Il ragionamento del Bloody Mary.

Appena li vide entrare intuì. Erano scesi da un'Honda Civic che avevano sbattuto proprio davanti all'ingresso, fuori dalle righe malgrado il parcheggio fosse quasi vuoto proprio dove si protendeva la tettoia di cemento che recava l'insegna rosso scuro quasi porpora del Bloody Mary a lettere spietatamente squadrate. Non che l'avessero scritto in faccia chi erano ma in un locale che sembrava creato apposta per quel punto senza vita nel mezzo del rettilineo tra due curve strette come se obbligassero a rallentare per vederlo un pub birreria con musica dal vivo nel weekend che era l'incrocio della gente più inquieta e più smaniosa d'altrove, a lavorare in un locale come quello un edificio bianco e piatto con un po' di dehors per l'estate e la macchia sanguinolenta dell'insegna che spiccava nella notte s'imparava presto a catalogare le facce a riconoscerle al primo colpo e al primo colpo incasellarle, ciascuna nella sua categoria così appena li vide entrare l'uno quello al volante, piuttosto tarchiato la faccia bruna e malinconicamente cattiva dove alitava un che d'intellettuale per via del pizzetto folto congiunto ai baffi, i capelli una volta corvini ora con qualche filo di grigio, ricci e fluenti, un completo beige sulla camicia bianca senza cravatta; l'altro, smilzo e dagli scatti nervosi, con un giubbotto di jeans sopra i pantaloni di un improbabile verde oliva, i capelli biondicci, radi sulla fronte, raccolti dietro la nuca in un accenno di coda; appena li vide entrare a spron battuto come se temessero di perdere un appuntamento, con la poca gente che c'era, anche se non aveva ancora avuto la prova il tipo del bar intuì.
Andarono difilati verso di lui girando nel contempo lo sguardo tutt'intorno, anzi il tipo smilzo a un certo momento puntò quasi i piedi e fece per tracciare un'orbita sui suoi tacchi, poi riprese la direzione del bar. Il locale, una specie di rettangolo corto e largo, era immerso in una penombra da camera ardente; due luci rossastre, piuttosto soffocate che soffuse, disegnavano due flebili cerchi sul pavimento, al centro del rettangolo, mentre alcuni faretti giallognoli incombevano, a completare l'opera, sul bancone del bar in fondo, ancora deserto a quell'ora presta del venerdì sera, dove lui si affaccendava più per non stare fermo che per necessità. Come un rombo in lontananza pesava sul locale un sottofondo cupo, la voce sporca di Tom Waits che raschiava dalla gola le sue ultime note imbarbarite dal whisky.
Sedettero sugli sgabelli e così scomodi appoggiarono le mani al bancone di finto marmo; quelle del tipo col pizzetto erano straordinariamente pelose, cespugli sgraziati fiorivano sulle dita in concordanza della faccia, gli veniva la barba fin quasi agli occhi, quelle del tipo con l'accenno di coda erano esili e lisce come la sua faccia dove era appena un segno di peluria sotto il mento.
Il tipo col pizzetto comandò gentilmente una birra piccola.
"È perché vuoi restare lucido, vero?", disse l'altro col tono di una battuta che teneva in serbo per l'occasione. Poi comandò a sua volta un caffè sforzando un'uguale gentilezza.
"Ma non sei già abbastanza nervoso?", fece di rimando il tipo col pizzetto. E ci risero su col gusto di aver ripetuto e sentito proprio quello che volevano ripetere e sentirsi ripetere. Non ebbe più dubbi allora, anche sotto i loro modi gentili la natura si tradiva, aveva catalogato giusto.
"Che razza di musica", disse il tipo con l'accenno di coda mentre il tipo del bar armeggiava alla macchinetta del caffè. "La conosci?"
"Mai sentita", rispose il tipo col pizzetto.
"Con questa musica del membro", e il tipo con l'accenno di coda calcò quest'ultima parola, "faranno scappare tutti. Non lo troveremo".
"Sarà un brano per quando non c'è di gente", disse sbrigativo l'altro mirando con soddisfazione le consumazioni che arrivavano. "Del resto la musica è intonata al locale".
Consumarono senza più parlare, l'uno svuotando il boccale di birra piccola con pochi e ampi sorsi, l'altro divorando il caffè e raccogliendo lo zucchero rimasto sul fondo col cucchiaino. Infine il tipo col pizzetto gli fece la richiesta che aspettava.
