si legge che la città aveva bisogno di uscire da uno stato di «depressione» tentando «i proprij, e più risoluti sollievi») e 9.4.1671.
Nota 24. Su questa proposta, cfr. infra.
Nota 25. Circa le vicende delle varie fiere riminesi, cfr. nel testo infra.
Nota 26. Sulle difficoltà incontrate a Roma per riavere la fiera, cfr. AP 453, cit., lettere del 13.7, 4 e 18.12.1670.
Nota 27. Nel 1678 «per non essere seguiti li raccolti» non c'è disponibilità di moneta per gli affari della fiera: cfr. AP 871, Atti del Consiglio 1676-1684, ASCRn, sub 25.4.1678. Circa la crisi economica, cfr. pure lettera a Papei, 24.2.1669, AP 452, cit.; ed il divieto legatizio per l'esportazione del pesce (26.3.1669) la quale privava il clero di cibo in quaresima, AP 896, Registro de' Bandi e Patenti (1621-1694), ASCRn, c. 198r.
Nota 28. Cfr. AP 871, cit,ivi.
Nota 29. La decisione è presa il 17.6.1690: cfr. AP 873, Atti del Consiglio Generale, 1684-1702, ASCRn, c. 105v.; ed il doc. 39, «Rimini, Comune di», MMR.
Nota 30. Le loro undici presenze sono il 17,74% di quelle dell'intero settore, pari a 62 presenze su 168 ingressi complessivi in fiera. Il settore tessile-abbigliamento vende il 43% circa delle proprie merci, contro una media generale del 47% circa. La media di vendita degli ebrei è del 16,82%. I prodotti più richiesti, escludendo gli alimentari su cui ci sono dati parziali, sono gli strumenti di lavoro (67,44%). Nella merceria la vendita media è del 41%.
Nota 31. Tra le 47 provenienze dei mercanti indicate (in 120 delle 160 registrazioni, cfr. Simone Leonardi, Nota di tutte le merci vendute sulla fiera del porto, 1671, AP 836 [ora busta 1974], ASCRn), Cesena ha 12 mercanti, San Mauro 8, Milano 7, Bologna, Pesaro, Savignano ed Urbino 6, Santarcangelo 5, Gatteo e Pergola 4, Ancona, Forlì, Monte Colombo, San Marino, Sogliano e Venezia 3, Camerino, Fabriano, Iesi, Monte Grimano, Pizziegitone, Rimini, Verona 2, Caioletto (S. Agata Feltria), Cantiano, Chioggia, Comacchio, Faenza, Forlimpopoli, Francia, Friuli, Gambettola, Macerata, Macerata di Monte Feltro, Matelica, Meldola, Monte Scudolo, Montiano, Padova, Piacenza, Reggio, Sant'Angelo in Vado, Santa Sofia, Spoleto, Stia, Talamello e Valle Lagarina 1 mercante.
Nota 32. Gli anconetani vendono 110 scudi su 144 dichiarati; i pesaresi 450 su 1.500, gli urbinati 435 su 4.270.
Nota 33. Cfr. AP 873, cit., «Memoriale di alcuni Ebrei», 14.2.1693, c. 144r.
Nota 34. Gli ebrei sono presenti a Ferrara dal 1275. Tra fine del XV sec. ed inizio del XVI, gestiscono quattro banchi. Nel 1598 molti di loro abbandonano la città e seguono gli esuli estensi a Modena. Nel 1599 ottengono nuovi «capitoli» per la loro attività di prestito che si svolge dove nel 1627 è poi realizzato il ghetto. Il 6 dicembre 1683 tale attività è proibita dal legato Nicolò Acciaioli. Sino ad allora c'era stata «impossibilità da parte dei legati e della città di rinunciare ai servizi offerti dai banchieri ebrei». Cfr. M. CORBO, Alfin si fece: il monte di pietà di Ferrara, «Sacri recinti del credito. Sedi e storie dei Monti di pietà in Emilia-Romagna», a cura di M. CARBONI, M. G. MUZZARELLI e V. ZAMAGNI, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 151-167, passim.
Nota 35. Cfr. G. TOCCI, Le Legazioni di Romagna e di Ferrara dal XVI al XVIII secolo, «Storia della Emilia Romagna», 2, Bologna, University Press, 1977, p. 95.
Nota 36. Sul fenomeno del contrabbando di grano a Rimini, cfr. un doc. del 1696, «Astalli, card., 1696-1716», MMR.
