CAPITOLO PRIMO 1919 - 1920
Il primo dopoguerra a Modena e il “biennio rosso”
Al termine della prima guerra mondiale (conclusasi il 4 Novembre 1918)
l’Italia e la Provincia di Modena in particolare, si vengono a trovare
in una situazione che definire precaria ci pare eufemistico. 630.00
morti di cui oltre 6.000 modenesi e oltre un milione di feriti sono il
bilancio di quel tremendo conflitto. Oltre ad un debito per spese
belliche di 65 miliardi di lire-oro. L’economia modenese era a rotoli,
migliaia e migliaia di disoccupati, gli ex combattenti umiliati e
avviliti, il rincaro dei prezzi che era arrivato sino a valori del 625%,
chiusura massiccia di laboratori, botteghe artigianali e piccole
industrie avevano creato nell’opinione pubblica uno stato di
frustrazione e d’incertezza per il futuro che, nonostante la guerra
vinta, non prometteva nulla di buono. Oltre a tutto questo vi fù la
pesantissima epidemia d’influenza chiamata “spagnola” che provocò
numerosissime vittime.
La gioia della vittoria fu un'ebbrezza forte e fugace. L'Italia era
divisa in due settori: uno fiducioso, l'altro scettico. Quello fiducioso
comprendeva soprattutto la gioventù e, quindi, l'enorme maggioranza del
Paese. Il terribile sforzo della guerra aveva costretto anche l'Italia
alla mobilitazione totale di tutte le sue risorse, materiali e morali..
Si era compresa la necessità dell'ottimismo e la necessità di mantenere
segrete le notizie deprimenti, di dare di tutti gli avvenimenti, le
interpretazioni più favorevoli. Nacque così la nozione di "disfattismo".
Era fatale, quindi, che la cessazione delle ostilità significasse un
crollo delle speranze dei combattenti. Il gruppo degli scettici, che era
composto soprattutto dai neutralisti del 1915, rimaneva convinto che la
guerra era stata un gigantesco delitto, di cui l'Italia avrebbe pagato
le terribili conseguenze. Essa si proponeva di compiere ogni sforzo per
liquidare la mentalità di guerra e cercare di tornare all'equilibrio di
prima.
Vi era stata in Italia, contrariamente agli altri paesi belligeranti,
una continua opposizione alla guerra, con particolari attacchi da parte
dei socialisti e dei cattolici; taluni socialisti avevano rivendicato
“l’onore” di essere stati complici, della disfatta di Caporetto.
Concluso il conflitto, quelle forze si organizzarono ancora contro lo
Stato ed iniziarono una feroce campagna d’odio contro quanti avevano
voluto la guerra e contro i suoi valori: si diceva che bisognava
“disonorarla”. Per di più i cattolici erano contro, si riunirono in
partito e presero i maggiori responsabili di questo tra i clericali
favorevoli all’Austria, in Trentino e parte di quel clero siciliano da
sempre antiunitario. Il partito socialista spingeva il proletariato
verso la rivoluzione, verso la conquista violenta del potere politico
economico, sulla falsariga della rivoluzione russa, potere che doveva
essere affidato interamente ai Consigli degli operai e dei contadini,
così come fu affermato al Congresso socialista di Bologna del 1919.
Gli scioperi si succedevano in continuazione, in quell’anno se ne
contarono 1871, con conflitti sanguinosi con la forza pubblica: furono
uccisi 145 scioperanti e 444 feriti, con enormi perdite per la vita
economica della nazione uscita prostrata dalla guerra. Sommosse con
saccheggi e rapine d’innumerevoli negozi, con l’uccisione dei negozianti
che cercavano di difenderli.
Anche nelle nostre contrade imperversava quella violenza, attraverso
boicottaggi, invasioni, fatti crudeli che cercavano di indirizzare le
masse verso il comunismo, così com’era duramente colpita l’autorità
dello stato, dai ferrovieri che rifiutavano il trasporto di merci e di
militari, insomma “tutto il potere ai lavoratori”.