"Cerchiamo Tiberio Ciceri. Sappiamo che viene spesso qui. Un tipo sulla trentina, anche qualcosa di più, altezza media, capelli castani, porta gli occhiali; taciturno, veste trasandato..."
"So chi dite. Non è ancora arrivato stasera. Ma è ancora presto".
Tiberio Ciceri: dunque cercavano lui. Un po' fuori quota rispetto all'età media del locale, veniva sempre da solo, non conosceva nessuno e non aveva mai attaccato discorso, neanche con quelli del bar che finivano presto o tardi per dare confidenza ai clienti più o meno abituali. Si piazzava sempre all'angolo sinistro del banco, dov'era una curvatura prima della porta del bagno, ingollava di furia la sua birra come se fosse pentito di essere entrato; occhi per lo più a terra, che fissavano il pavimento o il poggiapiedi del bancone e solo di rado si appuntavano in faccia a qualcuno rivelando uno sguardo mite e intenso, finora aveva fuggito la catalogazione, faceva categoria a sé.
"Se però viene dopo che siamo andati via", disse il tipo con l'accenno di coda con uno scatto in avanti del braccio destro, "non dirgli che l'abbiamo cercato. Perché noi torniamo", aggiunse tentando con malagrazia di addolcire il tono di minaccia.
Il tipo col pizzetto alzò con calma la mano sinistra facendogli il gesto di fermarsi, che poteva bastare.
"Ho capito", disse asciutto il tipo del bar.
"A questo punto però", disse il tipo col pizzetto voltandosi verso il compagno, "sarà curioso di sapere oltre. E poi, che cosa avrà capito?"
"Che deve occuparsi esclusivamente degli affari di sua pertinenza", sogghignò il compagno.
"Che lo cercate ed è inutile che venga a qui a bere di fretta per fuggire subito, tanto tornerete e lo troverete, una sera o l'altra. Qui o altrove, più facile qui me lo sento".
"Perspicace, l'amico", disse il tipo col pizzetto. Poi, rigirandosi con calma verso il bancone e passando un dito sull'orlo del boccale sul cui fondo galleggiava un po' di schiuma: "E se ti dicessimo che hai colto in pieno, che hai davvero capito?"
"E per che altro lo cerchereste? L'ho capito appena siete entrati, mi restava solo da sapere chi. Ma servirebbe fare qualcosa? Se potesse fuggire quello che gli avete destinato, quello che anche a voi è stato destinato, perché anche voi avete ricevuto un comando e non potete fuggirlo..." I due si guardavano negli occhi, perplessi del ragionamento. "Non farò nulla, se è questo che volete sapere. Non posso fare nulla per evitarglielo. Se non voi, verrà qualcun altro e lo raggiungerà. Non si può fuggire quello che ci è destinato. Solo..."
"Solo?", interrogò il tipo col pizzetto.
"Solo mi dispiace che sia lui. Non lo merita. Non m'interessa che cosa vi ha fatto, o che cosa ha fatto a chi vi ha mandato, ma di certo non lo merita".
"Un barista dal cuore tenero", fece il tipo con l'accenno di coda. "O vuoi menarci per il naso?" Stava perdendo la pazienza, ma lo frenava il compiacimento di camuffare le espressioni più trite che gli salivano alle labbra.
"No, è curioso", disse l'altro. "Continua. Perché, secondo te. non lo merita?"
"Lo si intuisce dalla faccia, che non lo merita. Da come fugge anche quando se ne sta là, in quell'angolo, a bere. Ma ciò che è inevitabile non ti guarda in faccia, se lo meriti o no".
"Ah, allora si vede che Tiberio Ciceri è uno che fugge?"
"Lui più degli altri. Qui tutti fuggono. Il bar è una fuga. Che t'illude per un poco, una mezza sera d'averla trovata, finché non è l'ora di pagare".
"Quindi ti dispiace perché è lui, e non altri?"
"Appunto. Tanto più che non posso evitarglielo, o stonarlo su altri. Foste venuti per lo spacciatore seduto a quel tavolo, con un collega o un cliente, non lo so, o per quel fighetto che è entrato adesso con un'ochetta nuova, mai che sia due volte la stessa, mi sarebbe importato solo che non lo faceste qui. Poi mi tocca pulire, e il sangue non si lava via facilmente. Costa fatica".