Nota 37. Alla Constitutio nel 1749 tenne dietro un Moto proprio.
Nota 38. Cfr. Rimini dai secoli XV al XIX, cit., I, pp. 84-85. I docc. sulla vicenda sono qui riprodotti parzialmente. Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, Legazione, governo e magistrato nella Informazione di Angelo Ranuzzi governatore di Rimini (1659-1660), «La legazione di Romagna e i suoi archivi. Secoli XVI-XVIII», a cura di A. TURCHINI, Cesena, Il ponte vecchio, 2006, pp. 419-427: a p. 426, nota 30, troviamo indicate tutte le Carte Ranuzzi dell'ASBo (Archivio Ranuzzi, Carte politiche, tomi III, IV) relative al nostro argomento, cfr. infra.
Nota 39. Cfr. le citt. Carte Ranuzzi, III, c. 335, lettera di Ranuzzi al card. Antonio Barberini, 11.3.1660. La risposta di Barberini (IV, c. 975) è del 15.3.1660.
Nota 40. 40 Cfr. ivi, III, lettera di Ranuzzi al card. Barberini, 18.3.1660, c. 340. A proposito del cognome di «tal Gioseffo Montefiore», va detto che si tratta di un toponimo relativo ad un paese del Riminese, in cui la presenza ebraica risale al sec. XIV: cfr. MUZZARELLI, Rimini e gli ebrei fra Trecento e Cinquecento, cit., pp. 35-36. Cfr. infra, nota 45.
Nota 41. Cfr. le citt. Carte Ranuzzi, IV, c. 801, lettera del card. Antonio Barberini, 19.2.1660.
Nota 42. Cfr. ivi, c. 975: è la cit. risposta di Barberini del 15.3.1660.
Nota 43. Cfr. lettera dei consoli di Rimini all'agente romano Ceccarelli, AP 453, cit., 28.12.1670.
Nota 44. Cfr. le missive allo stesso agente Ceccarelli, AP 453, cit., 19.3 e 9.4.1671.
Nota 45. Nel 1471 il Monte era già nato a Montefiore Conca, nel 1487 a Cesena ed il 15 gennaio 1492 a Ravenna da dove contestualmente gli ebrei sono cacciati, dopo il 2 aprile 1492 quando è imposto il segno distintivo, e prima dell'ottobre 1493. Cfr. Sacri recinti del credito, cit., pp. 14, 28, 30, 224. L'apertura dei Monti in tutto il territorio emiliano-romagnolo è la premessa per una politica forte contro gli ebrei.
Nota 46. Dal 1511 Emanuelino ed Angelo da Foligno per il loro banco pagano alla Municipalità una tassa annua di 400 lire.
Nota 47. Cfr. AP 853, Atti del Consiglio 1510-1517, c. 243r, ASCRn. Nel 1442 Eugenio IV ha pubblicato una «bolla» per interrompere ogni rapporto economico fra ebrei e cristiani, ordinando agli «infedeli» di vivere isolati e segregati, di portare il solito segno distintivo, di restituire le usure percepite e di non esigerne più per il futuro. Cfr. R. SEGRE, Gli ebrei a Pesaro sotto la signoria dei Della Rovere, «Pesaro nell'età dei Della Rovere», Venezia, Marsilio, 1998, pp. 133-165, 157-158. Nel 1462 per la fabbrica del Tempio Sigismondo ottiene un prestito da Abramo figlio di Manuello di Fano (cfr. A. VASINA, La società riminese nel Quattrocento, «Studi malatestiani», Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1978, p. 62). Sui rapporti fra Malatesti e finanza ebraica, cfr. A. FALCIONI, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L'economia, Rimini, Ghigi, 1998, pp. 158-161: EAD, Appendici, «Galeotto Roberto Malatesti» di A. G. LUCIANI, Rimini, Ghigi, 1999, pp. 127-129. Qui il doc. 6 (28.9.1430, p. 129) ricorda che gli ebrei a Fano «non vogliono prestare» non fidandosi dei Malatesti: viene da chiedersi se tra questo atto ed il «breve» del 1432 esista un rapporto di causa ed effetto.
Nota 48. Nel 1489 a carico loro era stata decisa un'imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i Turchi.