Ma i socialisti erano troppo divisi, tra quelli che accusavano i
massimalisti come predicatori di una rivoluzione impossibile e questi
che accusavano i riformisti di annullare il marxismo e il socialismo
dentro al pentolone borghese; non potevano vincere.
Vi erano già larghi strati proletari che cercavano di uscire da quella
dimensione attraverso la costituzione della loro proprietà; contadini
diventati proprietari del podere, già in precedenza coltivato per altri,
e operai delle varie industrie, meccaniche, tessili, calzaturiere che
riuscivano a mettersi in proprio creando piccole officine, creando
quella forma d’artigianato che li toglieva, attraverso una
responsabilizzazione diretta, dalle dipendenze del padrone.
Il governo della vittoria, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando,
commise un errore decisivo. La Camera, eletta nel 1913, alla cessazione
delle ostilità aveva già compiuto da qualche mese il suo quinquennio di
vita. Bisognava indire immediatamente le elezioni, come Francia e
Inghilterra fecero, approfittando dell'entusiasmo della vittoria e
quindi raccogliendone i frutti.
Fu invece sotto il controllo di una Camera che era sempre quella del
1913, diffidente e segretamente ostile, che Vittorio Emanuele Orlando
partì per Parigi. Così, mentre il Parlamento fu la forza dei francesi e
degli inglesi, questo diventò la debolezza della nostra delegazione. La
conseguenza fu che l'euforia andò rapidamente svanendo cedendo il campo
ad un pauroso spirito di dissoluzione.
La violenta, amarissima delusione fu, ad un tempo, sociale e nazionale.
I reduci, ritornati a casa, videro che tutti i posti di lavoro erano
occupati da coloro che essi, in trincea, erano stati invitati a
disprezzare come "imboscati". Niente era stato preparato per assicurare
il pacifico ed ordinato passaggio dallo stato di guerra allo stato di
pace. D'altra parte, le industrie che fabbricavano materiali di guerra
chiudevano rapidamente i battenti. Venne, quindi, formandosi, fin dai
primi mesi del dopoguerra, un'enorme massa di disoccupati, che non
apparteneva solo allo strato inferiore della piramide sociale, ma anche
al ceto medio.
Le lauree erano state concesse con gran prodigalità: c'era, dunque, una
pletora di giovani laureati, ex ufficiali di complemento, che non
avevano quasi nessuna possibilità di stabile sistemazione. La classe
dirigente politica, che era sempre dominata dalla maggioranza
parlamentare del 1913, non aveva la minima attitudine ad affrontare e
risolvere i colossali problemi che si presentarono.
Una delle principali conseguenze della guerra era stato il colossale
impulso che aveva avuto il marxismo: impulso che si era risolto in una
profonda trasformazione. La massa dei reduci, appena abbandonato il
grigioverde, non trovando nello Stato l'immediata ed efficace protezione
alla quale aveva diritto, si rivolse, com'era naturale, ai movimenti
sindacali. Questi, diretti da esperti e navigati socialisti, assunsero,
rapidamente, proporzioni gigantesche. Sennonché, il socialismo italiano
non era già più quello del Bissolati del 1901, né quello del Modigliani
e del Treves del 1914, né quello del Turati patriota del 1917. La
rivoluzione russa dell'ottobre 1917 aveva intimamente sconvolto il
socialismo di tutti i Paesi.
Il partito socialista, in Italia, era maturo, alla vigilia della guerra,
per la direzione del potere. L'opinione pubblica attendeva con simpatia
che alla definitiva caduta di Giolitti, per morte o per vecchiaia, gli
sarebbe successo un Turati o un Treves. Lo svolgimento di questo
concreto progresso politico fu interrotto non tanto dalla guerra, quanto
dalla rivoluzione russa e dal trionfo della frazione bolscevica del
partito socialdemocratico. Il bolscevismo aveva adottato metodi che
erano totalmente in contrasto con tutte le tradizioni dei partiti
socialisti e socialdemocratici; questi, in tutti i Paesi, rimanevano
fedeli al metodo democratico e in questa maniera trovavano la base di
collaborazione e di convivenza con i partiti democratici borghesi. I
bolscevichi, invece. propugnavano l'azione diretta, l'azione
rivoluzionaria, l'instaurazione della dittatura del loro partito,
organizzato su uno schema autoritario e militaresco.
