Non andavo ancora a scuola ma la casa dove credevo essere
nato era diventata improvvisamente più grande, più vuota.
La famiglia dei miei cugini, ospiti per la cronica mancanza di alloggi del
dopoguerra, si era sistemata altrove e ora le stanze a loro riservate (due
camere da letto e il salone) erano vuote e disadorne.
Erano le più belle perché avevano le finestre e un balcone
che davano sul corso principale da dove io guardavo affascinato il via vai
della gente,
Quello che mi affascinava più di tutto era il transitare dei tram
con i ragazzi che giocavano a “farsi dare un passaggio” saltando
in corsa sui respingenti posteriori.
Non vedevo l’ora di crescere per fare anch’io quello che mi
sembrava, più che un’imprudenza, un gesto eroico.
In casa eravamo io, la nonna che, nonostante camminasse con l’aiuto
di una sedia per colpa di una flebite molto avanzata, sbrigava le faccende
domestiche, una zia, nubile, era impiegata presso una delegazione del Comune
e mio padre era sempre in giro a cercare lavoro, ultimamente era stato “assunto”
come tutto fare dalla redazione del giornale. Mio fratello era “a
balia”.
Economicamente, pur non mancando del necessario, non avevamo grosse disponibilità,
anche perché l’affitto era un impegno molto gravoso.
Un giorno suonarono alla porta di ingresso e, come al solito, andai io ad
aprire.
Per riuscire a tirare la cricca del portoncino mi aiutavo con il piolo di
una sedia sgangherata. Quella volta mi apparve davanti una signora molto
magra, alta e tutta vestita di nero.
Mi spaventai perché, pur non avendo sentito il suono della trombetta,
ero convinto che fossero gli spazzini venuti a ritirare, come si usava a
quei tempi, l’immondizia direttamente dalle abitazioni.
Poi la riconobbi: era una signora che abitava nel caseggiato di fronte,
quello delle Case Popolari e che vedevo venire a comperare a credito nella
bottega sottocasa.
Sapevo che acquistava a credito perché una volta che l’avevo
incontrata nella bottega (far piccole compere al negozio sottostante era
una delle mie incombenze più belle), lei usciva con in mano una mela
dicendo: “Segni, Signora Fidalma!”.
Ero così incantato dalla mela che anch’io dissi quella che
credevo la parola magica per avere in regalo una mela : “Segni, signora
Fidalma”. Tra le risate dei presenti, rimediai un bonario scappellotto.
Ora lei era davanti a me e con fare asciutto chiedeva di parlare con la
nonna.
Si accomodò in cucina per risparmiare a la nonna un percorso faticoso
fino alla sala e fu meglio così, perché in sala non avevamo
neppure una sedia.
Mi accoccolai sotto il grande tavolo per ascoltare ma non capii niente,
solo che la nonna era contenta e, quando la signora in nero si fu allontanata,
mi diede un biglietto da portare al vinaio sotto casa.
Al pomeriggio il vinaio, un uomo buono ma che puzzava di sbronze da lontano,
arrivò insieme ai suoi quattro figli portando un mucchio di sedie,
circa una ventina, incastrate a due a due. Ciascuno di loro ne portava due
paia.
“Ringrazi il parroco da parte mia” disse la nonna, dopo aver
fatto mettere le sedie nel grande salone e aver dato una mancia al vinaio.
Alla sera mio padre distribuì le sedie su tre file a semicerchio,
in modo che chi ci si fosse seduto avesse alle spalle la luce del balcone
e di fronte il grande camino.
Non so da dove, portarono anche una vecchia ma ben tenuta sedia a dondolo,
che fu messa a capo di tutte le altre sedie.
Il Natale si avvicinava e io non vedevo fare né il presepe, né
l’albero. Mio padre portava dalla redazione del giornale grossi pacchi
di vecchi giornali che riponeva poi in una delle due camere da letto disabitate,
nell’altra riponeva invece strani pezzi di legno con sopra delle figure
e delle scritte in metallo.
Quando le stanze furono praticamente piene, i giornali vennero bagnati e
appallottolati, poi messi ad asciugare : furono i miei primi palloni!
Un giorno presero posto nella stanza una decina di ragazze e per ultima
entrò la signora vestita di nero, diede a ciascuna un pezzo di vecchio
lenzuolo, un ago, un ditale di legno ( solo il suo era di metallo ma alcune
lo avevano di pelle realizzato in maniera grossolana, forse dal calzolaio),
poi prese dei pezzetti di filo colorato e consegnò anche quelli alle
ragazze; notai che ciascuna di loro aveva una combinazione differente di
colori.
Capii solo alcuni giorni dopo che questo era fatto per impedire che esse
si scambiassero i rispettivi lavori.
Finalmente la scuola cominciò!
Quando il campanile suonava le 16,00 e la luce del sole era insufficiente
la nonna mi mandava ad accendere la luce e il camino.
Il fuoco veniva alimentato dalle palle di carta pressata insieme a qualche
pezzo di quel legno chiaro e leggero con le placche metalliche.
