UN CUORE DI PIETRA
Pochi passeggeri stavano attendendo la chiamata per il volo
AZ 326 per Roma Fiumicino. Alle 23.30, la prima sala d’aspetto delle
partenze nazionali del Cristoforo Colombo di Genova, così vuota e silenziosa,
amplificava ogni minimo suono.
Solo una persona volse il proprio sguardo verso Alberto, che si stava avvicinando
dal corridoio, forse più disturbato dal rumore dei passi che non attirato
dalla curiosità di conoscere il volto di un altro anonimo viaggiatore
notturno dei cieli.
Alberto si sedette nell’angolo destro della sala. Prese dalla valigetta
morbida in pelle nera, che da anni lo accompagnava ovunque, un raccoglitore
ad anelli pieno di fogli ancora bianchi. “E’ mercoledì,
29 settembre 1999”, scrisse. “Sto per salire sull’aereo
che mi porterà a Roma e da lì raggiungerò Il Cairo e
poi Luanda, in Angola. Porto con me le cose essenziali. Forse lì potrò
continuare a vivere, senza che i ricordi rendano inutile ogni mio gesto.”
Chiuse il raccoglitore.
Aveva gestito la sua partenza con cura meticolosa, così come era stata
altrettanto meticolosa la gestione dei clienti della società commerciale
nella quale aveva lavorato per ben 23 anni. Era stato così ermetico
negli ultimi mesi da indurre i responsabili aziendali a pensare che stesse
pensando alla concorrenza. Quando presentò le dimissioni, quel pensiero
si trasformò in certezza ed il direttore generale gli disse chiaro
in faccia che avrebbe passato i peggiori due mesi della sua carriera lavorativa.
Fu una promessa ampiamente mantenuta.
“Come dare torto” scriveva ancora, “a chi faceva un ragionamento
logico”.
Il raccoglitore ora vibrava sotto la spinta dei possenti motori del DC10 che,
sei ore dopo, aveva appena staccato le ruote dalla pista di Fiumicino.
Fu dopo la sosta tecnica all’aeroporto del Cairo che Alberto avvertì
un leggero disagio.
“Dal mio posto” annotò sul retro del primo foglio di quello
che stava diventando il suo diario, “riesco a vedere solo persone di
colore. Sembra incredibile, ma forse sono l’unico bianco che sta volando
verso l’Angola”.
Nel paese africano la guerra civile era ripresa a pieno titolo alla fine del
1998, tanto da spingere l’ONU a richiamare i suoi osservatori pochi
mesi dopo, per evitare rappresaglie. Solo alcune organizzazioni umanitarie
non governative riuscivano ad operare sul territorio angolano, non senza ovvie
difficoltà.
Alberto doveva aggregarsi proprio ad una di esse, la Ellie Person Foundation.
Il primo contatto con l’organizzazione era avvenuto poco più
di un anno prima, attraverso gli scatti di un suo cliente, un noto fotografo
di Genova. Le immagini davano appena l’idea della vita nel campo creato
dalla fondazione, a circa 190 chilometri a nord di Luanda. Ciò che
non si vedeva, lo si poteva leggere negli occhi lucidi di quei giovani visi
scuri, che sembravano chiederti il perché di tanta sfortuna.
“Ho rivisto quegli stessi occhi dentro i miei, il giorno dopo aver perso
Laura”. Ora la penna si muoveva nervosa nella mano di Alberto, mentre
l’aereo sorvolava il Ciad. “Una frenata inutile, un tonfo, uno
squillo, un nome. Poche parole per un mondo che si era appena sbriciolato.
Tutto in una manciata di secondi, tra una vita che volava via e l’altra,
la mia, che rimaneva appesa ad un filo senza speranza”.
Si concesse un po’ di riposo, sino a quando gli altoparlanti di bordo
invitarono, in un perfetto inglese, ad allacciare le cinture di sicurezza.
Dieci minuti dopo, alle 14 e 25, un leggero scossone segnava l’atterraggio
all’aeroporto internazionale angolano.
Alberto si affacciò oltre il portello del DC10. Sentì sul viso
un vento caldo, ma non fastidioso. Attraversò con passo spedito il
tratto di pista che separava la scaletta dell’aereo dal terminal.
Attese quasi venti minuti prima di recuperare l’unica sua valigia, poi,
sbrigate le formalità doganali, cercò di individuare l’emissario
della fondazione incaricato di prelevarlo.
