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Un'intervista rilasciata a Chiamami Città, foglio di Rimini.

Guido Nozzoli, antifascista in tempi non sospetti, organizzatore politico nell'immediato dopoguerra, giornalista inviato speciale di quotidiani nazionali. La sua vita si può dividere in tre fasi: la prima, tutta riminese, è quella dell'anteguerra e dell'immediato dopoguerra. La seconda, è quella bolognese e milanese, nelle redazioni de "Il Progresso d'Italia", de "l'Unità" e de "Il giorno" o, meglio, fuori dalle redazioni quale inviato speciale dall'Algeria al Vietnam (per citarne due). La terza fase, quella attuale, nuovamente riminese, lo vede appartato, dedito a studi e letture.

Tutti a casa

Ero un incontenibile casinista

L. Le scuole superiori le hai fatte a Forlimpopoli?

N. Sì, poiché avendo collezionato alle scuole medie inferiori non so quante sospensioni più una proposta di espulsione, la mia presenza di incontenibile "casinista" non sarebbe stata gradita in nessuna delle scuole superiori riminesi. Purtroppo, il treno per Forlimpopoli partiva alle 6.10 e ogni mattina dovevo alzarmi alle 5.30 e fare delle corse mozzafiato per raggiungere in tempo la stazione. Arrivati a destinazione, ci restavano due ore prima dell'apertura della scuola che passavamo giocando a carte nel caffè di un certo Paolino, senza prendere neppure un bicchier d'acqua.

L. E l'Università?

N. L'ho frequentata assiduamente a Urbino, alla facoltà di lettere del magistero dove erano in cattedra docenti di grande prestigio come Apollonio (divenuto poi rettore dell'Università Cattolica milanese), Bo, Mori, Rebora, Ronconi e il già celebre psicoanalista Musatti (come insegnante di psicologia sperimentale). Ero lassù con Demos Bonini, iscritto alla Scuola d'Arte, il 10 giugno del 1940 quando Mussolini, con uno dei suoi discorsi "storici" trasmessi dalla radio in tutte le piazze d'Italia, annunciò la dichiarazione di guerra contro le nazioni che definiva "demo-giudo-pluto-masso-soviocratiche". Tutti i giovani della mia generazione erano stati allevati, come me, dall'Opera Nazionale Balilla e dalla Gioventù Italiana del Littorio; ma, ancor prima della guerra, Gino Pagliarani ed io insieme a pochi altri (che si volatilizzarono alla prima folata di vento) avevamo aderito al movimento "L.S." fondato a Pisa, nell'ambiente universitario, dal professor Calogero.

Agli studenti era sempre stato concesso il beneficio di rinviare il servizio militare sino al conseguimento della laurea, ma, in non so che mese del 1941, quella norma venne abrogata e, sul finire dell'autunno, ricevetti la "cartolina precetto" con l'ingiunzione di presentarmi il primo giorno di dicembre al corso allievi ufficiali.

L. Dove hai prestato servizio?

N. Al 32°ree; Reggimento Carristi di Verona dove in cinque mesi ho sostenuto l'esame da caporale e, dopo due o tre mesi, quello per ottenere i galloni da sergente. Altri quattro mesi abbondanti li ho trascorsi in un battaglione distaccato a Vicenza e, terminato il campo di addestramento estivo, sono stato ammesso al 3°ree; carristi di Bologna da cui si usciva con il grado di sottotenente. In quella caserma fuori mano, la sera del 5 gennaio 1943, mentre sedevo alla mensa per la cena, venni chiamato al Comando dove un ufficiale (divenuto poi noto come commediografo), mi invitò a riscrivere la domanda per i "punti vestiario" (che avevo già presentato) e mi trattenne un altro quarto d'ora senza motivo. Un motivo, invece c'era: uscendo dal comando, lo trovai ai piedi della scala ove mi attendevano due atletici agenti in borghese della Squadra Politica bolognese che salirono con me nella camerata a perquisire il mio armadietto, poi mi condussero alla stazione per scortarmi in treno sino a Forlì e consegnarmi ad altri due agenti facendosi rilasciare una regolare ricevuta come i postini quando "recapitano" un pacco.

I due forlivesi mi spiegarono che un funzionario della locale questura doveva "conferire" con me, e mi fecero salire sulla loro automobile ma invece che in Questura, l'auto si fermò davanti al cancello delle carceri.

Non appena entrato nel corpo di guardia mi fecero mettere a nudo per la perquisizione, mi tolsero tutto ciò che avevo addosso e nelle tasche, e anche i gambali e i lacci degli scarponi e, rivestito alla meglio, mi rinchiusero in una cella di isolamento. Firmando il registro dell'ufficio matricola avevo visto, nella riga precedente, l'inconfondibile firma di Pagliarani e, benché fosse suonato da un pezzo il "silenzio", fischiettai qualche battuta di una canzoncina che gli avevo insegnato anni prima. Lui capì che ero finito dentro anch'io e, in quel silenzio tombale, si udì il suo desolato commento: "c...o Guido!" Nella cella faceva un freddo polare e, dopo il gavettino di orzo tostato del mattino, si mangiava tutto il giorno un mestolo di zuppa di verdura e un pezzo di pane scuro che pareva fatto con la segatura bagnata.

L. Eri stato segnalato come attivista comunista?

N. No, per una generica "attività politica contro il Regime". E, come Pagliarani, ero stato "venduto" da un conoscente laureato in legge che si dichiarava fervente antifascista ed era, invece, uno dei tanti informatori dell'O.V.R.A., l'insidiosissima polizia segreta "inventata" dal prefetto Bocchini. Io non ho mai denunciato il provocatore che poté concludere tranquillamente la sua carriera. Dopo la liberazione, tra i documenti recuperati all'Ufficio Politico della Questura dai partigiani forlivesi, c'era anche la ricevuta del compenso intascato dal nostro delatore; la duplice spiata gli aveva fruttato 300 lire. A peso, eravamo stati valutati a un prezzo di molto inferiore a quello della carne da brodo.

L. Neppure Pagliarani lo denunciò?

N. Non lo so. Anche lui, non molto tempo dopo la scarcerazione, fu chiamato al servizio di leva e, nel settembre del '43, fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania, dove patì una fame nera. Quando tornò pesava... mezz'etto.

L. Tu riprendesti subito il servizio militare?

N. E' una storia lunga e paradossale che riflette la grande confusione di quegli anni. Arrestato - come ti dicevo - durante il Corso per allievi ufficiali , ma non ancora condannato, per i comandi militari ero un allievo sotto inchiesta, e avevo il dovere di presentarmi all'esame. Fui accompagnato a Bologna da un maresciallo di P.S. in borghese che mi seguì come un'ombra durante le prove teoriche e pratiche pretendendo persino, ma senza ottenere il permesso, di entrare con me nel carro armato durante la prova di pilotaggio. Tre ore dopo lo stesso maresciallo mi ricondusse in cella a Forlì.

Una sera venne a farmi visita nella cella d'isolamento il vice-questore Dott. Verani, che aveva svolto personalmente l'inchiesta, per comunicarmi che ero stato promosso sottotenente e assegnato al 31°ree; Reggimento corazzato di Siena. "Vuoi andarci? - mi chiese sorridendo, "Lei mi faccia aprire la porta - risposi - e io ci vado subito". Era un brav'uomo, il dott. Verani, che non infierì mai contro di noi facendo addirittura le finte di ignorare quel che sapeva.

Nell'attesa del processo, a cui non mi sarei potuto presentare in divisa, venni sollecitato a farmi portare da casa gli abiti civili e trasferito in una cella di detenuti comuni che mi accolsero molto amichevolmente. Durante l'isolamento avevo letto non so quanti libri della biblioteca carceraria a cui mancavano tante pagine strappate da qualche lettore per esigenze non precisamente... culturali. Con i compagni di cella potevo conversare, giocare. A volte raccontavo episodi di storia, del Risorgimento, della rivoluzione francese, dei garibaldini, cambiando ogni sera argomento e loro ascoltavano più attentamente di qualsiasi scolaresca. Ma uno di loro, un contrabbandiere di montagna gigantesco e fortissimo, prima di mettersi in branda mi chiedeva in dialetto con occhi supplichevoli: "Domani ci racconti ancora quella della rivoluzione a Parigi?" Al processo, Pagliarani ed io venimmo condannati, e lui più duramente come autore e diffusore del volantino incriminato, ma entrambi, beneficiando dell'amnistia concessa nel ventennale dell'era fascista, fummo rimessi in libertà.