Finita la guerra, il bolscevismo russo, che voleva creare a sé uno
sbocco nell'Europa occidentale e quindi anche in Italia, favorì con
danaro e con ogni mezzo il sovversivismo nostrano che, sfruttando le
tristi condizioni economiche del periodo del dopoguerra, tentava in
qualche modo di impadronirsi dello Stato.
Del resto si era ancora alle idee di Tkacev, che nell'esporre le
condizioni di successo di una rivoluzione, scriveva ad Engels
"Basteranno due o tre disfatte militari, alcune insurrezioni contadine
simultanee in due tre province e un insurrezione aperta nelle città, in
tempo di pace, perché il governo rimanga completamente isolato e
abbandonato da tutti. Mille rivoluzionari decisi a tutto, e la
rivoluzione è fatta
La situazione socio-economica, attorno agli anni venti, della Provincia
modenese era estremamente variegata, con sacche di vera e propria
povertà. In tante zone della provincia, in particolare in quelle
tipicamente a conduzione agricola, vi si trovavano varie forme di
compartecipazione con il padronato. quali terzeria e quarteria.
Brevi premesse vanno fatte prima di entrare nell’analisi di quel periodo
di storia modenese ed italiana e, di conseguenza, prendere in esame
qulle che sono state le tendenze dello sviluppo industriale, prima, e
poi durante il periodo fascista, nella nostra Provincia.
Agli albori del Fascismo le produzioni prevalenti, in Provincia di
Modena, erano quelle foraggiere e dell'uva; rappresentavano il 65% del
reddito agricolo provinciale con una produzione di foraggi per un
importo complessivo di 143 milioni di lire annue, di 113 per l'uva,
mentre, a distanza, seguiva il frumento con soli 53 milioni.
Vi era, pertanto, una ricchissima presenza, sul nostro territorio, di
capi di bestiame, tanto da essere, già a quei tempi Modena, uno dei
maggiori centri d'Europa, con numerosissimi capi di, bovini, cavalli e
suini; mentre in montagna, ovini e caprini davano alla nostra Provincia
uno dei primi posti nelle graduatorie nazionali. Notevoli erano anche le
produzioni di granoturco e fagioli, mentre era relativamente scarsa la
produzione della barbabietola da zucchero.
La popolazione della Provincia raggiungeva le 395.513 unità e tra
queste, la popolazione attiva si contava su 199.572 persone, delle quali
ben 128.985 erano dedite all'agricoltura, con una percentuale del 65%,
mentre il 20% dedito all'attività industriale e, il 15%, ad altre in
generale.
La proprietà agricola era distribuita in buona parte tra i grandi e medi
proprietari terrieri, dei quali faceva parte la Chiesa che, con ben 210
parrocchie sparse sul territorio Provinciale e che mediamente
possedevano uno o due poderi condotti a mezzadria, aveva una gran fetta
della proprietà agricola nella nostra Provincia.
La vita nelle campagne era di conseguenza poverissima; braccianti,
mezzadri, fittavoli, salariati fissi ed avventizi tra i quali i
bifolchi, i cavallanti, gli acquaioli ecc. erano malpagati e sfruttati
dalla classe dominante che, anche per merito dell'influenza dei parroci
su questi inculturati, riusciva a mantenere i lavoratori delle campagne,
attraverso i numerosi pregiudizi d’ordine religioso quali superstizioni
e carenza d’educazione, in uno stato d’arretratezza endemica.
Nella nostra Provincia dunque, oltre alla forma di conduzione mezzadrie,
che vedeva la formula, possidente, fittavolo, mezzadro, la regola
tradizionale, che sarebbe andata avanti per tanti anni, anche nel
secondo dopoguerra, era quella del rapporto diretto,
possidente-mezzadro.