Non mi era permesso restare e poi la cosa non mi interessava, ero troppo
piccolo per apprezzare le grazie delle fanciulle, che si limitavano a salutarmi
quando aprivo loro la porta, ma parlavano solo dei giovanotti che le aspettavano
in fondo al portone.
Parecchi di questi erano marinai di leva e dalle famiglie del rione venivano
poco considerati in quanto la maggior parte aveva tra i suoi componenti
un militare della marina ma di carriera, erano gente di casta, dunque!
Una casta che aveva permesso dare opportunità di magro guadagno alle
vedove di due dei “loro”, per questo avevano pensato di “affittare”
per la signora vestita di nero, che aveva per giunta due figli ancora “dispersi”,
il salone della nonna.
Pur essendo vietato il subaffitto il padrone di casa non si era sentito
in animo di dichiararsi contrario. Forse aveva paura che scoprissimo le
sue intenzioni, infatti, dopo circa 6 anni, mise la casa in vendita; ma
questa è un’altra storia.
Quello che mi interessava della scuola non erano le ragazze ma l’atteggiamento
della “maestra” : mentre le ragazze chiacchieravano, svolgendo
il loro lavoro, lei, sempre austera, non alzava gli occhi dal ricamo e parlottava
tra sé e sé, come recitasse delle preghiere.
Infatti l’ago entrava e usciva dalla tela proprio come se sgranasse
le palline di un rosario.
Raramente si alzava e lo faceva solo quando, con la coda dell’occhio,
si rendeva conto che qualche ragazza era in difficoltà; allora le
si avvicinava in silenzio, indicava con il suo ago il lavoro e lentamente
dava qualche punto che poi rapidamente toglieva.
Altre volte erano le ragazze ad alzarsi e a mostrarle il loro lavoro che,
spesso, riceveva l’approvazione con un piccolo cenno del capo.
Quando l’avanzare della stagione consigliò di tenere acceso
il camino per tutto il pomeriggio, fui ammesso permanentemente nella sala,
in quanto dovevo controllare che la fiamma non fosse troppo viva e neppure
troppo smorta.
Siccome non sapevo ancora contare, per ogni palla di carta o pezzo di legno
che mettevo sul fuoco, altrettanti ne posavo lungo il muro, in modo che
mio padre potesse reintegrare due giorni dopo quanto consumato.
Era un compito che mi piaceva anche se il fumo mi riempiva gli occhi facendomeli
bruciare. Mi piaceva perché potevo fare anche lì quello che
era il mio gioco preferito nei giorni nuvolosi:
guardare come il vento plasmasse la forma delle nuvole.
La mia fantasia cavalcava i cambiamenti di quelle forme, mai dome, con un’eccitazione
tale che alla sera trovavo difficile prendere sonno.
Era un gioco che però non potevo fare tutti i giorni! Non sempre
c’erano le nuvole giuste o il vento adatto e poi anche le forme più
belle ed eccitanti si dissolvevano troppo presto.
Ora però avevo imprigionato le nuvole nel camino e potevo studiarle
e fantasticare per ore, tutti i giorni in cui il camino era acceso.
No, non erano le nuvole di fumo che guardavo, guardavo invece il metallo
( probabilmente una lega di piombo) sui pezzi di legno che, piano piano,
si scioglieva in grosse gocce e, come lacrime, creava rii, laghetti che
poi tracimavano nella cenere.
Erano figure fantastiche, piene dei riflessi della fiamma, imprendibili,
imprevedibili quasi ipnotiche quelle che colavano nelle tenue braci della
carta.
Fingendo di ravvivare il fuoco, cercavo di tenere quei pezzi di legno distanti
dalla fiamma troppo viva, in maniera che la fusione del metallo fosse ritardata
e in qualche modo controllata. Giocavo con le molle e gli alari in maniera
da assecondare la mia fantasia; plasmavo un castello incantato dove la fantasia
di un bambino non aveva limiti.
Quando “le nuvole” erano fredde, solitamente la mattina seguente,
le prendevo, le pulivo e le lucidavo; per ultimo, come guardavo nel palmo
della mano la sublimazione finale di un sogno a occhi aperti, e mi sentivo
felice, quasi potente.
Dopo circa un mesetto le cose cambiarono.
Alle ragazze vennero assegnati non più vecchi pezzi di lenzuola ma
tele nuove, ancora piegate, di un colore marroncino tenue (ora si direbbe
“ecru”) ; il filo non era più ruvido ma segoso, e a tutte
le ragazze fu regalato un ditale in ferro.
Esse si sistemavano sulle sedie e la signora Carmela (questo era, credo,
il suo nome per averla sentita chiamare così dalla nonna; ….
“Comare Carmela…”) consegnava a ciascuna una serie di
agugliate del filo da ricamo già tagliate della lunghezza prefissata
e un pezzo di quella tela.