L'indomani, com'era stabilito, mi presentai al generale comandante della "piazza" (o del distretto?) di Forlì che mi ordinò di raggiungere il reggimento a Siena. Gli feci osservare che, avendo subito una condanna per reati politici, seppur amnistiata, potevo esser rimosso dal grado di cui, peraltro, non avevo potuto farmi fare la divisa. Il generale ribatté che le mie note personali compilate dai superiori erano ottime e che le altre "questioni" non erano di sua competenza concludendo: "Fatevi confezionare l'uniforme e, intanto, prendetevi la regolamentare licenza di fine corso."

Nella "naja" stava cambiando aria? Ne ebbi conferma, a licenza terminata, presentandomi al comando del mio reggimento a Siena. Il colonnello, affabilissimo, mi assegnò al battaglione di addestramento reclute, distaccato in un'altra caserma della città "dove - mi assicurò - ti troverai benissimo". Così fu: per due o tre mesi comandai un plotone, poi fui chiamato a sostituire l'aiutante maggiore partito per una licenza... dimenticando la strada del ritorno.

Intanto, verso la metà di maggio, mi ero sposato e abitavo con mia moglie in una camera d'affitto con uso cucina, dietro la torre della Piazza del Campo. Proprio in quei giorni si poté cogliere un altro indizio dell'indefinibile inquietudine dei comandi militari che, almeno ai livelli più elevati, dovevano sapere quel che stava bollendo nel pentolone della politica. Non per niente era stato diramato l'ordine di servizio che un ufficiale di ogni compagnia passasse la notte in caserma dove, non essendoci una radio, di ciò che accadeva fuori non si sapeva nulla. Una notte un sottotenente bergamasco, rientrando da una sortita abusiva per incontrare la sua amichetta, mi disse sorridendo: "Ehi tu, ora sarai contento che il tuo duce è caduto". Pensai che scherzasse; ma aveva appena finito la frase che dalla strade ci arrivò il clamore di una folla che cantava a squarciagola l'inno di Mameli. Era la notte del 25 luglio. L'era fascista era finita, ma nell'euforia del momento, non molti avevano prestato attenzione a quella frasetta finale del comunicato in cui si precisava: "La guerra continua".

Immediatamente scattò il piano di emergenza di cui ogni comandante di reggimento o di distaccamento conservava copia in una busta sigillata: guardia armata agli impianti industriali e alle centrali dei servizi pubblici, ai centri miliari, depositi, polveriere, caserme della Milizia fascista e costante pattugliamento delle strade per assicurare l'ordine pubblico sciogliendo ogni manifestazione e ogni assembramento di più di tre persone, e, ovviamente, coprifuoco alle 22.

I militi di stanza a Siena, sorpresi nel sonno, si lasciarono disarmare senza opporre alcuna resistenza, neppure a parole.

Il corpo ufficiali si preparava a togliersi la camicia nera

L. Però tu non hai aspettato l'8 settembre per andartene...

N. Anzi, ho aspettato addirittura il 13 o il 14. Il maggiore comandante del mio battaglione, un ufficiale di carriera sardo molto paterno verso tutti i suoi subalterni, in quei giorni era molto depresso per la morte di sua figlia (a cui avevo dedicato una breve elegia da lui fatta stampare sul retro del "santino") mi aveva chiesto di stargli vicino, e non seppi rifiutare. Così continuai ad andare in caserma anche se, constatando che tutti gli appostamenti difensivi della città (peraltro di scarsissima consistenza) erano stati eliminati alla chetichella, non occorreva molta fantasia per capire che si andava preparando un altro "pasticcio all'italiana". I soldati, fiutando il vento, se ne stavano andando alla spicciolata con i risultati tragicomici narrati da Sordi nel film "Tutti a casa". Io, almeno, sapevo dove e con chi andare. E il pomeriggio in cui vidi entrare dalla porta centrale della caserma una pattuglia della gendarmeria, sgattaiolai dalla porta carraia rifugiandomi nella casa di fronte dove mia moglie, avvertita da una ragazza di quella casa, mi raggiunse con il vestito civile chiuso in una valigia. E con la divisa riposta nella stessa valigia, me ne andai al braccio di mia moglie verso il mio miniappartamento. Il 14 o 15 settembre, verso le 5 del mattino con la moglie e la stessa pesantissima valigia, strapiena non soltanto di biancheria, scesi a piedi verso la stazione e, con un lungo e travagliato viaggio via Firenze-Bologna, approdai a Rimini. In famiglia non ci rimasi a lungo. Quattro o cinque giorni dopo, con un gruppo di amici antifascisti di varie tendenze ideologiche, ci radunammo in una grande casa nel comune di Montefiore con l'intento di costituire un primo gruppo armato di guerriglia. I partecipanti a quella spedizione, Gianni Benzi, Angelo Galluzzi, Gianni Quondamatteo, Ezio Venturini, fatta eccezione per Demos Bonini e un giovanissimo Porcellini, erano tutti ufficiali, e qualche cosa potevamo farla per molestare i tedeschi, se la zona, tanto bella panoramicamente, non ci fosse apparsa altrettanto vulnerabile per la sua conformazione e per la facilità con cui poteva essere raggiunta anche da autocarri e mezzi corazzati. Tutto considerato, anche se il maresciallo dei carabinieri non aveva manifestato alcuna ostilità, preferimmo ritornare a Rimini.


Si parla di "bcd", il bollettino di controinformazione democratica. "C'è Nozza, ci sono Guido Nozzoli, Morando Morandini, altri del "Giorno". Tutti pezzi non firmati". (In occasione della morte di Marco Nozza.) L'articolo è di Gianni Buosi, "Il Giorno", 15.5. 1999.

"Pistarolo" dopo piazza Fontana 

MILANO - È morto Marco Nozza. Ieri mattina. Sotto casa. Drammaticamente. Soffocato da un enfisema che non lo lasciava piu respirare. Davanti alla moglie, Mita. Che voleva portarlo in ospedale. Perché vedeva che stava male. Da sei mesi era malato. L'avevano curato. Non si era mai ripreso bene. Ha fatto gli ultimi gradini di casa. È crollato. Arriva l'ambulanza: è già morto. Fra le braccia del figlio Paolo. L'altro, Alberto, non era in casa. Lunedì i funerali.

Marco Nozza aveva 73 anni e con lui se ne va un pezzo del "Giorno". Anche se non vi lavorava piu dal '92, pur continuando però di tanto in tanto a collaborarvi. Una pensione non cercata, per limiti di età.

La sua carriera? Fulminea, meritata. Nato a Caprino Bergamasco. Il 28 novembre 1926. Laureato alla Cattolica di Milano. In lettere antiche. Per 6 anni insegna al collegio di Celana, dove ha studiato anche Papa Giovanni. Marco ama scrivere poesie. E la sua bravura non sfugge ad Andrea Spada, che lo prende all' "Eco di Bergamo".

Poi il salto. All' "Europeo" ('62-'66, l'apprendistato nel grande giornale, le prime inchieste di respiro) e finalmente al "Giorno". Il suo giornale. Quello che non avrebbe mai lasciato. Anche se le offerte piovevano. Anche se le delusioni non mancavano. Anche se lo pagavano meno degli ultimi assunti. Ma Nozza al "Giorno" era affezionato davvero. Era il suo giornale. Quello delle grandi battaglie civili. Quello di Italo Pietra. Che lo aveva voluto subito inviato in erba. Perché le favole a volta diventano realtà. Il giovane Nozza insegue a Venezia, inutilmente, un grosso personaggio, non conta chi. E manca l'aggancio. Ma racconta tutto nel pezzo. Pietra lo legge. Che bravo. Nozza sarà inviato. Farà inchieste importanti che radicheranno il "Giorno" in Lombardia. Farà tanta cronaca di costume. Fulminei certi suoi ritratti, certe sue interviste. Inimitabile lo stile: affondi e carezze, provocazioni e umana pietà. Perché ogni persona merita rispetto. Anche la più impresentabile, la più discussa.

Poi arriva Piazza Fontana, 12 dicembre '69. Il grande spartiacque, nella storia personale di molti, non solo del Paese. "Il Giorno" e fra i pochi giornali che prende le distanze dalla facile pista della "bomba anarchica": "Infame provocazione" titola a piena pagina. E Nozza è fra i giornalisti che fa il salto. Le sue battaglie civili diventano più politiche.