Nota 49. Cfr. C. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, Rimini, Simbeni, 1627, p. 663. Carlo Tonini, nella continuazione dell'opera del padre Luigi, invece scrive di un «tumulto per cagione degli Ebrei», del quale si ignorano i motivi, aggiungendo tuttavia che i militi erano stati chiamati in città a «difesa» degli israeliti visti «quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo». Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 1, Rimini, Danesi già Albertini, 1887, pp. 133-134; vol. VI, 2, Continuazione e Appendice di documenti, 1888, p. 750.
Nota 50. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., p. 663. Per le donne il successivo 28 aprile è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte. Nel contempo si fa loro divieto di porre sul capo i mantelli. Cfr. AP 853, cit., c. 243r.
Nota 51. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit. p. 670; C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 156 (senza il particolare relativo a frate Orso).
Nota 52. Si veda la ricordata rotella di stoffa sulla parte sinistra del petto.
Nota 53. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., p. 670.
Nota 54. 54 Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 133; la fonte è in AP 853, cit., 22.3.1515, c. 241v.
Nota 55. La prima sinagoga è attestata dal 1486. Il cimitero ebraico è realizzato fra 1506 e 1507. Nel 1520 esso è dato in affitto ad un cristiano che s'impegna a creare le fosse «pro sepulturis Hebreorum pauperum et miserabilium decedentium in Civitate»: non tutti nella comunità ebraica riminese erano di ceto economicamente elevato o medio. Per altre notizie, cfr. MONTANARI, Ebrei, le sinagoghe e il cimitero, «il Ponte», Rimini, XXX (44), 11.12.2005, p. 24.
Nota 56. Cfr. AP 859, Libro de' Consigli, 1546-155, ASCRn, c. 97r.
Nota 57. Cfr. i Capitoli del Sagro Monte della Pietà sinora noti (1582, 1756, 1768 e 1772, AP 605 [B 1744], Sagro Monte di Pietà. Capitoli, ASCRn), e quelliinediti del 1641 («il prestar denari sopra pegni […] mai per gli Hebrei», «Rimini. S. Monte di Pietà», MMR, c. 2v). Era pure prevista una pena pecuniaria per il cristiano o per il «continuo habitante» di Rimini che s'impegnasse «per servigio di qualche hebreo» (art. 24, 1582, e poi nei successivi «capitoli» citt.). Cfr. L. MASOTTI, Sotto la loggia del palazzo, passate le prigioni. Quattro secoli di prestito su pegno nella città di Rimini, «Sacri recinti del credito», cit., pp. 253-262; sui divieti per gli ebrei, p. 257; sui «capitoli», p. 261.
Nota 58. Tale contrada non va confusa con l'omonimo borgo di Sant'Andrea, posto fuori delle mura verso Sud e pure conosciuto da fine Ottocento come «borgo Mazzini» (cfr. MONTANARI, Rimini.Dall'Italia all'Europa, 1859-2004, «Storia di Rimini. Dall'epoca romana a capitale del turismo europeo», Rimini, Ghigi, 2004, p. 271).
Nota 59. Il dato si ricava da atto notarile del 1556 (richiesta delle abitazioni necessarie ed adatte alle singole esigenze, per non risultare inadempienti alla «bolla» papale). Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 2, cit., p. 758.
Nota 60. Cfr. AP 859, cit.,c. 122v.
Nota 61. Ivi, cc. 128v-129r.
Nota 62. La «bolla» Hebraeorum gens sola (1569) di Pio V è anticipata nel 1566 dalla Romanus Pontifex di Pio V, dopo che nel 1562 Pio IV ha attenuato le norme di Paolo IV del 1555.
Nota 63. Cfr. AP 862, Atti del Consiglio 1581-1591, ASCRn, c. 165.
Nota 64. Ivi, c. 167.
Nota 65. Ivi, cc. 309v-310r.
Nota 66. Costoro convincono il cardinal legato Domenico Rivarola ad ordinare l'abbattimento dei due portoni del ghetto (11 giugno 1615). I Girolamini di Scolca appartengono al ramo «pisano» fondato nel 1380 da Pietro Gambacorta (1355-1435). Il ramo «fiesolano» è quello degli Eremiti voluto nel 1360 da Carlo dei conti di Montegranelli, sacerdote e terziario francescano. I «pisani» sono presenti a Rimini dal 1430, quando ricevono l'oratorio di san Girolamo fondato sul colle del Paradiso da fra Angelo da Corsica del Terzo Ordine Regolare di San Francesco, su terreno concesso da Carlo Malatesti nel 1393. I «fiesolani» sono arrivati a Rimini successivamente (1517), quando come si è visto è concessa ai padri di Santa Maria degli Angeli di Venezia la nuova chiesa della Colonnella.