La confusione nell’area arrivi non era tanto dettata dal numero delle
persone, quanto dalle voci. I toni erano così alti da moltiplicarle.
Alberto non riusciva a comprendere nulla. In Angola la lingua ufficiale era
ed é il portoghese, ma buona parte dei suoi abitanti parla dialetti
bantu.
“Monsieur Albert?” domandò una voce alle sue spalle.
Si girò e vide il personaggio che cercava.
“Sì, sono io” rispose.
“Bienvenu. Je suis Felix de la Fondation Person”.
Felix parlava un perfetto francese. La statura non era eccelsa, ma la costituzione
fisica era particolarmente robusta. Indossava i pantaloni di una mimetica,
maglietta e cappellino dello stesso colore, rosso acceso. Prese la valigia
di Alberto e la sollevò come se fosse vuota, facendogli segno di seguirlo.
Alberto non seppe dargli un’età precisa.
Uscirono sul piazzale dell’aeroporto e si diressero verso un fuoristrada,
un Toyota color verde scuro, dal quale scese una donna.
“Ciao, Alberto. Sono Sophie Blanchard” disse in un italiano cadenzato
alla francese.
Alberto contraccambiò il saluto, stringendo quella mano che gli trasmise
una sensazione positiva. Ne aveva bisogno, visto la scelta che aveva fatto.
Sophie era la responsabile di Camp Annie, il campo scuola che si prendeva
cura di circa cinquanta tra bambini e ragazzi rimasti orfani in seguito alla
guerra civile. Il fisico asciutto, il viso leggermente scavato, gli occhi
azzurri ed i capelli, biondi, tagliati corti, conferivano a Sophie l’aspetto
di una donna energica e dalle mille risorse. Aveva 46 anni, uno in meno dell’italiano.
Alberto salì nel vano posteriore del fuoristrada.
Felix impiegò non più di venti minuti a portarli fuori dalla
capitale, destreggiandosi abilmente nel traffico, non intenso ma decisamente
disordinato.
Sophie, dopo che il Toyota ebbe imboccato una larga strada verso nord, si
girò verso Alberto.
“Hai l’aria di un contabile” gli disse, lanciando un’occhiata
alla valigetta di pelle nera.
“Dopo tanti anni” le rispose, “non ho trovato una ragione
valida per lasciarla in Italia”.
“Mettiti comodo, Alberto”concluse Sophie. “Da Luanda a Camp
Annie, dove siamo diretti, ci sono quasi 200 chilometri”.
Seguirono un percorso che prevedeva alcune strade secondarie. Felix intendeva
evitare possibili blocchi e controlli sia da parte dei governativi dell’MPLA
sia dei membri dell’UNITA, l’altra fazione in lotta. In mezzo
c’erano le bande di coloro che si schieravano con gli uni o con gli
altri, secondo la convenienza del momento.
Durante il tragitto, Sophie raccontò ad Alberto di come si trovasse
in Angola da oltre due anni, dopo averne trascorsi prima cinque nella Repubblica
Democratica del Congo, dove aveva conosciuto Felix. Quando la fondazione Person
decise di aprire due nuovi campi in Angola, Sophie intraprese l’ennesima
avventura. Felix la seguì insieme alla moglie, agevolando non poco
la donna nel suo compito, in quanto il congolese parlava correntemente anche
il portoghese.
V’era un continuo alternarsi tra la tipica vegetazione della savana
e quella particolarmente fitta della foresta pluviale. Alberto perse il controllo
dei corsi d’acqua che attraversarono o guadarono nei punti in cui ciò
era possibile.
Prima di raggiungere la cittadina di N’zeto, Felix deviò verso
l’interno. Erano trascorse poco più di cinque ore dalla partenza
da Luanda e solo dopo un’altra manciata di minuti vide Sophie che gli
indicava un punto davanti a loro, attraverso il parabrezza del fuoristrada.
“Ecco Camp Annie”.
Una piccola nuvola di polvere avvolse il Land Cruiser quando Felix premette
il pedale del freno, fermandosi proprio al centro del campo.
Alberto scese ed incrociò gli sguardi dei piccoli ospiti di Camp Annie,
soprattutto quello della bambina che corse incontro a Sophie, saltandole in
braccio.
“E’ Teles” disse, “la più piccola di tutti”.
Alberto sorrise e si lasciò andare ad un saluto un po’ goffo
con la mano destra. Lui e Laura non avevano avuto figli e tutti quegli occhi
puntati su di lui lo mettevano in soggezione.