Affinché ciascuna ragazza potesse avere sempre il suo, Comare Carmela
li aveva contrassegnati con piccoli punti di lana colorata. A fine giornata
poi, li ritirava tutti e le ragazze se ne andavano salutandola con un inchino.
Lei restava ancora un po’ di tempo a controllare e a riordinare i
lavori eseguiti, poi li chiudeva dentro un baule e se ne andava carezzandomi
lievemente i capelli.
Io allora spegnevo il fuoco usando una brocca d’acqua e, stando attento
a non bruciarmi con le ceneri ancora calde, tiravo fuori i miei sogni di
metallo, li rimiravo ancora per riprovare le sensazioni che mi dava scrutare
il mutare delle nuvole, poi li nascondevo tra le palle di carta pressata,
mettendo da una parte quelli che più mi piacevano e tenendo gli altri
pronti per essere di nuovo fusi. Avevo creato un gioco praticamente infinito.
Passò l’inverno e non ci fu più bisogno di accendere
il camino; io mi aggiravo annoiato tra tanta operosità, mi ritrovavo
a spiare e invidiare i ragazzi che andavano a comperare i dolci nella pasticceria
che era proprio di fronte al mio balcone.
Un giorno mi accorsi che Comare Carmela aveva molta difficoltà a
infilare l’ago con una delle sue agugliate perché aveva gli
occhi pieni di pianto; allora, senza che se ne accorgesse presi un ago e
del filo dal cestino dove teneva tutta la roba da ricamare e lo preparai
per lei.
Quando finì l’agugliata cui stava lavorando, fu sorpresa nel
vedermi porgere l’ago già infilato, ebbe un gesto di nervosismo,
mi guardò fisso e poi, visto che stavo per mettermi a piangere, accettò
con un sorriso quel che le porgevo.
Quel giorno le infilai tutti i fili stando accoccolato come un gatto vicino
alla sua gonna nera.
Quando andò via, corsi da la nonna e le raccontai il fatto; la nonna
disse che avevo fatto bene, perché proprio quel giorno era arrivato
un avviso che dava per definitivamente morti i suoi due figli.
Il giorno dopo ero già dimentico del mio nuovo incarico, ma mi accorsi
che Comare Carmela non era la solita, sembrava più curva e gli occhi
non erano pieni di lacrime ma bruciavano di febbre.
Anche le ragazze se ne accorsero e corsero a chiamare la nonna che, dolcemente,
la prese con sé e la portò in cucina. Io ne approfittai per
fare lo stupidino con le ragazze, correvo da una all’altra a mettere
il filo nei loro aghi.
La giornata fu molto corta e finì improvvisamente.
Il giorno seguente tutto sembrava tornato alla normalità, solo io,
“al mio nuovo incarico di infila-aghi”, mi accorgevo che Comare
Carmela trasaliva ogni volta che sentiva uno scoppio di risa venire dall’osteria
o uno scalpiccio di corsa lungo il marciapiede di arenaria.
Un paio di volte si alzò come per rispondere a una voce, a un richiamo;
poi ricadeva delusa a sedere.
Al momento di andare via per la prima volta in due mesi mi disse: “Domani
non avrò bisogno di te, grazie e … ciao”.
Il giorno seguente, mentre ero ancora a letto semiaddormentato, sentii un
gran movimento nelle scale, un andirivieni insolito e un cicaleccio di donne.
A mezza mattinata venne di nuovo il vinaio con i figli, si ripresero le
sedie e anche il baule. Rimasi da solo nella stanza tornata vuota.
Andai allora nell’angolo in cui erano rimaste le poche palle di carta
di giornale a rimirare i miei tesori e venni sorpreso da mio padre, era
venuto per portare via quello che era avanzato e ormai definitivamente inutile.
Mi guardò con stupore nel vedere le mie mani e il pavimento pieno
dei sogni delle nuvole che il camino aveva forgiato. Uscì e tornò
con una borsa di tela, ci mise tutte le mie giornate fantastiche o almeno
tutte quelle che riusciva a portare in una sola volta e, con alcuni viaggi,
le vendette al rigattiere. Rientrò a casa felice e sorridente, non
si accorse della mia dolorosa delusione.
Fu la prima volta che vidi in tavola un pollo arrostito con le patate e
un fiasco di vino.
Mangiai di malavoglia e non volli neppure assaggiare il pollo, i miei pensarono
che fossi amareggiato per la fine del povero galletto, invece…
Nel pomeriggio tornai nel salone e, come per scacciare la rabbia e la tristezza,
cominciai a rovistare nella cenere. Scoprii così che una “nuvola”
si era salvata e stranamente richiamava la figura di una donna tutta nera
seduta su di una sedia.
La tenni nel palmo della mano, poi per paura che mi venisse presa, la nascosi
nello stanzino sotto una piastrella sconnessa del pavimento non più
tanto stabile.
Infine me ne dimenticai. Non ci sarebbero più state nuvole per me
nel cielo e neppure nel camino, ma questa è un’altra storia
che forse non racconterò mai.