Nota 67. Tra questi nobili va ricordato un personaggio di spicco nella vita curiale romana ed in quella politica italiana, Giovanni Galeazzo Belmonti, vice gran priore dell'Ordine militare di Santo Stefano. Cfr. Villani, De vetusta Arimini urbe et eius episcopis, Sc-Ms.174, BGR, c. 290, cit. da C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 760.
Nota 68. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 410.
Nota 69. Cfr. AP 896, cit., bando del 9.4.1624.
Nota 70. Cfr. AP 869, cit., c. 10v.
Nota 71. Cfr. AP 869, cit., c. 153v. Sono consoli Mario Guidoni, Eusebio Cattanei, Giulio Postumi, Marc'Antonio Melzi, Goffredo Roggieri, Giorgio Diotallevi (che nel 1673 ucciderà il cugino Malatesta Bandi) e Sperandio Sperandii.
Nota 72. Nel 1639 papa Clemente VIII ordina a tutti gli ebrei del ducato di concentrarsi nei ghetti di Ferrara, Lugo e Cento, sorti rispettivamente nel 1627 (come si è già visto), nel 1634 e nel 1636.
Nota 73. Dopo il 1631 Roma «optò per una espulsione parziale» degli ebrei, conservando tre insediamenti ed istituendo altrettanti ghetti a Pesaro, Urbino e Senigallia. Cfr. V. BONAZZOLI, L'economia del ghetto, «Studi sulla comunità ebraica di Pesaro», a cura di R. P. UGUCCIONI, Pesaro, Fondazione Scavolini, 2003, pp.16-53, p. 17.
Nota 74. Sono consoli Domenico Tingoli (ultimo discendente maschile dell'illustre famiglia che vantava ottimi rapporti con Roma), Scipione Diotallevi, Pietro Cima, Federico Tonti, Pasio Antonio Belmonti, Niccolò Paci e Francesco Ugolini.
Nota 75. Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, I rami collaterali della famiglia Malatesti, «I Malatesti», Rimini, Ghigi, 2002, pp. 211, 260, 236.
Nota 76. Giovanni Marcheselli aveva sposato Simona di Barignano, cugina di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Simona era nipote ex fratre di Antonia moglie di Pandolfo IV Malatesti, la quale è pure la nonna di Roberto Malatesti.
Nota 77. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., p. 566.
Nota 78. Cfr. R. COPIOLI, Gli Agolanti e i Malatesti, e la Tomba Bianca di Riccione, in «Agolanti e il Castello di Riccione», Rimini, Guaraldi, 2003, p. 105.
Nota 79. Ivi, p. 108.
Nota 80. La grande persecuzione «raggiunge il culmine negli anni Venti del Cinquecento»: la maggior parte degli ebrei ha dovuto convertirsi, e «chi non è fuggito o non è stato bruciato ha perduto la propria identità culturale e ogni potere economico a causa della sistematica cancellazione della cultura ebraica e delle confische dei beni eseguite contro i neo-conversi». Cfr. M. S. MESSANA, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782), Palermo, Sellerio, 2007, p. 85.
Nota 81. Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, I rami collaterali della famiglia Malatesti, cit., pp. 271-272, 304 nota 39.
Nota 82. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., pp. 620-621; C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 54. Clementini (ivi, p. 621) ricorda le scorrerie continue da parte di genti d'arme del papa «predando e uccidendo i contadini».
Nota 83. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., pp. 836-857.
Nota 84. Ivi, p. 842, e ID, Storia di Rimini 1500-1800 VI, 1, cit. p. 66. La tassa sugli ebrei era solitamente destinata alla Camera apostolica, in quanto essi erano direttamente soggetti alla Santa Sede per volere di papa Paolo II («breve» del 15 gennaio 1466).
Nota 85. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 125.
Nota 86. Questo indiscutibile primato non è mai stato riconosciuto alla biblioteca riminese, un cui inventario del 1560 conservato a Perugia è in G. MAZZATINTI, La biblioteca di San Francesco (Tempio malatestiano) di Rimini, «Scritti vari di Filologia», Roma, Forzani, 1901, pp. 345-352. Cfr. MONTANARI, Sigismondo, filosofo umanista, «La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, II. 2, La politica e le imprese militari», Ghigi, Rimini 2006, pp. 319-339, pp. 321-322; ID., Biblioteca malatestiana di San Francesco a Rimini. Notizie e documenti, «il Rimino-Riministoria», aprile 2007, <http://www.webalice.it/antoniomontanari1/bib.malatestiana.rimini.html>.