Due dei ragazzi più grandi lo aiutarono a trasportare valigia e zaino
dentro l’abitazione più vicina. Le strutture del campo erano
tutte in legno e robuste a prima vista.
“Le quattro più piccole” precisò Sophie, “sono
destinate al personale di servizio. Lì vivono Felix, Kone e Nekene
con le loro famiglie. Le strutture più grandi ospitano i ragazzi, la
mensa e l’aula scolastica”.
Kone e Nekene erano angolani ed il primo aveva anche il compito di seguire
l’istruzione dei giovani. “Ciò che impressiona” scrisse
Alberto quella sera, “é l’efficienza delle strutture e
dei servizi che consentono al campo di sopravvivere. L’acqua viene pompata
dal vicino fiume attraverso una conduttura che la convoglia in un piccolo
ma moderno depuratore. L’energia elettrica giunge direttamente da N’zeto
grazie ad una linea interrata, per evitare sabotaggi”.
Camp Annie era nato grazie al febbrile lavoro degli uomini di Camp Wise. Quest’ultimo
si trovava alla periferia nord di N’zeto. Il nome era quello del suo
responsabile, Robert Wise, un ingegnere australiano, vero braccio operativo
della fondazione Person.
Camp Wise non aveva strutture fisse, ma si spostava con tre mezzi pesanti
straordinariamente equipaggiati. Una squadra di dieci uomini che costruiva
i campi della fondazione e, se necessario, assisteva anche quelli di altre
organizzazioni.
Alberto faticò a prendere sonno. Si addormentò solo a notte
fonda, vinto dalla stanchezza nervosa più che da quella fisica.
“Eri agitato questa notte” disse Sophie il mattino seguente, mentre
assaporava la sua tazza di thé caldo.
“Ti ho disturbata, vero?” rispose Alberto, cercando di scusarsi.
“No, tranquillo. E’ che dormo poco ed ho il sonno leggero. La
tua é stata una reazione normale”. Erano da poco trascorse le
sei e trenta.
Sentirono il rumore di un autocarro avvicinarsi. Era uno dei mezzi di Camp
Wise.
“E’ Robert” disse Sophie.
Robert Wise aveva l’aspetto tipico dello yankee da film. Mascella quadrata,
abbigliamento paramilitare e cappellino con visiera, calato sulla fronte tanto
da nasconderne gli occhi. In realtà era un uomo dalle capacità
non comuni, che si muoveva in una situazione complessa come quella angolana,
che peggiorava ogni giorno. Pur di proteggere i campi che costruiva, aveva
stretto contatti con tutte le forze in campo, comprese quelle bande senza
patria né bandiera, che costituivano la sua preoccupazione maggiore.
Salutò Alberto portando due dita alla visiera del cappellino che indossava,
prima di stringergli la mano. Poi si allontanò con Sophie e parlarono
fittamente per alcuni minuti.
Dopo che il mezzo di Robert sparì in lontananza, Sophie chiarì
l’argomento del conciliabolo con l’australiano.
“Tra due giorni” disse, “Camp Wise si sposterà nel
sud del paese, quasi al confine con la Namibia, dove il secondo campo della
fondazione ha più bisogno. Per un bel po’ di tempo dovremo cavarcela
da soli”.
“Ho visto Sophie preoccupata” scrisse Alberto, qualche settimana
dopo. “Robert se n’è andato proprio nel momento in cui
la situazione mostra i segni di un ulteriore peggioramento. Forse lei sente
il peso della responsabilità per tutti coloro che si trovano nel campo.
I bambini, che erano inizialmente non più di una quindicina, oggi sono
cinquantuno, mentre noi adulti siamo appena in otto”.
Alberto si era ormai integrato con inaspettata facilità. I ragazzi,
e non solo loro, ridevano del suo comunicare per lo più a gesti. Ci
volle del tempo prima che iniziasse a comprendere qualche parola di portoghese
e nel frattempo il suo nome si trasformò in Alì, per via della
bandana che indossava per proteggersi dal sole. Trascorsi i primi due mesi,
Alberto era già in grado di gestire una parte dei compiti svolti sino
al suo arrivo da Sophie, che poteva così dedicarsi di più ai
bambini del campo, anche sotto il profilo sanitario, lei che era laureata
in veterinaria.
“Ho imparato a curare gli esseri umani” gli disse una sera, era
la vigilia di Natale, “perché qui vengono trattati peggio degli
animali”.