Vi era anche il fenomeno della piccola proprietà che incideva per circa
il novanta per cento del totale, ma che in realtà possedeva solamente il
20% del territorio agricolo mentre il restante rimaneva pur sempre alla
grande proprietà terriera. Particolare era poi la situazione dei
braccianti che si suddividevano in tante categorie, dai boari al
bracciante avventizio, dal garzone al giornaliero di campagna, dal
salariato fisso al servo agricolo e che trovavano impiego, come
dipendenti, dei grandi possidenti o dei fittavoli, ma spesso anche
presso i piccoli proprietari, in particolarmente nelle occasioni più
importanti dei lavori agricoli quali la mietitura, la trebbiatura, la
vendemmia, la pigiatura oltre alla semina ed in altre occasioni. Vi era
anche una larga partecipazione femminile al processo produttivo.
L’assenza delle braccia maschili durante la guerra, la larga falcidia
dei contadini in quella spaventosa carneficina, le grosse difficoltà
economiche dell’epoca, portarono molte donne a svolgere le attività
agricole, si pensi che tra il 1912 e il 1921, passarono da circa 28.000
unità a ben 44.500.
Un altro aspetto, da non trascurare per la nostra Provincia, è stato
quello delle cooperative agricole che ebbero un certo sviluppo negli
anni tra la fine della guerra e l’avvento del fascismo. Furono 13 nel
modenese con 706 soci ed è interessante rilevare come queste usassero
mezzi meccanici quali, trebbiatrici, trattori, aratri e quant’altro di
colore rosso, contrariamente alle macchine delle aziende agricole
padronali, che erano di colore giallo.
Provincia dunque particolarmente agricola quella modenese agli albori
del fascismo, con scarsi insediamenti industriali particolarmente
localizzati nel capoluogo e nei centri maggiori; in realtà l'attività
industriale esistente in quegli anni, era sparsa in una miriade di
piccole officine e laboratori a prevalenza artigianale. In città
spiccavano: la Fabbrica Italiana serrature Corni, la Manifattura
Tabacchi, le officine Rizzi e Benassi e in Provincia, la SIPE di
Spilamberto, mentre nel carpigiano era fiorente l'attività del truciolo.
La crisi economica, nella quale si venne a trovare la nostra Provincia
in quegli anni, acuì maggiormente le tensioni sociali e la lotta
politica assunse toni, in certi momenti, drammatici.
In breve tempo il movimento fascista seppe coagulare attorno a sé
l’attenzione di grossa parte della classe operaia e della borghesia,
entrambe insoddisfatte della politica del Partito Socialista e del
Partito Popolare, tanto da ottenere un buon successo alle elezioni del
1921, sino a quello clamoroso del 1924. Il Fascismo trova, di
conseguenza, nella Provincia modenese una situazione quantomeno
delicata; disoccupazione, immigrazioni dalla montagna alla pianura,
aumento della popolazione, piccole e medie industrie in crisi con il
ritorno della mano d'opera alle campagne già sature di braccia,
l'emigrazione delle donne modenesi nelle risaie del novarese e del
vercellese per lavori stagionali, diminuzione dei salari; si andava
dunque incontro, e a grandi passi, alla crisi che sfociò alla fine degli
anni venti e che sconvolse l'economia del mondo occidentale ma che in
Italia venne in parte controllata e ridimensionata in breve volgere di
tempo.
II partito maggioritario a Modena, in quegli anni, era il Partito
Socialista Italiano con le sue due anime, riformista e rivoluzionaria.
Gli esponenti più in vista erano Gregorio Agnini, Alfredo Bertesi di
Carpi, l’avvocato Cesare Marverti, il Segretario della CGIL Enrico
Ferrari, l’avvocato Pio Donati; sempre nell’area di sinistra esistevano
altri piccoli partiti quali i socialisti libertari, gli anarchici, i
radicali.