Pinelli "vola" da una finestra della Questura di Milano. La strategia della tensione va combattuta con ogni mezzo.

Anche dalle colonne del "bcd", il bollettino di controinformazione democratica. C'è Nozza, ci sono Guido Nozzoli, Morando Morandini, altri del "Giorno". Tutti pezzi non firmati.

Non è un palcoscenico per mettersi in mostra. Si bada al risultato. Conta solo far sapere quello che non si può scrivere sulla grande stampa. Sono gli anni delle bombe. Degli attentati. Delle stragi. Neri? Rossi? Erano neri e rossi. Nozza diventa uomo di punta dei giornalisti "pistaioli". Quelli che seguono le piste del terrorismo, rosso o nero, ma che puzza lontano un miglio di servizi segreti deviati. Il terrorismo che uccide vigliaccamente buttando le bombe nel mucchio. Sono le "stragi di Stato". Piazza della Loggia, la stazione di Bologna, l'Italicus. Sono i tempi delle battaglie democratiche di gruppo. Ci si riunisce nei bar, nei ristoranti. Quante volte a casa di Marco e di Mita. Lavorare insieme cementa anche le amicizie. Ma lavorare sulle piste e pericoloso. A casa Nozza arrivano minacce, telefonate minatorie.

Marzo '78: rapimento e delitto Moro. Novembre '79: omicidio Alessandrini, il giudice impegnato e amico. Maggio 1980: assassinio Tobagi. Sono i durissimi anni di piombo. Nozza segue le piste, i grandi processi. Più tardi si scoprirà che era finito nel mirino della brigata XXVIII marzo, quella che uccise Tobagi, insieme ad altri ex del "Giorno", come Bocca e Pansa.

Ultimi sgoccioli degli anni '80. Il terrorismo è sconfitto. Anche "Il Giorno" non è più quello di prima. Le sue battaglie non sono più quelle di Nozza. La sua penna è troppo "politica"' per affidargli certi argomenti. Ma lui resta, anche se rimpiange Pietra. L'unico direttore per il quale Marco versa in pubblico vere lacrime, quando lui annunciò alla redazione che se ne andava. Ed è sempre lo stesso Nozza, anche quando segue il raduno degli alpini, o fa il profilo di Maria Luisa Garoppo, quella di "Lascia o raddoppia", o dà l'addio a Mina che se ne va in Svizzera. Perché lui ha la cronaca nel sangue, non snobba nulla, è troppo curioso e sa rintracciare l'uomo in ogni storia. E poi Marco Nozza aveva un' altra passione. La storia. Poteva rifarsi coi suoi libri. "Garibaldi" l'aveva scritto agli inizi, niente di meno che con Indro Montanelli, un'amicizia che non sfruttò mai. Erano seguiti "Mazzini Giuseppe, contumace" e "Hotel Meina", sulla prima strage di ebrei in Italia nel'43. Una volta pensionato, Nozza aveva rifiutato collaborazioni anche di lusso con altre prestigiose testate. Il "Giorno" restava il primo e l'unico vero amore giomalistico. Era tempo di tornare ai libri. Da poco Nozza aveva consegnato a Feltrinelli un malloppo di oltre 400 pagine. Sulle piste rosse e nere, naturalmente. Dedicato ai giovani, che devono sapere, e ai pistaioli ancora vivi. Leggerlo avrà un sapore agrodolce, ora che è morto.

Un volto scanzonato che sapeva diventare terribilmente serio. Un uomo e un giornalista coerente e coraggioso. Un ragazzo che sembrava non invecchiare mai. Cosi vogliamo ricordare Marco Nozza.

Gianni Buosi, "Il Giorno", 15.5.1999


Un articolo da "AURORA" n° 11 (Novembre 1993) in cui è citato GUIDO NOZZOLI:

Cinquant'anni fa, Ettore Muti

Il "Che Guevara" del fascismo

di Daniele Gaudenzi

 

Quando Raul Gardini s’è tolto la vita l’hanno sepolto a pochi metri di distanza dalla tomba di Ettore Muti e qualcuno ha notato l’accostamento, rilevando la sorprendente affinità dei due romagnoli per tanti aspetti del loro carattere: la spavalderia, il gusto dell’avventura, la grinta tenace... Ettore Muti, d’altra parte, può ben essere definito il "Che" Guevara del tempo del Littorio, per l’aura romantica che lo circondava e la tragica fine nel pieno della vita. Anche Muti, come Guevara, un uomo bellissimo, forte, viso aperto, dolce e duro al contempo, uno sguardo fermo che esprimeva sicurezza e risolutezza. 

Energico e prestante, cordiale e simpatico, viso abbronzato, spalle quadrate, un fare scanzonato ed anticonformista, amante degli scherzi, Muti era tutto il contrario del classico gerarca tronfio e megalomane. Ettore Muti (al quale dedicarono, anni fa, un bellissimo libro il poeta Fernando Gori, nipote del grande anarchico, ed il conterraneo Michele Campana) era nato a Ravenna il 22 marzo 1902, primogenito di Cesare (impiegato del Comune) e di Celestina (rimasta vedova a trentasei anni); vennero poi le sorelle Linda e Maria. 

Si chiamava Angelo di secondo nome: il primo gli era stato imposto da uno zio argentino, ammiratore di Ettore Fieramosca, l’eroe della "Disfida di Barletta" celebrato da Massimo d’Azeglio (e ricordiamo che fra i dodici cavalieri italiani che si batterono contro i francesi c’era anche il romagnolo Romanello da Forlì). Da notare che papà Cesare prese l’iniziativa, nel '19, di far sostituire la "ipsilon" finale del cognome (si scriveva, infatti, Muty, così come, d’altronde, il generale forlivese Archimede Mischi, poi braccio destro di Graziani, per diverso tempo firmava Mischy, nome d’origine della famiglia polacca da cui discendeva). Fra l’altro, per quanto riguarda Muti, fu provato ch’egli discendeva dal canonico Muty, il prozio che, al seguito del celebre legato pontificio Cardinale Rivarola (portato poi sullo schermo da Ugo Tognazzi nel film di Luigi Magni), si beccò la palla di pistola destinata, nel corso d’un attentato, al porporato della repressione pontificia in Romagna. 

Ma Muti, quando glielo ricordavano, ribatteva seccamente: "Macché canonico, io non ho preti in famiglia!". Da buon anticlericale romagnolo (era stato repubblicano prima di diventar fascista) che, peraltro, era amicissimo del Padre Reginaldo Giuliani, il sacerdote fiumano caduto poi in Africa Orientale. Abitava, Muti, in Corso Garibaldi a Ravenna, di fronte alla Caserma di Cavalleria. 

Nel 1914, alle scuole tecniche, gli diedero il tema: "Lo studente esemplare". Lui, naturalmente, lo svolse secondo gli intendimenti dei professori ma, alla fine, si affrettò ad aggiungere: "Questo, però, non è un ragazzo, ma un aborto di natura". Esuberante e vivacissimo (a tredici anni aveva già un fisico perfetto) era tutt’altro che intenzionato a seguire la carriera impiegatizia alla quale voleva destinarlo il padre (che poi tentò di farlo lavorare come avventizio presso la locale filiale della Banca d’Italia). 

Il 24 maggio 1915, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa (avevamo stracciato il trattato che ci legava alla Triplice Alleanza) un aereo austriaco sorvolò Ravenna e lanciò un paio di bombe che colpirono l’unico tram allora in circolazione, uccidendo il manovale della linea tramviaria. "Bib" Muti (lo chiamavano così, poi l’avrebbero ribattezzato "Gim") assistette all’incursione e decise di correre al fronte. 

A 14 anni, nel 1916, tentò così di raggiungere la linea del fuoco. Fu fermato a Cormons nel Friuli, dov’ebbe occasione d’incontrare il generale Cadorna al quale chiese di potersi arruolare. Poiché gli fu obiettata la troppo giovane età, rispose: "La Piccola Vedetta Lombarda era più giovane di me...". 