“Perché hai scelto proprio noi, Alberto?” chiese ancora.
Lui si alzò senza risponderle, mettendola a disagio. Tornò dopo
pochi secondi mostrandole, alla luce di una lampada, una fotografia.
“Si chiamava Laura. Una sera, era tardi e pioveva a dirotto, mentre
attraversava la strada é stata investita da una macchina. Nessuno le
ha prestato soccorso. E’ morta lì, senza nessuno accanto”.
Sophie lo guardò piegando leggermente il capo. Lui proseguì
anticipando ogni altra domanda.
“Non abbiamo avuto figli. Ci siamo incontrati tardi per poterne avere.
Restare a Genova e continuare a vivere senza di lei non avrebbe avuto senso”.
“Ovunque si trovi ora” disse Sophie, “sarà felice
di sapere che la pensi sempre”.
Dalla struttura che ospitava l’aula giungevano le voci dei ragazzi che
intonavano dei canti, riuniti intorno ad un piccolo presepe. Alberto si ricordò
solo in quel momento che in Angola due terzi della popolazione é di
fede cattolica. Quando entrarono, molti dei bambini rivolsero loro un sorriso.
Era il terzo Natale di Camp Annie.
“5 aprile 2000” scriveva Alberto, qualche mese dopo, sul suo diario.
“La situazione in alcune zone del Paese é critica. Questa settimana
i dottori di Medici senza Frontiere non sono riusciti ad arrivare sino a noi.
Abbiamo problemi col telefono satellitare per metterci in contatto con Robert
a Camp Wise. Ieri, mentre eravamo a N’zeto a procurarci del pesce, abbiamo
saputo che una piccola banda di ribelli, staccatisi dall’UNITA, ha saccheggiato
due villaggi non lontani da qui. Ho fatto promettere a Felix di non dire nulla
a Sophie, per non angosciarla ulteriormente”.
Da quando Robert si era spostato nel sud dell’Angola, Sophie era divenuta
sempre più apprensiva. Durante quei sei mesi, Alberto l’aveva
più volte sentita svegliarsi la notte per controllare che tutto fosse
tranquillo.
Una notte decise di alzarsi anch’egli.
“Cosa c’é, Sophie?”le domandò
“Nulla!” rispose. “Non riesco a prendere sonno. Tutto qui”
e si diresse verso la sua stanza, fuggendo lo sguardo di Alberto.
Lui la seguì.
“Non é vero” le disse. “Sono intere settimane che
sento la tua angoscia anche quando fai finta di dormire”.
Sophie si sedette sul bordo del suo letto.
Il chiarore della luna era così intenso da illuminare, seppur parzialmente,
anche l’interno della struttura.
Quando lei sollevò il viso, Alberto scorse i suoi occhi lucidi. Da
quando l’aveva vista per la prima volta all’aeroporto di Luanda,
mai avrebbe pensato che Sophie potesse cedere ad una crisi di pianto. Prima
che ciò avvenisse, le fece una carezza.
“Tranquilla” disse. “Siamo lontani da dove si scontrano
ribelli e governativi. Ce la caveremo, così come abbiamo fatto sinora”.
Sapevo di mentire, perché senza osservatori dell’ONU nel paese
non v’era alcuna minima garanzia per i campi come quelli della fondazione.
“Cerchi di raccontarle bene, le bugie” rispose lei. “Mi
sento responsabile per i ragazzi, Felix, Kone, Nekene e le loro famiglie.
E anche per te”.
“Basta, ora” la interruppe Alberto. “Devi dormire”.
Mentre Sophie si sdraiò sul letto, lui si sedette sul pavimento, appoggiando
la schiena alla parete e rimase lì sino a quando non la vide chiudere
gli occhi.
I bollettini dei successivi due mesi raccontavano di scontri sempre più
duri in zone abbastanza lontane da Camp Annie. Nel sud dell’Angola,
l’esercito regolare aveva sferrato un’offensiva in grande stile
contro i componenti dell’UNITA, isolando di fatto anche Robert ed il
suo campo.
Mercoledì 12 luglio 2000. Le quattro e un quarto del mattino.
Alberto era seduto sui gradini all’esterno della struttura dove viveva.
Era ormai avvezzo ad ascoltare i suoni notturni di Camp Annie. Talmente abituato
che si concentrò su un rumore di sottofondo, non troppo lontano, che
poco dopo cessò.
