L’ANELLO DI NON CONGIUNZIONE
Si mangia la settima unghia, gliene restano ancora tre. E poi?
Si spera che prima della decima unghia la chiamino. Se no cosa le resta da
fare su quella sedia di plastica in un corridoio che odora di alcool e lenzuola
disinfettate?
Leggere le riviste no, non se ne parla nemmeno.
Non fanno che parlare di cose che Elena non vuole sentire. Non vuole sentire
quelle storie stupende di donne che ce l’hanno fatta.
Lei non vuole diventare una donna che ce l’ha fatta. Elena vuole essere
la donna che non ha avuto quel male, l’elemento di rottura della sua
famiglia, l’anello di non congiunzione tra sua nonna, sua madre, sua
figlia Martina.
Guarda la coppia in attesa di fronte a lei. La donna è preoccupata
più del nervosismo del marito che si aggira sbuffando tra i corridoi
che di se stessa.
La sua vita per la serenità di quel deficiente che si sta lamentando
per i tempi d’attesa, lui, che deve rientrare al lavoro, non sua moglie
che sta per scoprire se ha già un piede dall’altra parte.
Elena si chiede se sia meglio avere un marito così o essere sola, ci
pensa due secondi e si sorride pensando di aver fatto un affare a chiedere
il divorzio a Federico, perché potenzialmente è della stessa
pasta.
Sono pochi gli uomini che di fronte ad una malattia grave della moglie reagiscono
con coraggio, e sanno rendersi utili. Pensano forse che arrabbiarsi e rifiutare
un evento lo faccia sparire? O sono semplicemente seccati per il disturbo
che viene loro arrecato?
La fiducia di Elena nel genere maschile non è mai stata coltivata.
L’unico uomo, l’unico vero uomo nel senso bello del termine che
le è stato presentato come tale era suo nonno. Non lo ha vissuto da
vicino, da piccola poi lo scambiava per il personaggio di una fiaba.
Antonia, sua madre, le raccontava prima di mandarla a dormire una storia di
eroi.
La protagonista era Caterina, una ragazza che prendeva la bici grande e grossa
di suo fratello e andava a fare “commissioni”….
Quelle commissioni, nel 1945 erano un modo per dire che in realtà faceva
la “staffetta portaordini”. Uno dei suoi compiti nella Resistenza
era quello di portare ai ragazzi che si erano dovuti nascondere e quindi separare
dalle squadre, lettere di ordini firmate dai capi partigiani.
Uno di questi era Antonio, rintanato in una malga in montagna che si innamorò
al primo sguardo di quella ragazza con le guance rosse e le trecce nascoste
nel foulard. Oltre alle comunicazioni in codice, se poteva Caterina gli portava
qualche genere di conforto, un po’ di pane, di zuppa, qualche pezzetto
di salame quando andava bene.
In mezzo a quella paglia che usava da letto Antonio amò Caterina anche
dopo la fine del suo esilio, e a guerra terminata, nella chiesetta del paese,
anche se la gente rideva e sparlava di loro, la sposò con il sorriso
sulle labbra.
In dote Caterina portava un pancione di otto mesi. Antonia.
Quando Antonia ebbe dodici anni Caterina iniziò a stare male, deperiva,
vomitava, era sempre più pallida. A quell’epoca il medico del
paese le provava tutte, all’inizio una pacca sulla spalla:
- “ Caterina, una donna sposata della tua età… e ti chiedi
che cosa hai? Di mattina ti alzi e
vomiti, non hai più il mestruo… vallo a chiedere all’Antonio
che cos’è che hai!”-
Dopo mesi, appurato che non c’erano altri eredi in arrivo, le parlava
di un po’ di anemia.. fino a che fu Caterina stessa a sentirsi un sasso
che si stava facendo strada dentro di lei, attraverso il suo seno sinistro.
Da lì, tentativi di cure, primordiali, primitive, solo dei palliativi.
Caterina morì senza subire l’oltraggio dell’amputazione
del suo seno, con i medici che allargavano le braccia e dicevano – “Fatevi
coraggio, non c’è più niente da fare…”-
Rimasero una bambina di tredici anni e un papà che la lasciava dalle
zie per dormire quindici notti su una sedia con la mano trasparente della
moglie nella propria.
Antonia crebbe con un padre affettuoso ma perso nel dolore, sballottata fra
un paio di zie con altri figli da guardare e poco tempo per occuparsi di lei.
Venne su un po’ selvaggia e maschiaccia, ma rinunciò alle corse
a perdifiato per i campi e ad un destino da brava donna di campagna come sua
madre per andare all’Università a Torino, la grande città.
Suo padre era fiero con gli occhi lucidi di quella ragazza intelligente e
caparbia che tanto gli ricordava la sua Caterina, fece mille sacrifici per
il resto della sua vita allo scopo di aiutarla all’Università
e lasciarle magari qualcosa per il futuro.