Erano i partiti della classe operaia, degli anticlericali e delle classi
più deboli in generale: all’inizio del 1919 venne costituito il Partito
Popolare Italiano PPI, i cattolici, che si erano fondamentalmente
astenuti dalle lotte di inizio secolo, entrano nella lotta politica. A
Modena i maggiori esponenti di questa formazione politica erano:
l’avvocato Francesco Luigi Ferrari, il professor Claudio Nava,
l’avvocato Alessandro Coppi, l’avvocato Giuseppe Casoli, il professor
Giovanni Rizzati e altri, nella maggioranza appartenenti alla classe
borghese e dominante: anche i cattolici presentavano al loro interno due
anime, i progressisti e i conservatori. Al centro dunque i cattolici, a
destra i liberali che non avevano, almeno a Modena un partito ben
definito ed erano raccolti in associazioni, clubs, circoli di vario
tipo, ma che si unirono in vista delle elezioni in una lista chiamata
“Unione di Rinnovamento”.
I maggiori rappresentanti di questo raggruppamento erano a Modena:
l’avvocato Ottorino Nava, il Sindaco Giuseppe Gambigliani Zoccoli, il
giornalista–scrittore Giovanni Borelli, il capitano Mario Pellegrini,
medaglia d’oro della prima guerra mondiale. Sempre nell’area di destra
si trovava l’Associazione Combattenti guidata dall’avvocato Vittorio
Arangio Ruiz.
Nel Marzo 1919, il giorno 23, a Milano Benito Mussolini fonda i Fasci di
Combattimento che in brevissimo tempo passeranno, da un piccolo gruppo a
grossa formazione politica. A proposito della situazione in Italia così
scriveva lo storico Attilio Tamaro:
“in quel momento la fiumana rossa ingrossava, la vita nazionale sembrava
doversi spartire tra le camere del lavoro e le sagrestie e il valore
della vittoria perdersi nelle bestemmie degli uni o nell’ipocrisia degli
altri, Mussolini pensò di fondare un organizzazione che si opponesse a
tanto sconquasso. Era colmo di energia esplosiva, credeva nel suo
destino e pensava sé stesso nell’avvenire. Nel gennaio 1919 appoggiò
(dato che si trovava ancora su di una linea socialista) l’agitazione dei
metallurgici, nel febbraio dei fonditori, nel marzo lo sciopero agrario
novarese. Si precipitò a Dal mine per inneggiare, con un discorso
diventato celebre, agli operai di una fabbrica, che, guidati da
sindacalisti, l’avevano occupata e vi avevano alzato il tricolore."
Precedentemente, a Modena, nel mese di Gennaio del 1919, si era
costituita l’”Associazione dei Combattenti” in Via Mondatora in un primo
tempo e successivamente in Via Francesco Selmi, guidata dall’Avv.
Vittorio Arangio Ruiz, da Francesco Bianchi, Mario Cabrini, da Gino
Montipò, eroe della Marina Militare, da Manfredo Manfredini, oltre che
da Vico Guandalini, Giorgio Levi e Virginio Bucci. Quest’associazione,
si trasforma in seguito, nell’”Associazione Nazionalista delle Camicie
Azzurre”; confluirà nelle file del nascente fascismo
Fu costituito poi, il 7 Maggio, in Via Rua Muro il “Fascio Futurista
Marinettiano”, al quale aderirono molti giovani, studenti, giornalisti,
pittori quali, Mario Vellani Marchi e Augusto Zoboli; organizzano serate
culturali e goliardiche recitando le poesie del poeta e scrittore F.T.
Martinetti.
Si creò, sempre nel mese di Giugno di quell’anno, fondato dall’ex
Sottotenente degli Alpini, Ermanno Masinelli, il “Fascio di
Combattimento”, ne facevano parte anche, Duilio Sinigaglia, Fausto
Vandelli e certo A. D’Alessandro.