Stette ancora qualche secondo fermo, poi partì di scatto, dirigendosi
verso l’abitazione di Felix.
Non dovette svegliarlo.
Felix era sull’uscio. Aveva udito anch’egli quel rumore e si era
alzato.
“Viens avec moi” disse Alberto al congolese.
Si diressero alla struttura che ospitava i ragazzi del campo. Felix non comprese
subito le intenzioni dell’italiano.
“Se accadrà ciò che temo” disse Alberto, “dobbiamo
portare subito al sicuro i ragazzi e le ragazze che hanno più di dieci
anni. Li nasconderemo al di là del fiume, in mezzo alla vegetazione
più fitta. Ai più piccoli non oseranno far nulla perché
a loro non servono. Almeno lo spero”.
“Tu pensi che si tratti di…” chiese Felix.
“Sì”.
Alberto temeva un’irruzione a Camp Annie. Il rumore di pochi minuti
prima era quello di alcuni mezzi che si erano avvicinati per poi fermarsi.
Difficile dire quanto fossero lontani.
Nel breve volgere di pochi minuti, i due uomini svegliarono gli undici ragazzi
e ragazze più grandi e, mentre Felix faceva sparire lenzuola e cuscini
dalle brande, Alberto guidava il gruppo di adolescenti verso il fiume. Camp
Annie era proprio a cavallo di un’area di incontro tra la foresta tropicale
del fiume e la savana. Anche alla debole luce di una luna illuminata per metà,
riuscì a portarli oltre il corso d’acqua. Nel suo stentato portoghese
fece capire loro che avrebbero dovuto restare nascosti sino a quando lui non
fosse tornato a chiamarli.
Il piano di Alberto era chiaro. In Angola, tra le schiere delle fazioni ribelli,
erano stati arruolati anche bambini di appena dodici anni. Con quella manovra,
egli intendeva evitare proprio che i ragazzi più grandi venissero rapiti
e costretti con la forza a combattere.
Pochi minuti dopo le cinque.
“Abbiamo fatto un buon lavoro, Felix” disse Alberto. “Ora
torniamo dentro e aspettiamo. Abbiamo poco tempo”.
Rimasero nella struttura dove riposavano gli altri bambini e lì attesero
che albeggiasse.
Alle prime luci dell’alba, giungendo dal lato nord del campo quasi come
fantasmi, i componenti di una banda di ribelli apparvero all’improvviso.
Le loro grida risuonarono nel silenzio di Camp Annie.
Alberto e Felix avevano già svegliato e preparato i bambini a quell’irruzione.
Non fu così per gli altri adulti del campo, soprattutto Sophie, che
si precipitò all’esterno del suo alloggio visibilmente sconvolta.
Alberto le corse incontro per calmarla.
“I ragazzi più grandi!” gridò lei.
“Calmati, Sophie!” e arrestò la sua corsa verso il dormitorio
dei bambini.
Intanto, alcuni dei miliziani avevano fatto uscire tutti i giovani angolani
della struttura.
A bloccare tutta la confusione nel campo fu sufficiente un colpo esploso dalla
pistola di colui che era, evidentemente, il capo del gruppo. Questi si diresse
verso Alberto e Sophie.
“Tutti qui?” chiese, indicando con l’arma i bambini radunati
al centro del campo e controllati da alcuni guerriglieri che avevano giusto
qualche anno più di loro. Parlava un inglese abbastanza comprensibile.
“Sì” rispose Alberto, anticipando qualsiasi risposta di
Sophie che non capiva dove fossero finiti i ragazzi e le ragazze più
grandi. Sentì solo la mano di Alberto che le dava una stretta alla
spalla destra e capì che doveva lasciarlo fare.
“Ne siete sicuri?” domandò ancora il miliziano, che puntò
l’arma verso il volto di Sophie.
Alberto fece spostare la francese dietro di lui.
“E’ la verità” disse con molta calma. “Se non
ci credi, prenditela con me e non con lei”.
La canna della pistola era rivolta ora verso il viso di Alberto. Furono pochi
secondi, interminabili.
D’un tratto, il capo del gruppo abbozzò un sorriso beffardo.
“Voglio crederti. Ma ora dateci dei viveri” ordinò, “e
in fretta!”.
Fu quasi una razzia.
I miliziani caricarono sui loro mezzi, che nel frattempo erano giunti nel
campo, tutto ciò che poterono e si allontanarono in direzione di N’zeto.