Rimandato a casa, l’anno dopo scappò ancora da casa e finì per arruolarsi nel 1° Reparto Arditi d’Assalto. Era l’ottobre di Caporetto e lui prese parte alla battaglia sul Monte Crigna (aveva scritto alla madre: "Sento che il mio posto è dove la Patria chiama"). Per 27 anni sarebbe stato volontario in tutte le guerre ed avrebbe guadagnato numerosissime medaglie (ben 46 - l’Ordine Militare di Savoia, la Medaglia d’Oro al V. M., 3 promozioni per merito di guerra, 10 medaglie d’Argento al V. M., 4 di bronzo al V. M., 5 Croci di Guerra, la Medaglia d’Oro spagnola, le Croci di Guerra tedesche di Prima e Seconda Classe, ecc.) tanto da essere definito "il più bel petto d’Italia". 

Restò sempre un ragazzo pieno di vita e amante delle burle, come quando faceva parte della Società della "Crecca". Fra le sue diavolerie, oltre alle burle ai frati, si ricorda l'impresa del '18, quando con gli amici fece, per galanteria, una incursione all'Istituto Tecnico per cambiare in ottimi voti le insufficienze delle compagne di classe. L’anno dopo, in settembre, tentò di partire da Cervia su un barcone a vela, per raggiungere D’Annunzio a Fiume, con gli amici Rambelli, Urbinati, Sarti ed Eros Guadagnini. Ostacolato dal maltempo, tentò poi la via ferrata, ma fu bloccato a Mestre. Finalmente, con gli stessi amici più Testoni Roldano (e il consenso paterno) finì per raggiungere la capitale della Reggenza dannunziana del Carnaro. D’Annunzio (del quale Edouard Herriot aveva detto: "Io vedo in lui un Byron rinnovato") notò ben presto il giovanissimo legionario ravennate, lo ammirò e lo amò. 

"Muti nec mutu" ("Muti non muto"). 

Il giovanetto, infatti, si distinse per la sua ardita guerra corsara: Luigi Barzini jr., il grande giornalista, avrebbe ricordato i suoi colpi di mano a Castua e la cattura, per sua iniziativa, di un piroscafo carico di vettovaglie nel porto di Pola. 

Furono i sedici, esaltanti, mesi dell’impresa fiumana. Fu allora che, fra l’altro, Ettore Muti si legò di fraterna amicizia col forlivese repubblicano Spazzoli (più tardi impiccato dai fascisti durante la RSI); un’amicizia mai smentita e rinnegata, neppure durante i tempi della sfortuna politica di Spazzoli, come ha ricordato Stefano Servadei... Durante quell’avventuroso periodo il giovane Muti, ferito, ebbe occasione di scontrarsi con un legionario napoletano (per via d’una scherzosa battuta sui meridionali): un ufficiale intervenne, Muti non lo riconobbe, prese a pugni anche lui e finì così in cella di rigore. Era, s’è detto, un burlone: un giorno mise il ritratto di Giuseppe Mazzini sul messale del suo amico P. Reginaldo Giuliani. 

Gabriele D’Annunzio, come s’è detto, s’era affezionato a "Gim dagli occhi verdi", come lo chiamava, ed avrebbe coniato per lui altre suggestive definizioni: "Ettore da Ravenna", "L’Uscocco", "Il Corsaro". Gli regalò una sua foto con questa dedica: "A Gim, piccolo filibustiere, il grande filibustiere Gabriele D’Annunzio". Soprattutto, coniò per lui questa straordinaria definizione: "Voi siete l’espressione del valore sovrumano, un impeto senza peso, un’offerta senza misura, un pugno d’incenso su la brage, l’aroma di un’anima pura"...

Poi, dopo l’avventura fiumana, ci fu l’avventura squadrista. Al ritorno dalla guerra, indignato per le aggressioni sovversive ai reduci (quelle che, secondo Sandro Pertini, furono il più assurdo e tragico errore delle sinistre nel primo dopoguerra), lasciò i repubblicani e si iscrisse al Fascio nei primi mesi del 1921, appunto come reazione contro la canea che insultava e scherniva gli ex-combattenti. D’altronde anche Pietro Nenni, allora direttore del "Giornale del Mattino", era stato tra i fondatori del Fascio di Bologna ed uno dei cinque componenti della Giunta esecutiva di quel Fascio con Guido Bergamo, Zanetti Dino, Fontanesi Renzo e Pedrini Adelmo (cfr. "Il Popolo d’Italia", pag. 3, dell’11-4-1919). Italo Balbo, nel suo "Diario 1922", elogia Ettore Muti per il coraggio dimostrato nei molteplici scontri di quel drammatico periodo, dalla battaglia di borgo San Rocco alle lotte e rappresaglie di Fornace Zarattini, S. Zaccaria, Pievequinta, Coccolia, Cervia, Porto Corsini, San Marino... alle incursioni a Mezzano, S. Alberto, Fusignano, Villarsa. Si ricorda la memorabile ardimentosa impresa del marzo '19 quando, appreso che a S. Arcangelo di Romagna era in corso una riunione di tutte le sezioni socialiste della zona, Muti, con tre amici in moto e sidecar, si recò sul posto, entrò nel circolo, spense con un colpo di pistola il lume a carburo, staccò la bandiera rossa dalla parete e, fra lo sbigottimento dei numerosi avversari presenti, dopo aver sparato un altro colpo in aria, balzò sulla moto e se ne ritornò spavaldamente a Ravenna col trofeo strappato ai rossi. Il 19 luglio 1922, dopo l’uccisione del barrocciaio fascista Giovanni Balestrazzi, organizzò i funerali e poi s’impadronì della città; nello stesso mese partecipò alla "conquista di Rimini". Ancor prima della "marcia su Roma", per aver domato la sommossa dei birocciai, fu insignito della Croce di Cavaliere all’età di circa vent’anni (con quella, poi, faceva giocare i ragazzini). Dopo aver partecipato all'"adunata di Napoli" (anche Benedetto Croce assistette al comizio di Mussolini) ed alla fatidica "Marcia", il 29 ottobre arrivò a Ravenna, occupò la Prefettura, destituì il Prefetto: c’è una celebre foto che ce lo mostra in piazza del Popolo, con Fregnani, Bedeschi dei garibaldini superstiti (con la barba bianca), Nino Plazzi, Mezzetti Umberto e Bogioli. Fra gli squadristi amici di Muti si ricordano, in particolare, Eros Guardigni, Nino Plazzi, Tambini, Babbini e poi, in particolare, Corrado Baldassarri (detto "Pel e Oss"), Nino Cerchiari e Mario Balestrazzi... 

Il Fascio ravennate sarebbe stato diviso fra Giuseppe Frignani, federale, e Muti (Alessandro Messeri avrebbe cercato di sanare i contrasti). 

Nel '21 Muti è consigliere comunale. 

Il 13 settembre 1927 è in piazza a Ravenna, sta parlando con un amico per l’organizzazione di un pellegrinaggio a Fiume. Arriva l’anarchico Leopoldo Massaroli di Mezzano e gli spara due colpi, colpendolo al braccio destro e al fegato. Interviene Renzo Morigi, futuro Campione olimpionico di tiro alla pistola a Los Angeles e poi Vice Segretario Nazionale del PNF, che, tirando da una distanza di 100 metri, con un colpo solo uccide l’attentatore. Muti è trasportato, gravemente ferito, all’Ospedale (dove resterà per tre mesi): operato al fegato, con poche speranze, da un’equipe medica di prim’ordine (Lesi, Rossi, Solieri, assistiti da Badiali, nonché da Ortali e Nigrisoli): riuscirà a sopravvivere; gli resterà una brutta cicatrice sotto lo stomaco di oltre 20 cm. Sul settimanale ravennate "La Santa Milizia" la cronaca dell’attentato (va a ruba). 

Mussolini telegrafa al Console Ettore Muti Comandante 81ª Legione (è l'"Alberico da Barbiano") presso l’Ospedale Civile di Ravenna: 

"Giungavi mio fervidissimo augurio. Sangue versato vi rende sacro alla causa della rivoluzione". Si ristabilirà, Muti, e, nel tempo degli assi del volante (Bordino, Brilliperi, Nuvolari, Antonino Ascari) prenderà a correre, ad oltre cento all’ora, sulla sua Bugatti da corsa tutta azzurra. "La morte continuava a sfiorarlo, e lui ne godeva", scriverà qualcuno. 