Il 27 Maggio il sottotenente degli arditi Cesare Cerati nella sala San
Vincenzo di Corso Canalgrande (dove ora ha sede il Tribunale) tiene il
primo comizio fascista alla presenza di ex combattenti e studenti, in
sala erano presenti anche alcuni socialisti che intonarono l’inno dei
lavoratori scatenando un putiferio tale che dovette intervenire la forza
pubblica e il comizio fù sciolto. Dopo pochi giorni Gabriele D’Annunzio
partì per l’impresa Fiumana, alla quale si aggregarono alcune decine di
giovani modenesi.
Il 20 e 21 Luglio di quell’anno fu proclamato lo sciopero generale che,
in sostanza, dà l’avvio a quello che fu definito, “il biennio rosso”.
Il 15 Novembre si svolsero le prime elezioni politiche del dopoguerra
che diedero a Modena i seguenti risultati: Partito Socialista Italiano,
36.976 voti, Partito Popolare Italiano, 10.939 voti, Liberali, 6.844
voti, Fascio d’Avanguardia, 5.426 voti, Combattenti, 1.383 voti. Furono
eletti deputati quattro socialisti e un popolare: Agnini, Donati, E.
Ferrari e Chiossi per i socialisti e G. Casoli per il PPI.
1920 Anno di violenze
Si è parlato tanto di violenza fascista e sempre in termini di accusa al
fascismo. Tuttavia la violenza di quegli anni non nasce dai fascisti.
Finita la guerra, furono i socialisti, gli anarchici, ed anche i
repubblicani ad usare la violenza fisica contro gli avversari.
Assalivano i reduci di guerra, distruggevano vetrine e picchiavano
cittadini inermi mettendo bombe assassine, scioperando selvaggiamente
oltraggiando la forza pubblica. La violenza nasce “rossa” e così è
rimasta, durante tutto il biennio che gli storici hanno definito
“rosso”, in pratica dal 1919 al 1921. Il modello era la rivoluzione
russa che sarebbe dovuta sfociare nel sistema dei “soviet”, (non si
dimentichi che già in quegli anni gli emissari dei Soviet sovietici,
distribuivano in Europa e in particolare in Italia, somme considerevoli
per la propaganda e lo sviluppo dei programmi e delle idee bolsceviche).
A questa violenza sovversiva, durissima e sanguinosa, prima
individualmente, poi in forma di squadre organizzate, si opposero
cittadini di ogni condizione sociale.
Cosi in tutta Italia ed ovviamente anche in una Provincia, come quella
modenese, dove la presenza dell’apparato socialista e poi comunista, era
ben radicato.
In quel 1920 gli scioperi e le dimostrazioni erano all’ordine del giorno
e la conflittualità tra popolari e socialisti era costante, comizi
interrotti, oratori aggrediti e lotte in continuazione. A Mortizzuolo di
Mirandola ci fù il tentativo d’accoltellamento di un giovane cattolico;
a Polinago un altro cattolico fu pugnalato mentre usciva dalla chiesa;
idem a Montese con rivoltellate ad un popolare.
Gravi incidenti avvennero a Modena, in Piazza Grande, durante uno
sciopero generale proclamato dalla Camera del lavoro, in seguito ai
gravi incidenti avvenuti a San Matteo di Decima di Persiceto, dove si
dovettero contare otto morti. Il 7 Aprile, gli scioperanti, riuniti in
Piazza, furono presi a fucilate dalle guardie regie che cercavano di
sequestrare la bandiera della Lega proletaria. Si contarono cinque morti
(Evaristo Rastelli, Antonio Amici venditore ambulante, Linda Levoni,
l’agricoltore Ferdinando Gatti e Stella Zanetti.) altre 15 persone
rimasero gravemente ferite. A seguito dell’eccidio vi furono
manifestazioni in tutta la Provincia e lo sciopero generale andò avanti
per quattro giorni.