“Dove sono i ragazzi?” domandò Sophie.
“Al sicuro oltre il fiume” rispose l’italiano. “Solo
pochi minuti e andrò a riprenderli”.
Lentamente, tutti gli abitanti del campo recuperarono uno stato d’animo
più sereno. Felix si avvicinò ad Alberto e lo abbracciò,
dandogli alcune pacche sulla schiena. Da quel preciso momento, il suo ruolo
all’interno di Camp Annie divenne sempre più importante.
Anche Sophie prese a guardarlo con occhi diversi. Alberto aveva dimostrato
un coraggio quasi inaspettato per il bene di quei bambini che erano la famiglia
della francese da quasi tre anni. Inizialmente, aveva avuto più di
un dubbio su quell’italiano con l’aria da contabile.
Nei successivi sei mesi, la situazione angolana rimase come cristallizzata.
Camp Annie accolse altri bambini orfani. Nonostante l’indisponibilità
dei mezzi di Robert Wise, ancora bloccati a sud, vennero comunque costruite
altre strutture più piccole in cui ospitare i nuovi venuti, mentre
gli aiuti economici continuavano a giungere, sia pure per vie tortuose, dalla
Fondazione.
“Sophie mi sta raccontando la sua vita a piccole dosi” annotava
Alberto nel suo diario. Era giovedì, 25 gennaio 2001. “Ci troviamo
quasi ogni sera a narrarci le nostre esistenze, come se fossimo due vecchi
amici. Oggi mi ha confidato di non aver mai parlato così di sé
con nessuno. Sono riuscito a farla sorridere più volte e devo dire
che quando ride diventa anche più bella”.
Una notte del successivo mese di maggio di quell’anno, Alberto chiamò
Sophie.
“Ho dei brividi di freddo tremendi” le disse.
Lei pose la mano sulla sua fronte.
“Hai la febbre, Alberto e anche molto alta”.
Gli somministrò subito un antipiretico.
“Non dovevi restare a lavorare sotto quel diluvio oggi” lo redarguì
Sophie.
Rimase sveglia tutta la notte, controllando ogni tanto la temperatura corporea.
Era sempre, maledettamente, alta.
Prima che l’alba sorgesse, chiamò Felix.
“Dobbiamo dargli da bere” le disse il congolese, “sta sudando
troppo, rischia di disidratarsi”.
Alberto aveva anche delle fitte forti alla schiena.
Appena fu mattina, Sophie chiamò col telefono satellitare il centro
di Medici senza Frontiere. Chi le rispose non le garantì un aiuto prima
di sera. I due medici erano ad oltre cento chilometri, in un’area dove
si erano verificati degli scontri, proprio a metà strada fra N’zeto
e Luanda. Tentare un trasferimento all’ospedale della capitale sarebbe
stato troppo rischioso.
Alberto peggiorava a vista d’occhio, con la febbre che non accennava
a diminuire ed una tosse così forte da togliergli la parola.
“E’ un attacco di polmonite, Felix” disse la francese. “Ma
è troppo forte per i farmaci che abbiamo. Non so più cosa somministrargli…”
Non era rassegnata, ma sapeva di essere impotente, in quel momento.
Chiamò ancora, nel tardo pomeriggio, il numero di Medici senza Frontiere.
Felix capì dall’espressione di Sophie che non sarebbero arrivati.
Quella sera stessa Alberto perse conoscenza e non si riprese più. In
un silenzio quasi irreale, la sua avventura africana si concluse il 26 maggio
2001.
Felix fece uscire tutti dalla stanza.
“Vai anche tu. Lasciami sola con lui” gli disse Sophie. “Anche
se non riuscirà a sentirmi, devo dirgli una cosa importante”.
Era distrutta dal dolore.
Il pomeriggio successivo, Alberto venne sepolto pochi metri all’esterno
di Camp Annie. Uno dei ragazzi legò attorno alla croce la bandana che
era diventata il suo elemento distintivo.
Sophie andava ogni giorno a trovarlo, anche solo per pochi attimi. Gli parlava,
come se questo potesse farla stare meglio. Non era così e nessuno mai
riuscì ad ascoltare le sue parole.
Oggi, a Camp Annie, accanto ad Alberto, riposa anche Sophie.
Intorno ai loro avelli, come a proteggerli, tanti piccoli massi formano un
disegno.
Felix ha costruito qualcosa che li avrebbe uniti per sempre.
E’ un cuore.
Un cuore di pietra.