Le ultime ore della sera sviluppano calore mondano. Le coppie
sono tutte vestite gentilmente, gli uomini con lunghi soprabiti, guanti
e bastoni, le dame con ampie gonne, cappelli e ombrellini. L’antica
strada del centro è illuminata da lampade ad olio e i gruppi di chiacchiera
non sono che ombre, come i bambini che corrono o i giovani cacciatori. Solo
nei coni di luce appaiono per un istante colletti di pelliccia, lucide acconciature
e pietre preziose.
I fiati fumano. E’ inverno.
Ai lati del pavé le case chiare salgono di uno o due piani traforando
il buio con rami di gesso, balaustrine e anfore. Sono pastellate a rosa,
o senape e sulle tubature pluviali che marcano il limite tra un’abitazione
e l’altra sono installati degli altoparlanti metallici dai quali si
diffonde nell’aria una voce. La mia.
Le parole che riesco a intendere sono i miei pensieri, annunciati con leggero
ritardo rispetto a quando passano nella mia mente, come in un vecchio film
dal sincrono difettoso. Le coppie sono tutte vestite gentilmente, gli uomini
con lunghi soprabiti, guanti e bastoni, le donne con ampie gonne, cappelli
e ombrellini.
Al termine della strada si apre una piazza di straordinarie dimensioni,
dove alti falò sparsi qua e là lottano contro il buio dell’universo.
Vicino a uno di questi si è serrato un anello umano di ampio raggio
per assistere a uno spettacolo. Non sono che ombre. I fiati fumano. E’
inverno. Mi avvicino.
Al centro dell’arena due pali muniti di pioli puntano la luna. Vanno
veramente lontano, non se ne vede la fine. Il buio si affloscia su di loro
come una coperta lanosa attorno ai piedi di un bimbo nel sonno. A una altezza
che è già vertiginosa, dalle due torri si fronteggiano due
figure appollaiate. Entrambe cingono trapezi appesi al nulla. Nella platea
assiepata circolano castagne arrostite, pistacchi, canditi, salsicce e profumi
caramellati. Un ultima sgranocchiata di piacere. Nel silenzio il primo trapezista
si lancia nel vuoto tra i due pali e dopo poche oscillazioni si capovolge.
Resta appeso. Per le ginocchia. Il raggio del suo volo si regolarizza nell’ampiezza
e diventa costante. E’ il porteur.
Il suo compagno è l’agile. Osserva, si prepara, a quella altezza
è impossibile scorgere le espressioni del viso. Quando lascia la
pedana la folla esala una vocale lunga, acuta, ma anche lui è appeso
al suo attrezzo e prende ad ondeggiare nell’aria. Basta poco perché
i due pendoli entrino in ascolto e il duplice ritmo si faccia unico. Fino
al salto.
C’è sempre un dolore nella lentezza con cui la mente percepisce
la velocità del movimento del salto mortale, ancora lo stiamo sognando
e i polsi si sono già saldati. Ancora sentiamo la stretta delle mani
coperte di gesso e invece il corpo sta già precipitando nel vuoto.
Grido. Gridiamo tutti. E la carne ha già sbattuto a terra. Castagne
arrostite, pistacchi, canditi e salsicce.
Ma non è carne. Il corpo steso sul pavé è quello di
uno straccio bambino mezzo fantoccio. Il costume di juta è cucito
dalla faccia ai piedi e tinto per metà di viola. Gli occhi sono scuri
come quelli di un cane o di un giocattolo. Immagino la paglia dentro le
scarpe. Decine di volti spalancati lo osservano, mentre io alzo gli occhi
al porteur. Il raggio del suo volo si regolarizza nell’ampiezza e
diventa costante, di attesa. Ora il tempo è fermo. Il corpo accartocciato
per terra. Che poi muove un braccio. Una gamba. Si rialza. La folla esplode
in un applauso compiaciuto.
C’è dolore di crampo e frusta in quel corpo imbottito che riguadagna
la posizione eretta, ma il pubblico non lo ascolta, intento a comprare nuovi
fichi e tante noci. Per una sgranocchiata di piacere. Il bamboccio si avvicina
al suo palo con lentezza urlante e poi risale i pioli sotto lo sguardo muto
del suo compagno appeso a testa giù.
Di nuovo sulla piattaforma, di nuovo immobile. Si prepara, a quella altezza
è impossibile scorgere le espressioni del viso. Quando salta, la
folla esala una vocale lunga, acuta. I due compagni volano lontani da noi,
vicini tra loro. E’ un cuore comunque rosso che batte, li sento. Basta
poco perché i due pendoli entrino in ascolto e il duplice ritmo si
faccia unico. Fino al salto. Il secondo.
Questa volta tutti gli occhi si fanno fini fini, da predatore. Occorre riuscire
a valutare, ecco il primo giro, il secondo, dove arriva, ci arriva, copre
la distanza, si sono attaccati?
Perché cade così lentamente? Il fagotto di ossa e tela produce
uno strano rumore incomprensibile al contatto con il suolo. Il suo corpo
ha degli angoli che non dovrebbe avere.
Aspettiamo, tra poco si rialza. Questa volta tutti gli occhi si fanno fini
fini, da predatore. E’ un cuore comunque rosso. Ma non succede niente.
La gente inizia a dubitare, aspettiamo? Non si muove. Il tempo si fa osceno.
Il pubblico si delude. Gli occhi sono scuri, neri come quelli di un cane
o di un giocattolo. Senza vita. Il cerchio umano si disfa. Prima a gocce,
poi rapidamente, a onde.
Per terra restano cartocci, bucce, gusci.
Bucce gusci, bucce e gusci, bucce e gusci… Guardo di nuovo in alto.
Il pupazzo porteur è ancora là che ondeggia nell’aria
appeso a testa in giù. Delle grosse lacrime colano dai bottoni cuciti
nella fronte. Faccio qualche passo indietro per schivarle. La voce dai megafoni
dice. Quella notte, in città, qualcuno pianse all’incontrario.