Ebbe incidenti a Bagnacavallo, Bologna, ai Fiumi Uniti, a Rimini. Uno, particolarmente spettacolare, a Savio di Ravenna, con l’Alfa Romeo. Compagni spericolati del popolare capo fascista, Francesco Pezzi ed Eros Guardigli. Non era solo un appassionato corridore motociclista ed automobilista: amava anche i fiori, i prati, il giardinaggio. Un giorno si presentò a casa del Presidente della Cassa dei Risparmi e gli chiese, quasi con noncuranza, la mano della figlia, la bionda, alta e formosa Fernanda Mazzotti. "Se me la dà, -disse allo sbigottito genitore- va bene; se non me la dà, me la sposo lo stesso". Nel 1929 nascerà Diana. 

L’anno dopo è al comando della 120ª Legione, in Monferrato. Poi passa a comandare la Terza Legione Portuaria a Trieste, dove diventa amico del Duca d’Aosta (il futuro eroe dell’Amba Alagi) col quale va a fare i bagni ad Abazia (più tardi residenza estiva del maresciallo Tito...). 

Sul campo di Gorizia, questo romagnolo della stessa tempra dell’asso di Lugo, Francesco Baracca, conquista prima il brevetto di pilota civile e poi quello di pilota militare (suo istruttore di volo Luigi Acerbi). Nel 1935 da Trieste scrive alla madre una lettera in versi: "Penso un poco ai miei diletti/ Qui non faccio quasi niente/ c’è una vita inconcludente/ Vado sempre giù in caserma/ Allenandomi alla scherma/ Vecchie cose! Vecchi affetti!...". 

Ma ecco che il 24 ottobre parte per l’Etiopia col grado di tenente aviatore. Opererà in Eritrea, con la squadriglia Libica di Macallè, volando sulla Dancalia in appoggio alla colonna Litta che marcia verso il Sultanato dell’Aussa. Bombarda Dessiè, partecipa alle battaglie del Tembien, dell’Endertà e del lago Ascianghi (contro la Guardia imperiale etiopica), compie audaci ricognizioni su Addis Abeba, spesso ama atterrare, in segno di sfida, oltre le linee nemiche. 

In Africa frequenta Ciano e il suo entourage, Mario Badoglio (il figlio del Maresciallo), il Duca d’Aosta. Compie spettacolari voli sull’Amba Aradam, partecipa alla battaglia di Mai Ceu. Gli abissini, ammirati, lo chiamavano "Badron Muti con Kristos rioplano" (e i compagni d’arme "il matto volante"). S’era portato dietro il volume "Teneo te Africa" di Gabriele D’Annunzio e nel portafoglio teneva il santino della Madonnina di Loreto, protettrice degli aviatori, regalatogli dal caro Padre Reginaldo Giuliani (che lo chiamava sempre e soltanto "Gim", come ai tempi di Fiume). Quando Padre Giuliani cade, col crocifisso in mano, nella leggendaria battaglia di Passo Uarieu, Ettore Muti apprende la notizia con una commozione unica... Moltiplicherà, allora, i suoi voli spericolati, coi bombardieri della squadriglia "La Disperata", sulle ambe abissine. Il sottotenente pilota Tito Minniti, catturato, viene decapitato. Della squadriglia fa parte anche Dalmazio Birago, colpito a morte da una pallottola dum dum ... (aveva un amico, Dalmazio Birago, che si chiamava Walter Audisio: diventerà famoso per i fatti di Dongo...). 

L’Africa affascinava Ettore Muti, che andava a caccia di selvaggina nella foresta e si faceva fotografare a torso nudo col turbante in testa. Il 30 aprile 1936, quando le avanguardie italiane sono a 100 km: di distanza, al torrente Gadula, ed il Negus è ancora nella sua capitale, Ettore Muti, da solo, tocca il suolo ad Addis Abeba sfidando i mitraglieri scioani (farà ben 45 atterraggi in territorio nemico). Alla fine del conflitto etiopico il suo medagliere s’è arricchito di due medaglie d’argento, una di bronzo, coi galloni di capitano. Subito dopo l’Africa, la Spagna, dove è in atto la più sanguinosa guerra civile (oltre un milione di morti), scoppiata all’indomani dell’uccisione di Calvo Sotelo il 13 luglio 1936 e della fucilazione di Josè Antonio il fondatore della Falange (che rifiutò la benda): sono i nazionalisti di Franco che dal Marocco passano in Spagna contro il governo repubblicano di Madrid. Si formano le Brigate Internazionali da una parte, mentre gli italo-tedeschi intervengono dall’altra in appoggio ai franchisti. 

Comandante del Corpo ausiliario italiano in Spagna è il generale Gastone Gambara di Imola. Ettore Muti s’arruola volontario nel "Tercio" (la Legione Straniera fondata da Millan Astray) e partecipa alle operazioni belliche dell’aviazione legionaria col nome di "Capitano Gim Valeri". L’inno per i piloti dell’aviazione legionaria è scritto dalla contessa Paolina Baracca, mamma dell’eroe caduto sul Montello... 

Muti vola sui cieli della Catalogna, delle Sierre e del Mediterraneo: gli spagnoli lo chiameranno "Cid aereo", nonché "Il Gaucho" e "Il Corsaro". Il 27 agosto 1936, al largo di Malaga, centra con 4 bombe (da 300 metri d’altezza) l’incrociatore "Cervantes". Attaccato in dialetto romagnolo da Radio Barcellona ("venite qua, se avete coraggio") entra per primo nella grande città catalana, forzando il gabinetto del fuggiasco Negrin, dove troverà una Relazione sull’aviazione legionaria. 

Bombarda Oviedo, liberando la città dall’assedio, si batte nel cielo di Alcaniz contro 18 caccia avversari (abbattendone 2), distrugge gli aeroporti di Guajon e Alcalà di Henares, compie con spavalderia guascona quattrocento azioni di guerra, battendosi in duello contro i Rata e i Curtiss. Diviene amico del torero Lorenzo Marquez, vola con la "Cucaracha" e gli "Asso di bastoni", riceve dal Re l’Ordine Coloniale della Stella d’Italia, il 15 marzo 1937 è promosso Maggiore per merito di guerra, vola ripetutamente su Madrid. I marocchini del campo lo adorano. Un giorno il generale Berti vuol fare una festa da ballo, ma gli manca il grammofono: Muti fa presto, va a prenderlo oltre le linee, nel bar di un paese occupato dai rossi... 

Si lega di grande amicizia con la Medaglia d’oro Nino Zanetti di Civitella di Romagna (che farà poi parte della squadriglia comandata da Muti di stanza a Rodi, e morirà nel cielo del Mediterraneo mentre l’altro suo fratello, pure Medaglia d’oro, era morto in Spagna). Muti vola sulle Baleari. Memorabile l’avventura di Talavera, quando una bomba, sganciatasi durante il bombardamento, era rimasta impigliata nel cestello e lui non poteva atterrare... (riuscirà, alla fine, con grande perizia e ardimento). In un anno compie complessivamente 400 voli di guerra e 160 azioni belliche: finirà la guerra con una Medaglia d’oro e 5 nuove d’Argento. Un giorno rientrerà all’aeroporto, dopo uno scontro con 15 caccia Rata, con oltre 100 colpi all’apparecchio... 

"Con Muti si va anche all’inferno", dicevano i fanti in terra di Spagna. 

È una guerra atroce e spietata. Da una parte ammazzano Garcia Lorca (pretenderanno poi di farla passare per una vendetta fra omosessuali...), dall’altra profanano le chiese e massacrano gli anarchici riottosi di Bonaventura Durruti (ucciso alle spalle sul fronte di Madrid) e di Camillo Berneri nonché i trotskisti del POUM... 

Nell’aprile 1938 Muti, stanco, scrive alla madre: "Per la verità sarebbe proprio ora che in questo Paese finissero di scannarsi l’uno con l’altro...". Vorrebbe andarsene in Africa, a gestirsi una concessione. Ma un anno dopo (al termine d’un soggiorno romano colorito e denso d’avventure, con la sua casa di buon romagnolo autentico porto di mare per gli amici, i pranzi delle allegre brigate e gli scherzi birboni al povero attendente "Panzòn") Ettore Muti arriva per primo a Durazzo, in Albania, con Umberto Simini e Giovanni Raina. 