Durante il mese di Maggio, socialisti e anarchici, mettono a segno un
clamoroso furto al 2° Campale: sono trafugate sei mitragliatrici e molte
munizioni. L’episodio suscitò molto scalpore, ma dopo circa un mese
queste armi furono scoperte a San Prospero, in riva al fiume Secchia. In
seguito furono arrestati una trentina tra socialisti e anarchici e tre
soldati presunti complici. In seguito s’ipotizzò che il furto delle
mitragliatrici non fosse stata una vera impresa bensì una trappola,
messa in atto dai carabinieri per catturare i “sovversivi” in blocco.
Nel frattempo, a Modena, si costituisce un’altra associazione chiamata:
“Ordine e Libertà”, tra i fondatori troviamo: l’on. Antonio Vicini, l’on.
Vittorio Cottafavi, l’avv. Giovanni Matteotti, il prof. Giovanni
Guicciardi, l’ing. Eugenio Guastalla, l’ing. Giuseppe Baccarani, il
prof. Guido Bianchi, l’avv. Francesco Aggazzotti, il dott. Luigi Vaccari,
l’avv. Guido Dallari, l’ing. Emilio Giorgi, il dott. Guido Corni, il
prof. Mario Serafini, il rag. Bruno Zanetti, il geom. Alberto Reggiani,
il rag. Aldo Benassi, il geom. Alberto Setti e l’ing. Adolfo Vecchi.
Molti di questi aderiranno in seguito al nascente Partito Fascista.
I cattolici reagivano, in modo particolare sull’appennino dove a Lama
Mocogno, a Polinago, a Montecreto, furono bastonati propagandisti
socialisti; gravi incidenti avvennero ad Ospitale di Fanano dove
rimasero uccisi, in seguito agli incidenti tra popolari e socialisti,
dai colpi dei carabinieri, due socialisti, oltre a numerosi feriti e
molti arresti furono effettuati dalle forze dell’ordine.
Il 31 Ottobre ci furono le elezioni amministrative: videro la conquista
di quasi tutti i Comuni della bassa, da parte dei socialisti e ai
popolari andarono quasi tutti i Comuni dell’Appennino; Sindaco di Modena
diventò il socialista Rag. Ferruccio Teglio.
Il movimento fascista non si era ancora organizzato e partecipava alla
vita politica locale in modo disorganizzato e sporadico. Ma la
situazione era, nella nostra Provincia come nel resto dell’Italia, a dir
poco drammatica e così, anche nel modenese, il desiderio di ritornare ad
una situazione di tranquillità fece sì che tante parti della società
civile si riunirono per cercare di mettere un freno alla sovversione
rossa.
Nel frattempo, numerosi modenesi si aggregano alle forze che il poeta
Gabriele D’Annunzio aveva raccolto attorno a sé, per quella che fu
chiamata la spedizione fiumana. Dopo la conferenza di Versailles, che
non aveva restituito all’Italia i suoi confini e città italianissime
come Fiume, si accesero fervori nazionalistici che il poeta seppe
coagulare attorno a sé decidendo di marciare ed occupare, il 12
Settembre 1919, la città istriana, ma dopo un lungo travaglio e i fatti
di sangue del giorno di Natale, i legionari furono estromessi da Fiume
il 31 Dicembre 1920. E’ certo che, dall’avventura fiumana, nacque in
seguito l’idea, in Mussolini, della Marcia su Roma.
Citiamo alcuni dei modenesi che parteciparono alla spedizione a Fiume di
Gabriele D’Annunzio: Mario Panicati, Enzo Ponzi, Duilio Sinigaglia,
Mario Ruini, Arrigo Ruini, Mario Masinelli e Enzo Valori.
Il 16 Novembre in casa Cuoghi in Via Sant’Agata a Modena, venne eletto
il Direttorio del Fascio di Combattimento modenese che risultò cosi
composto: Renato Bussadori, impiegato della Manifattura Tabacchi; ing.
Antonio Rizzi industriale; Enzo Roncati, maestro elementare; Mario
Aminta Ughi, studente di Legge; Fausto Vandelli, assicuratore; Alberto
Vellani, ex Ufficiale degli Arditi; Carlo Zuccoli agricoltore e
possidente; Mario Vellani Marchi pittore; segretario venne nominato Enzo
Ponzi, laureando in Legge, ex Ufficiale degli Arditi e giornalista della
“Gazzetta dell’Emilia”.