Antonia a Torino andò a vivere in un collegio universitario, iscritta
a Lettere, anche se le sarebbe piaciuto di più la chimica.
La temperatura a quel tempo saliva ogni giorno, ad ogni cassonetto incendiato,
ad ogni aula occupata, ad ogni banco scagliato dalla finestra.
La ragazzetta di campagna per niente intimidita prese parte attiva al momento
storico. Comitati femministi, marce, manifestazioni… non si fece mancare
niente.
Peccato che in fondo era rimasta un po’ ingenua e sempliciotta.
Nel ’68 lasciò il collegio universitario per andare a vivere
con altre tre ragazze in un grande alloggio un po’ decadente del centro
storico.
Le sembrava la scelta migliore, non avrebbe dato una famiglia normale al suo
figlio che le stava per nascere ma una vera e propria comune di donne autosufficienti.
Tanto sul padre biologico, un teorico del libero amore, non ci avrebbe potuto
contare più di tanto, lasciò l’università e sparì
nel suo paesetto d’origine non appena saputo la notizia. Per paura di
un neonato e di una moglie rinunciò a diventare medico e imbracciò
la pala del padre contadino.
Antonia dovette andare da suo padre per metterlo al corrente: nel viaggio
in treno, mentre si avvicinava alla stazione d’arrivo, si sentiva sempre
più piccola e insicura.
Tutta la sua fede politica incrollabile, le ideologie, i progetti, l’autodeterminazione…
Con un solo ceffone, del tutto prevedibile, suo padre cancellò la rivoluzione
sociale, quella studentesca più quella femminista.
Poi un fiume di parole, altrettanto prevedibili: “- Per fortuna tua
madre non è qui… a questo sono serviti i miei sacrifici…
messa incinta da uno che è scappato… peggio di una servetta…
a cosa ti è servito studiare… e io che mi sono fidato di te…
che ero fiero di te…che nome avrà questo sciagurato?…”-
Antonia, rossa come un peperone, sentendosi un po’ ridicola con il suo
gonnellone gitano, le collanine e la t-shirt senza reggiseno sotto cercò
dentro di sé forza e orgoglio, rivide gli occhi seri e determinati
di Caterina e si stupì di se stessa sentendosi rispondere al padre:
“- Studiare mi è servito perché non appena laureata avrò
un posto di lavoro sicuro che mi permetterà di crescere mio figlio,
che avrà il mio nome e … che spero che diventando grande…
un pochino ti assomiglierà.”-
- “Non avrai vita facile, figlia mia, e mi auguro che sia un maschio
perché mi sa che ne avrà
bisogno.
Ti dico solo una cosa, se le cose si mettono davvero male, se dovessero peggiorare
ancora… torna a casa.”-
Un abbraccio, una busta con dentro il necessario per il corredino e molto
altro e Antonia con il cuore più leggero tornò a Torino.
Partorì a fine ’68: quando la rivoluzione cominciava, la sua
finiva fra poppate e notti in bianco a preparare la tesi.
Ovviamente una femmina: alla notizia, Antonio in ospedale con il cappello
in mano scosse la testa e alzando gli occhi al cielo disturbò sotto
voce qualche Santo e la Madonna. Poi andò a vederla dai vetri della
nursery e vedendo il ritratto di Caterina in fasce, si calmò.
- “Speriamo che abbia preso da te, Caty mia… speriamo solo non
sia un’altra testa calda…”-
Antonia portò a casa Elena, dove qualche mese prima un’altra
ragazza aveva avuto un bel maschietto, un altro figlio di un padre sfumato.
Dalle riunioni piene di sigarette, di spinelli e di politica passarono rapidamente
a biberon, pappe e pannolini, con le altre due che si erano adattate a fare
le babysitter, perché in quel loro concetto di famiglia allargata ci
stava benissimo di crescere dei figli tutte insieme.
Furono anni splendidi, Antonia entrò di ruolo nel liceo vicino a casa,
dopo la laurea e pochi mesi di supplenze; anche le altre ragazze si sistemarono
in breve.
Si faceva cassa comune, si crescevano i due bambini, e si accettava pure un
certo via vai di uomini per casa, a patto che non disturbassero e non interferissero
nell’organizzata confusione di casa.
Elena cresceva disciplinata e obbediente in una famiglia strana ma più
serena di altre. Il legame con sua madre fortissimo, erano i tempi in cui
si diceva che le madri dovevano essere amiche e in qualche raro caso succedeva.
In seguito si trovarono una casa piccolissima tutta per loro, le zie della
comune negli anni imboccarono ciascuna la loro strada ma non si persero mai
di vista, ne si allontanarono di tanto.
Per Elena era normale andare a pranzo dall’una o dall’altra se
sua madre doveva fermarsi a scuola, oppure andava a fare i compiti di inglese
dalla zia che lo insegnava al linguistico e tornando si fermava dalla professoressa
di matematica per farsi spiegare le cose più difficili.