Il "Pancho Villa della rivoluzione", come ormai lo chiamavano (e il titolo gli piaceva, a lui che aveva rifiutato l’offerta ufficiale ravennate d’un pugnale d’oro: "È ora di finirla con queste buffonate", aveva scritto all’amico Pezzi detto "Frazchì"), Muti insomma, arriva per primo anche a Tirana, occupando da solo l’aeroporto. Su un mezzo corazzato, poi, occupa la Reggia di Re Zogu, fra lo sbalordimento delle Guardie Reali incapaci di reazione, e s’impadronisce della bandiera del Re fuggiasco (che donerà poi alla Federazione di Ravenna).

Il 3 giugno arriva al Quirinale la missione ufficiale albanese che offre a Vittorio Emanuele III la Corona del trono skipetaro. Il 28 ottobre di quello stesso anno Ettore Muti è nominato Segretario del PNF in sostituzione di Achille Starace (zio del noto scrittore transessuale Giò Stajano), che teneva l’incarico dal 2 dicembre 1931. (Mi dirà un giorno Vanni Teodorani, nipote del Duce: "Guarda caso, le nostre disgrazie sono cominciate proprio con l’allontanamento del povero Starace..."). 

Galeazzo Ciano ha sponsorizzato la nomina di Muti ("Mi seguirà come un bambino" dice, ma gli avvenimenti lo smentiranno). Commenta mamma Celestina: "Non era adatto il mio Ettore a stare dietro una scrivania...". Il giorno stesso della nomina Muti telefonò a Ravenna all’amico federale: "Ven cun de pèn rumagnol e cun di grassul..." ("Vieni con del pane romagnolo e con dei ciccioli.."). Circolerà invece, fra le tante dell’epoca, questa barzelletta: "Appena nominato Muti manda un telegramma a Mussolini: "Duce, guiderò il partito secondo le vostre direttive e renderò gli italiani come voi li volete. Muti"."

Per la verità, invece, Muti cominciò subito a muoversi all’insegna del più risoluto anticonformismo. Lo scrittore Bruno Corra, sull'"Illustrazione Italiana" del 24 dicembre 1939, rilevava ch’egli "non voleva feste e applausi". Era ben deciso a ripulire gli angolini. Una volta gli capitò di fare una delle tante improvvise ispezioni: in Romagna, ad una sede Littoria. Il federale non c’era. Lui si mise ad aspettarlo, seduto sui gradini della Federazione e quando il gerarca ritardatario arrivato fu investito in modo tale che non se lo sarebbe più dimenticato... Fece inchieste sulle malversazioni, anche all’Opera nazionale Dopolavoro, redarguì aspramente i burocrati del regime, mise a posto gerarchi e gerarchetti, si mosse sempre con grinta autentica. 

Naturalmente si fece anche dei nemici. Ciano, per esempio, che sperava di poterlo controllare agevolmente, ben presto dovette ricredersi e non mancò di alimentare certi mormorii sul suo conto... Così qualcuno lo accusò di aver favorito a Ravenna un suo amico, facendogli ottenere un’importante concessione petrolifera. Donna Rachele, che stimava Muti al quale era sinceramente affezionata, gli chiese di smentire quelle voci. Muti, forzando una certa scrivania, fu in grado di dimostrare, a quanto pare, che quella famosa concessione era avvenuta prima della sua nomina a Segretario del partito e che, al riguardo, c’era proprio il nulla osta di uno dei suoi accusatori. E qui non è davvero il caso di essere reticenti: l’amico in questione era il Cavalier Attilio Monti, il futuro grande capitalista petroliere. Gianfranco Stella ha scritto un libro, "Petrolio e piadina" SO.ED.E. 1993, dedicato appunto alle "vicende del cavalier Attilio Monti" in cui, fra l’altro, rievoca dettagliatamente le origini della lunga grande amicizia fra i due celebri ravennati, l’eroe combattente (morto ammazzato) e l’abile affarista e commerciante (divenuto uno degli uomini più ricchi del mondo e più potenti d’Italia). 

Monti, figlio d’un piccolo artigiano di borgo San Biagio, ed Ettore Muti, figlio dell’impiegato dell’Anagrafe, si frequentavano fin da ragazzi ed insieme avevano fatto parte del circolo repubblicano "Barsanti". Più tardi, un giorno Monti s’offrì d’aiutare Muti in difficoltà presso una banca locale che gli aveva chiuso il conto e gli imponeva il rientro. Quando, a sua volta, perduta la possibilità di diventare agente AGIP per Ravenna e Forlì, Monti fu costretto ad andarsene a lavorare per la Petroli Italo Rumena di Ottolenghi, Muti intervenne in favore del giovane rappresentante. Più tardi fu Bottai ad autorizzare Monti ad importare direttamente il petrolio dai paesi produttori. Restarono sempre amici, Muti e Monti, e ci sono molte fotografie che ci mostrano, appunto, il futuro "Cavaliere", col distintivo fascista all’occhiello, attento e compunto dietro il grande gerarca dalla faccia maschia e cordiale... 

Quando poi le cose si misero male, dopo l’assassinio di Muti nell’estate del '43, Monti si avvicinò ai confini della Svizzera neutrale e si rifece vivo nel '45 sotto la protezione del grande capo antifascista Leo Valiani (ebreo ex-comunista di Fiume) e del Partito d’Azione, il più antifascista di tutti i partiti (compreso quello comunista!). Scrive Stella: "Abbondanti furono le elargizioni di Monti al giornale di quel partito, "L’Italia libera", tanto che egli si compiaceva ritenerlo sua proprietà. Infatti altri industriali come lui saranno meno fortunati: Vischi delle Officine Reggiane, Marini di Alfonsine, Weber di Bologna etc., tutti morti in quei mesi, ammazzati da partigiani comunisti"... (Non immaginava, Monti, che un giorno avrebbero tentato di coinvolgerlo in storie golpiste e di finanziamenti al neonazista Pino Rauti...). Per la verità, il Cavaliere mantenne i suoi legami morali verso la famiglia di Muti, tant’è che quando, nel '46, fu revocata la pensione a Fernanda Mazzotti Muti "perché elargita dal governo di Salò", lui la sostituì con un vitalizio e quando, negli anni 70, Diana Muti si sposò con Giancarlo Baldini, viceconsole svedese a Ravenna (sono nate due figlie, Marina e Caterina), Attilio Monti le regalò una villa a Milano Marittima... 

Ma tornando a Muti Segretario del PNF, ricordiamo quanto scriveva Guido Nozzoli nel suo "I Ras del Regime" (Bompiani 1972): "Se Ciano ne aveva favorito l’ascesa sperando di rinsaldare la propria candidatura di delfino del Regime, aveva sbagliato i conti di grosso. Perché Muti, uomo d’azione e di ventura, era incapace di elaborare tattiche di corridoio, ignorava le sfumature della diplomazia, odiava la burocrazia e non sapeva destreggiarsi nel sottobosco del politicantismo cortigiano per preparare trabocchetti o cogliere favori. All’occorrenza poteva ancora allentare una sberla a chi gli pestasse i piedi, ma non sarebbe mai stato capace di ordire trame, di controllare i pensieri della gente o di ispirare correnti d’opinione nella corte mussoliniana. Infatti non fece lo sbirro, lasciò che gli italiani sparlassero liberamente anche del "generissimo", fece finta di non accorgersi delle riunioni degli arpinatiani, buon amico com’era di Tonino Spazzoli e dello stesso Arpinati. In fondo non la pensava in maniera tanto diversa dalla loro, anche se lui era sempre "per Mussolini" e la sua fedeltà al duce restava fuori di ogni sospetto". Fra parentesi, ho conosciuto Guido Nozzoli (futuro giornalista del "Giorno") nell’ufficio di Adamo Zanelli, il federale comunista forlivese e celebre capo partigiano ("Giovanni"), quando raccontava compiaciuto del fallimento d’una manifestazione studentesca bolognese per Trieste italiana... 