Tra i promotori troviamo inoltre, i fratelli Carlo e Augusto Vandelli,
l’avv. Carlo Zanni, gli artisti Edgardo Rota e Augusto Zoboli, l’avv.
Fausto Bianchi, e tra i primi aderenti: gli avvocati, Giovanni
Bergonzoli e Carlo Capello, oltre a Guido Gaudenti, Carlo Giacominelli,
Antonio Monelli, Marco Arturo Vicini, il Colonnello Ciro Bonacini, il
dott Antonio Mazzotto, gli ingegneri, Ubaldo Magiera e Antonio Rizzi,
gli studenti: Emilio Bucciardi, Umberto Monari, Gino Mori, Carlo Alberto
Perroux, Virginio Prandi, Carlo Ramazzini, Corrado Vicini, il rag.
Alberto Poggi, i fratelli Aggazzotti, gli operai, Bovolenta e Federici,
oltre a: Ascanio Boni, Giuseppe e Walter Boni, Renzo Brugnoli, Cosimo
Paolo Baccarani, Paolo Casati, Eugenio Villani, Francesco Corfini, Guido
Crostini, Florestino Dallari, Adolfo Gaddi, Vincenzo Gandolfi, Virginio
Dal Re, Ettore Giovannini, Armando Giuliani, Giuseppe Gregori, Igino
Gazzotti, Ezio e Ugo Guandalini, Vittorio Lisotti, Vasco Jann, Pilade
Lugli, Aldo Lusvardi, Marzio e Romeo Marchi, Ugo Mariani, Luigi Gino
Menabue, Walter Omiccioli, Italo Puviani, Enzo Roncati, Francesco Rossi,
Ubaldo ed Ermanno Sacerdoti, Claudio Sandonnino, Umberto Traldi e
Ermanno Tusini.
Cosi, nei giorni successivi si costituivano altri Fasci locali come
quello di Carpi, costituito in casa Pellicciari il 7 Dicembre, dove era
nominato Segretario Bruno Melloni, coadiuvato dal capitano degli arditi,
Guglielmo Nobis, oltre che, da: Virgilio Lancellotti, Giacomo Fuzzi e
Alfredo Pellicciari. Aderirono al primo fascio carpigiano: Nando
Bellini, Ugo Calzi, Arrigo e Roberto Casarini, Eriberto Ferrari, l’ing.
Mario Cabassi, Leopoldo Ferrari, l’avv. Tommaso Benassi, Gian Battista
Focherini, Roberto Guidetti, Sergio Urbini, Andrea Vellani, Augusto
Mazelli, Nunzio e Zola Bulgarelli, Renzo Galli, Francesco Martini,
Arrigo Tirelli, Alcide Losi, Federico Bassoli, Vico D’Incerti, Vitige
Lancellotti, Mario Cortesi e Alberto Benassi.
A Sassuolo il primo Fascio fu guidato da Rodolfo Maffei e tra gli uomini
più in vista troviamo: Luigi Cantelli, Arturo Bortoletti, Antonio
Aldini, Arnaldo Bertoli, Dario Casalotti, Giuseppe Cassani, Lello e
Arturo Mori, Mario Salietti, Angelo e Guido Veroni, Adelmo Cervi e
Lanfranco Bertini.
A Mirandola, il primo Fascio fu guidato da, Enrico Tabacchi, a
Spilamberto, da Edoardo Graziosi, a Finale Emilia, da Antonio Malaguti e
così via via nascono, le sezioni del Fascio, in tutti i Comuni modenesi.
Pochi giorni dopo a Bologna, avvennero i tragici fatti di Palazzo
d’Accursio, con nove morti e molti feriti. A Modena e a Carpi, così come
in tutta Italia, si svolsero imponenti manifestazioni di protesta, in
città sfilarono centinaia di fascisti e a Carpi fu presa d’assalto la
Camera del lavoro.
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