Quando Antonia si accorse di aver ereditato da Caterina oltre al temperamento
qualcosa di tremendo, cercò di non perdersi d’animo.
Erano i primi anni ’80, qualche speranza cominciava ad esserci.
Ne parlò con Elena, prima che con chiunque, anche se era solo un’adolescente
tutta libri e burro cacao. Glielo presentò come un problema momentaneo,
che si sarebbe risolto, non le parlò di Caterina.
Il travaglio fu doloroso, ci furono interventi devastanti fisicamente, cure
da vomitare l’anima con le budella, capelli spariti sotto i vecchi foulard
dei tempi della comune.
Elena venne protetta, nutrita, e messa a dormire a casa di una di quelle zie
che non era a fare una notte in ospedale con Antonia.
Madre e figlia vivevano assieme nei periodi buoni: parlavano per ore, stavano
alzate anche tutta la notte a discutere di filosofia antica e di vita, si
facevano compiti, si spiegava il controllo delle nascite, si firmavano temi,
compiti in classe e pagelle.
Quando andava proprio bene Antonia accompagnava Elena ai concerti che le piacevano
e le veniva voglia di cantare e saltare anche lei con quelle ragazzine tutte
uguali, ricce di permanenti e frizzanti di belle speranze.
Aveva fretta, doveva dirle un sacco di cose, spiegarle e metterla alla prova,
aveva bisogno che sua figlia imparasse da lei il più possibile anche
se non era ancora pronta.
Antonia c’era passata anche lei, tale e quale, ma Caterina forse non
sapeva, non le avevano detto che era lei a doverle passare le eredità
più importanti, forse non fece in tempo e le lasciò troppi vuoti.
Quando in ospedale le dissero che ormai mancava poco, Antonia chiamò
suo padre e gli disse:”Adesso devo proprio tornare a casa”- .
Fu la seconda mano di donna che dovette tenere tra le sue per l’ultima
volta.
Antonio invecchiò di trenta anni in pochi giorni. Sua figlia se ne
andò nel letto dove era nata. Sua nipote, appena diciottenne, dietro
la porta si cavava gli occhi dal piangere.
Essendo maggiorenne non ci furono problemi, tornò a Torino con il benestare
di suo nonno e un conto in banca per studiare in santa pace, ma senza scialare.
- “Torna quando vuoi, chiama se hai bisogno di qualsiasi cosa…”
– le teneva il visetto tra le
mani e la curiosità fece capolino nel suo dolore, gli sembrava che
quegli occhi gonfi avessero qualcosa …-“Mi sa che tu sei diversa,
mi sa che sei un po’ più fortunata, secondo me ti andrà
meglio.”-
Elena si diplomò , vivendo tra una zia e un’altra, una zingara
ordinata.
Quando fu il momento di scegliere l’università non volle una
strada facile, né spianata. Andò dritta al Politecnico, e, anche
se avrebbe voluto fare ingegneria meccanica, alla fine si convinse ad inscriversi
a gestionale, dove c’era già qualche strana e sparuta ragazza,
occhiali e attributi. Gomiti aguzzi per difendersi dal testosterone imperante.
Ma discendeva da combattenti, Elena, e non aveva granché paura.
Nell’ordine venne qualche ragazzo e poi un fidanzato vero, un altro
ingegnere che sposò con rito civile, quando entrambi trovarono lavoro.
In seguito, Martina e il divorzio; Federico invidioso del suo successo, della
carriera di Elena che decollava nonostante la maternità, mentre la
sua stagnava.
Un controllo semplice dal ginecologo, nel 2006. Vista la storia della famiglia
il consiglio di fare esami approfonditi.
Arriva a metà dell’ottava unghia, Elena e la chiamano.
Ha 38 anni , una figlia di 6. Un lavoro promettente. Un nonno morto da anni,
tre zie, le nonne di Martina. Entra. La prendono, la esaminano, la palpano:
i suoi seni vengono schiacciati, scannerizzati, pasticciati. E lei trattiene
il fiato.
Il medico osserva il computer e la sua scheda. Non la guarda negli occhi e
con indifferenza le dice – “Vista la familiarità deve controllarsi
spesso, le prendo un altro appuntamento fra sei - otto mesi?”-
Tutto lì.
Elena si chiude la porta alle spalle. A testa alta, come Antonia e Caterina
prima di lei.
- “Chi se ne frega se ogni sei mesi mi devo far schiacciare da tutte
le parti e mangiarmi nove
unghie… Io mia figlia la cresco, la vedo sposarsi e le do una mano a
tirare su i suoi figli.
Io sono l’anello di non congiunzione, io non lascio schifezze in eredità
a Martina, solo la forza, solo il carattere…”-
Esce, c’è il sole.
Pensa a nonno Antonio… -“Mi sa che tu sei diversa, secondo me
ti andrà meglio.”-