Daniele Gaudenzi

 


Guido Nozzoli, riminese. Un uomo che ha avuto la ventura di poter testimoniare tutti gli avvenimenti di rilievo del primo trentennio postbellico

Un ironico e lucidissimo cacciatore di notizie

La stanza è come al solito surriscaldata. Il luogo, ingombro di libri, affastellato di oggetti che a capriccio, senza un sistema, stanno sparsi su tavoli, in bilico su pencolanti mensole, serrati dentro severi armadi, è di una bellezza angosciante. Non sembra neppure appartenere al mondo reale. E' più una proiezione dell'immaginario. Il laboratorio d'un qualche pittore metafisico. Guido Nozzoli mi accoglie qui per trascorrere insonni nottate tra sfere armillari, inutili mercatanzie, preziose minuterie, stormi di quadri, vasi di diaspro, cucurbite, alambicchi, recipienti per coagoli e gatti. Tanti gatti. Vecchi felini, taluni oppressi dalla obesità, alcuni orbati, altri compunti e felpati che, con indifferenza, quasi movendosi nel sogno, trasportano la loro demonia nell'irridescente splendore di drappi luminosi. La scienza di codesto vecchio giornalista si colloca in un delicato punto d'incontro tra immaginazione e conoscenza, per cui attraverso precise rivisitazioni che, grazie alla perizia verbale di Guido, trapassano in racconti, si ridestano le memorie più lontane, cronache dimenticate riappaiono intatte, accadimenti remoti risplendono di repentina, attuale chiarezza. Succede, nelle viscose ore notturne del torvo inverno rivierasco, di avvilupparsi nell'intricatissimo simbolismo mistico della letteratura rabbinica ed allora Guido Nozzoli, con la naturalezza derivantegli da un'antica consuetudine, mi erudisce circa le differenze tra il talmud gerosolimitano e quello babilonese, mi accompagna con soave immediatezza, procedendo di citazione in citazione, attraverso la gimatreya, ovvero l'interpretazione delle lettere per mezzo del loro valore numerico che è, senza dubbio, l'aspetto più affascinante dell'ermeneutica cabbalistica, mi conduce in una vertigine di segreti, ponendomi domande, di volta in volta sempre più inquietanti, per i sette sentieri della Torah, facendomi infine approdare alle enigmatiche acque del Sefer ha-zohar (Il libro dello splendore). Succede anche, che un'improvvisa nostalgia di giovinezza, un senile, irresistibile bisogno di ritornare alle memorie più lontane, induca Guido a rievocazioni di personaggi famosi o di compagni che in tempi passati si sono esibiti, chi come augusto chi come clown bianco, sotto lo zingaresco chapiteau del giornalismo. Da una Bologna rabberciata in preda a forti tensioni post-belliche, dalle spoglie stanze, niente di più di taccagne stamberghe, che fungevano da redazione al "Progresso d'Italia", spunta la figura del redattore-capo Giosuè Ravaioli. Canticchiando arie mozartiane, quest'uomo di Forlimpopoli, singolare ed incantevole per maestosità e ponderatezza, osava, dissipando le sepolcrali, dense nebbie che avvolgevano i lugubri comitati centrali del PCI, contraddire il segretario generale del partito e contrastare, con perfetto, agghiacciante equilibrio logico, la collera servile di funzionari cortigiani e disutili frapponi. Sarà in un clima di accesa guerra fredda, durante la campagna elettorale del 1948, mentre i "comitati civici" di Luigi Gedda, attraverso la vischiosa, cagliostresca rete parrocchiale, lanciavano la loro malanimosa crociata ideologica, che Guido Nozzoli vivrà la stagione più esaltante, dando modo alla sua propria naturale ironia, al suo implacabile rigore dialettico di trionfare in qualsivoglia contraddittorio.

 

Nel cuore della storia e della grande politica

 

Inseguiva ovunque andassero i rapinosi "frati volanti" e con studiato zelo perseguitava la lucida paranoia controriformistica di padre Lombardi, "vero e proprio architetto di calunnie", assurto, per prodigio tecnologico, a marconiano microfono di dio. Padre Samoggia, incalzato e messo alle corde dagli artifizi verbali e dalle scaltritezze retoriche del giovane giornalista riminese, fuggì dopo esser caduto in attacchi isterici e non prima di aver ricoperto l'antagonista di maledizioni, vomitandogli contro una cascata di appellativi propri della satanica legione: Rubicante, Graffiacane, Ciriatto, Barbariccia, Libicocco, Cagnazzo, Alichino, Calcabrina, Farfarello... Inviato speciale in ogni parte del mondo, Guido Nozzoli, abilissimo a stringere in netti contorni ed a contenere, descrivendole in raffinati servizi, le grandi vicende epocali che hanno caratterizzato questi ultimi cinque lustri di storia, fu lucido testimone allorché i carabinieri del colonnello Luca, annunciarono, il 5 luglio 1950, di aver ucciso il bandito Giuliano in uno scontro a fuoco avvenuto in località Castelvetrano. Seguì il processo che, il 31 ottobre 1951, decretò la condanna all'ergastolo dell'ex maggiore delle SS, Walter Reder. Fu a Modena quando, nel freddo inverno del 1950, la polizia del ministro dell'interno Mario Scelba, dai tetti delle Fonderie Orsi, sparò sugli operai, causando sei morti ed una decina di feriti. Visse da protagonista la catastrofe biblica che il 17 novembre 1951, colpì il Polesine nel momento in cui il Po ruppe gli argini e otto miliardi di metri cubi d'acqua si riversarono per le campagne distruggendo paesi e case, uccidendo e devastando. Seguì, minuto per minuto, l'azione con la quale il generale vietnamita Vo Nguyen Giap, costrinse alla resa, il 7 maggio 1954, la roccaforte francese di Dien Bien Phu, difesa dal generale Christian de Castries, con i suoi 10.000 uomini. Si recò a Budapest per tener dietro agli esiti della sollevazione ungherese, repressa brutalmente dai carri armati sovietici, nonostante la disperata resistenza della popolazione, nell'autunno del 1956. Esemplari furono i suoi reportages sulla rivolta algerina, tra i quali spicca l'intervista strappata al capo del Fronte di Liberazione Nazionale, Ben Bella. Scrivendo sulle pagine de "Il Giorno", il quotidiano milanese voluto e finanziato da Enrico Mattei, Guido Nozzoli, continuò le peregrinazioni di giornalista girovago e, da qualsiasi luogo che rappresentasse una tappa della sua geografia antropica, produsse singolari ed incantevoli "articoli". Protagonista di una enorme, incessante sfilata avente come passerella l'atlante, Guido Nozzoli, percorse regioni e stati: la Praga di Dubcek, il Congo e l'Uganda, Firenze sott'acqua, la penisola del Sinai, la Cisgiordania e le alture del Golan, la Liberia mangiata da mosche, Barbiana sperduta, maggio a Parigi, Quartiere Latino, Vajont e processi e ancora il Vietnam. Chissà se a Cecco Rosso, Igor Man, Egisto Corradi, che gli furono compagni fedeli in codesti tortuosi pellegrinaggi, sia capitato di trovare la verità? La coscienza della vanità d'ogni cosa impedisce al vecchio cronista, di nutrire eccessive speranze. "L'intera mia generazione - dice Guido - è ridotta povera e cieca. Chissà di cosa parlano i giovani tra loro?". Le ore della notte, che scivolano silenziose, sembrano attenuare la ciclotimia e la tristezza del mio caro amico anche se il dolore di un distacco, di una luttuosa sciagura che incessante si ripropone, l'avvolge come in un velo. Provo a dirgli che nonostante tutto dobbiamo avventurarci nel nostro assurdo, insensato, crudele destino. E parlo e dico che è forse giusto dare un senso perfino alla disperazione. Ringrazio Guido per i suoi silenzi, per gli amari pensieri, per la sua incomparabile scrittura, per l'onesta esibizione della sua vecchiezza, per il suo sapere, per i suoi racconti che sanno penetrare fino al cuore. Ringrazio Guido di essermi amico.

Enzo Pirroni


Da Chiamami Città.

Sugli scogli del molo di levante, d'estate, si davano appuntamento "per il bagno" Demos Bonini, Guido Nozzoli, Curzio Quondamatteo, Glauco Cosmi, Marino Vasi, Floriano Biagini...