Nota 87. Le notizie seguenti sono tratte da MONTANARI, Gli ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700, «il Ponte», XXXI (21), 11.6.2006, p. 16.
Nota 88. Cfr. BONAZZOLI, L'economia del ghetto, cit., p. 30. La notizia è nelle cronache di Michel Angelo Zanotti ed Ernesto Capobelli: cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 752 nota 1. (Capobelli è autore di pettegoli Commentarj, Sc-Ms. 306, BGR: quanto racconta è uno spaccato vivace della realtà riminese; le sue pagine vanno valutate con la massima attenzione, perché non espongono soltanto dati di fatto ma contengono spesso anche interpretazioni tendenziose. Nel 1769, ad esempio, accusa l'Annona di «arricchirsi col vero sangue de' poveri», e di voler far regnare «una vera carestia».)
Nota 89. Sono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana (recte, Elcanà) Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi. Cfr. MONTANARI, Fame e rivolte nel 1797, cit., note 42 e 44, p. 687; AP 502, Copialettere della Municipalità, dal 1° maggio 1796 al 28 febbraio 1797, ASCRn, 22.7.1796.
Nota 90. Cfr. documenti vari in AP 999, Carte concernenti le fazioni militari, ASCRn, senza data, ma successivi al 30 giugno 1796.
Nota 91. Cfr. MONTANARI, Il furore dei marinai, cit., pp. 447-466.
Nota 92. Su Nicola Giangi, cfr. ivi, p. 447 nota 1; e MONTANARI, Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII (1997), Cesena, Stilgraf, 2000, pp. 549-585, 564 nota 26.
Nota 93. Cfr. N. GIANGI, Cronaca (1782-1809), Sc-Ms. 340, BGR.
Nota 94. Cfr. R. SEGRE, Gli Ebrei a Ravenna nell'età veneziana, «Ravenna in età veneziana» a cura di D. BOLOGNESI, Ravenna, Longo, 1986, p. 172.
Nota 95. Ivi.
Nota 96. La fiera s'estendeva dal ponte di Tiberio o della Marecchia (dove erano allestite botteghe di legno) sino al torrione del monastero del Monte della Croce alle Celle, posto lungo la strada per Cesena (lato a monte) poco dopo il bivio con la via per Ravenna. È la zona del Borgo Nuovo di San Giuliano distrutto, come si è visto, nel 1469.
Nota 97. Cfr. R. ADIMARI, Sito riminese, Brescia, Bozzòli, 1616, II, p. 9.
Nota 98. Sino al 1538 la fiera si tiene fuori dalla porta di San Bartolo (cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 251). Tale porta sorgeva verso la attuale Flaminia uscendo dall'arco d'Augusto, il quale apparteneva al quartiere di Sant'Andrea ed anticamente aveva fatto «l'ufficio di porta, e perciò fu detto porta di San Genesio, e di San Bartolo»: cfr. L. TONINI, Rimini dopo il mille, Rimini, Ghigi, 1975, pp. 128-130. Dopo il 1538 la fiera è spostata alla piazza maggiore, ossia nell'antico foro romano, «propter ruinam» dello stesso borgo di San Gaudenzio, provocata dalle ultime guerre con i Malatesti (C. TONINI, ivi).
Nota 99. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 865.
Nota 100. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 455: talora qui date e nomi delle fiere sono riportati erroneamente, rispetto a quanto si trova in due documenti del cit. AP 626: il primo è Fiere, e Mercati (1768); il secondo, le già citt. Informationi sopra le giurisdizioni della Fiera.
Nota 101. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit, pp. 416, nota 1, e 455.
Nota 102. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 459.
Nota 103. Cfr. M. MORONI, Il porto e la fiera di Rimini in età moderna, «Tra San Marino e Rimini: secoli XIII-XX», San Marino, Centro Sammarinese di Studi Storici, Università degli Studi, 2001, pp- 43-93, p. 75; A. SERPIERI, Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra storia e cronaca, Rimini, Luisè, 2004, p. 71.

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Antonio Montanari

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