Affabulazioni e ricordi in forma di poesia

 

In un'esistenza insidiata dall'inesorabile trascorrere del tempo, necessariamente tormentata dal problema del poi, del domani, di quello che sarà, s'ingenera a tratti, una struggente nostalgia per tutto ciò che non è più, per le cose perdute, per un microcosmo scomparso. Una senile tenerezza mi invade allorché ripenso agli amici che mi hanno lasciato e, proprio nel tentativo disperato e velleitario di salvare dall'oblio quell'intero mondo perduto, in una stordente nostalgia di giovinezza, quasi "maturando verso l'infanzia", non posso evitare, tra reiterati attacchi di ipocondria e di rimpianto, di riandare a quelle lunghe estati, quando sugli scogli del molo di levante si davano appuntamento "per il bagno" Demos Bonini, Guido Nozzoli, Curzio Quondamatteo, Glauco Cosmi, Marino Vasi, Floriano Biagini. Per noi, che a quel tempo eravamo giovani, insicuri, spaesati, era fantastico poter partecipare, silenziosi e invisibili, a quegli intricati orditi dialettici, alle giocolerie verbali, agli incastri di storie, alle girandole di analogie, agli aneddoti che incessantemente, con portata niagaresca, si riversavano nell'acqua azzurra dove, sbigottita, nuotava la muggine tenuta al calappio dal fiocinatore Omero. Il passato è il grande scultore delle nostre personalità e il recupero della memoria ha il potere di consegnare al presente le grandezze e le meschinità degli uomini, riproponendo un tempo filtrato attraverso le innumere distillazioni dei pensieri, dei comportamenti, delle emozioni. Non è possibile, oggi, ricreare né intendere la magia di quel luogo se non si è vissuta l'atmosfera particolare che permetteva a qualsiasi detto, a qualsivoglia racconto, di uscire dalla bieca banalità, dal grigiore iterativo, per innalzarsi verso la più autentica poesia. Intorno a quei, per me tanto amati personaggi, danzavano i fantasmi del passato: i partigiani con lo Sten in spalla, i fascisti in camicia nera, gli antichi maestri pittori, le "macchiette" riminesi: Nasi, Limoun, Silvio Crostelli, il brigadiere generale Christian de Castries che comandava i Legionari francesi a Diem Bien Phu, il bandito Giuliano con la coppola in testa, il colonnello Luca dallo sguardo sfuggente.

 

Il trucco dei miracoli

 

Demos, dopo essersi a fatica, uscendo dall'acqua, issato sullo scoglio (Curzio sosteneva che: "Se la fadiga la fasess bon, i sgnur i l'avria fata da un pez!" ), dava inizio alla sua favola, costantemente sospeso, da un lato, tra toni leggeri, comici che a tratti sfioravano la più irriverente parodia e, dall'altro, la meditazione amara, quasi religiosa, sul mistero dell'arte. Certe volte, ascoltando i suoi discorsi, lentamente sussurrati, si aveva la sensazione di entrare nelle botteghe rinascimentali e pareva che gli antichi maestri della Firenze laurentina si materializzassero come per incanto e si aveva la certezza, lì, sotto il sole a perpendicolo, tra stridenti nuvoli di gabbiani, che la ragazzina dal bronzeo, sottile, agile corpo, altri non fosse se non una modella uscita dalla bottega del Verrocchio. Demos, affabulatore magnetico e fascinoso, sapeva che la vita è di per sé assurda, insignificante, per cui si affidava a qualsivoglia appiglio onirico, quasi volesse prender le distanze dalla responsabilità dell'esistenza e tra immaginazione, spinte irrazionali, sciorinava nella conversazione i più arditi artifici verbali. Come un mago, disponeva ben in vista i propri incantesimi e, dopo aver stupito gli astanti, con una battuta dissacratoria, rivelava, sul posto, il trucco dei suoi "miracoli".

 

I Templari, il Vietnam, l'Africa...

 

Guido Nozzoli nelle conversazioni riversava il compiacimento di una cultura raffinatissima e sterminata. La sua professione di inviato speciale lo aveva portato in ogni angolo del globo terracqueo, parlava diverse lingue, ed aveva conosciuto i più importanti personaggi del XX secolo. Di alchimia, di scienze esoteriche, di astrologia, di storia era conoscitore profondo. Nonostante il lavoro lo portasse ineluttabilmente verso la politica e la più prosaica cronaca, Guido, si sentiva magneticamente attratto dagli arcani. I temi del sacro Graal, il tesoro dei Templari, i Pomi d'Oro delle Esperidi, il rito, l'alfabeto come conoscenza mistica, il golem, il mistero dei numeri, affioravano nella continua, caprioleggiante dissertazione che aveva nell'atlante il punto d'incontro tra il nostro giornalista e il mondo. Regioni e stati, uomini politici, scrittori, capi militari, venivano riproposti ed in questa geografia antropica si coniugavano il Viet-Nam ed il generale Westmoreland, Ho Chi Minh ("Colui che illumina") e l'anarchico Amilcare Cipriani, un sonetto di Petrarca e la Cecoslovacchia invasa, l'Africa diventava il tropicale parco degli oggetti misteriosi nel quale era possibile, tra mosche, scorpioni e zanzare, veder spuntare un medico napoletano, diverso e bizzarro: il prof. Saggese il quale, da tempo, si era appropriato del segreto dell'eterna giovinezza. Il mappamondo ruotava sotto le dita di Guido e quando non era più sufficiente interveniva la fantasia a rimodellarlo fino ad adeguarlo alle dimensioni dei suoi bisogni fantastici.

 

La perfezione dialettica

 

La figura alta, sottile e severa del professor Marino Vasi, aveva di per se stessa un non so che di impervio e pareva che da quell'altezza le di lui argomentazioni si ponessero di diritto quali custodi dei più autentici valori della ragione. La matematica era la fortezza inespugnabile da cui partiva il suo "sermo generatur ad intellectu" e noi tutti avevamo la certezza che solo un matto ne avrebbe potuto negare la validità, e solo uno sciocco avrebbe escluso che avesse un riferimento oggettivo. Tuttavia quella perfezione dialettica, quella precisione sillogistica, quell'argomentare freddo, con intavolature matematiche e geometriche, esemplare per completezza ed essenzialità, doti che ancor oggi caratterizzano ogni ragionamento di Marino Vasi, avevano il potere di intimorirci. Per cui, allorché con lunghi passi, gli occhi protetti da enormi e spesse lenti scure, quasi accecato dai riverbanti barbagli del sole sull'acqua, faceva la sua comparsa Glauco Cosmi, per tutti noi era una epifania.

 

Capolavori di intelligenza comica

 

Poteva o no Glauco fischiettarci l'ouverture del Don Giovanni di Mozart, poteva o no procurarci vertigini malheriane accennando sottovoce all'inizio della Seconda sinfonia, poteva o no incantarci con storielle esilaranti esibendo un vero e proprio arsenale di facezie, di aneddoti, che solo l'avesse voluto veramente, l'avrebbero portato, se raccontate nei giusti luoghi, ad essere il comico più intelligente ed ironico circolante in Italia. Egli stesso era di per sé una presenza appartenente alla schiera dei lacrimosi Pierrot, dei giocolieri, dei guitti, dei "fini dicitori": in abiti neri, in un'attitudine accigliata che faceva più risaltare le fiammeggianti invenzioni verbali di cui era capace, pareva duellare continuamente con la plumbea gravezza del vivere e fatalmente, comunque andassero le cose, riusciva ad esser lui il vincitore, allorché alla fine di quegli strabilianti monologhi che erano veri capolavori di intelligenza comica, strappava agli ascoltatori il riso più sincero. Gli scogli non sono più frequentati. Per noi, ormai, l'adesione al mondo della "marina" è ostacolata da avveniristici, dissacranti progetti. Le visioni si intrecciano ai pensieri, ma gli enormi tendoni deturpanti, le distese grigie di cemento, la folla che scivola, ignara e sbalordita, confusa nel proprio peregrinare, la devastazione e lo scempio ambientale, hanno fatto sì che non resti altra alternativa che invocare il sonno dell'oblio. Secondo Aristotele il sonno era dovuto ad un raffreddamento del cuore. Sarà per questo che i vecchi non dormono mai?

Enzo Pirroni


Da un altro articolo di Chiamami Città, sempre di Enzo Pirroni.

 

Rimini per il mio amico Guido Nozzoli è la caput mundi, il centro da cui si irradia qualsiasi Weltanschauung. Spesso, quando era ancora inviato speciale del "Giorno", amava iniziare i suoi servizi con questo incipit: "Come dice il mio amico Curzio...". Curzio Quondamatteo era un macellaio riminese umile, buono, di grandissima umanità e di invidiabile buon senso. Anche per me Rimini resta il "cerchio magico" dal quale prendono il via tutte le storie e le avventure più affascinanti.


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Per Nozzoli e il Vajont

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13 novembre 2000