"Mi sa che stai dando troppa confidenza all'amico", tagliò corto il tipo con l'accenno di coda. "Ora che ci ha visto in faccia, poi".
"Giusto". continuò il tipo col pizzetto. "Ora che sai, come pensi che ci regoleremo con te?"
La gente non voleva ancora arrivare, solo due o tre ciuffi di persone spuntavano tra le sedie e i tavolini vuoti e nessuno intendeva avvicinarsi al bancone, a interrompere il ragionamento; Tiberio Ciceri quella sera non aveva cercato lì la sua fuga, aveva scelto una fuga diversa dall'insegna sanguinolenta che appariva all'improvviso ai fa delle auto nella notte, invitando inesplicabilmente a fermarsi.
"Quello che volete, neanch'io posso fuggirlo. Se mi risparmiate e stasera lui non viene, la prossima volta che si fa vivo, se lo è ancora intendo, potrò dirgli..."
"Mi pareva di essere stato chiaro", digrignò il tipo con l'accenno di coda.
"di non fuggire più, che nessuno di noi può fuggire".
"Sei proprio il barista adatto per questo locale. Bloody Mary, che specie di nome. Che cosa ti ricorda?", chiese al tipo col pizzetto.
"Una robaccia imbevibile, fatta col pomodoro e qualcosa di piccante".
"E proprio un nome del genere dovevano dargli?" Gli rispose la voce siderale di Laurie Anderson, contornata, come non era suo uso, di fisarmonica e chitarra acustica. Strange Angels, cantava, here they come.
"Già quelli che hanno per passatempo di andarsi a prendere qualcosa in un bar è gente da poco. Quelli che vengono qui, poi..."
"Perché non chiedi ragione a lui, del nome?"
"Buona idea. Scommetto le pudende", disse il tipo con l'accenno di coda calcando ancora il preteso eufemismo, "che non sa neanche perché il posto dove lavora si chiama così. E magari", la faccia glabra s'illuminò tutta, ne aveva scovato un'altra delle sue, "e magari adesso esce la padrona, una bonza dalle sinuosità cascanti, coi capelli lunghi e rossi, non quel rossiccio ramato, ma proprio rossi che sembra le abbiano rovesciato il sugo di pomodoro in testa, e il nostro amico, con la sua faccia da pesce bollito, la chiama: "Excuse me, Mrs. Bloody Mary?"". E qui stette ad aspettare l'effetto saltellando sul suo trespolo. Il tipo col pizzetto piegò il labbro a un accenno di sorriso forzato, appena visibile tra la peluria.
"Mica per altro nel cinema usavano il pomodoro", intervenne il tipo del bar. "Quella roba è davvero imbevibile, pastosa come il sangue; se qualcuno la vuole chiediamo bene se sa di che si tratta, prima di servirla. Ma capita di rado. Io, poi, non la so fare".
"Questo stordito mi ha triturato l'organo". Il tipo con l'accenno di coda represse appena un epiteto zoomorfo alla divinità che gli avrebbe rovinato tutto il gioco di schivare il turpiloquio; la sua voce era ormai il soffio rabbioso di un gatto che stava per sfoderare le armi. "Fosse per me comincerei da lui. Andiamocene, stasera non viene".
"No, aspettiamo ancora un po'", disse il tipo col pizzetto. "Non vedi che proprio adesso c'è un po' di gente? E poi lui mi piace. Ragiona bene. Prenderei un'altra birra piccola".
"Ma non dovevi mantenerti lucido?"
"Mi serve per concentrarmi meglio. Tu non prendere altri caffè, che sei già abbastanza nervoso".
Ilipo del bar aveva voltato le spalle ai due e spillava la birra. Con la coda dell'occhio sbirciava il tipo col pizzetto che fissava il boccale vuoto continuando a ripassarci il dito sull'orlo, gliel'aveva lasciato davanti proprio per quel bisogno, mentre l'altro era sceso dal trespolo e lo squadrava torvo con le mani infilate nelle tasche del giubbotto che grattavano. Quando tornò con la birra il tipo col pizzetto aveva tirato fuori i soldi delle consumazioni.
"Stasera tocca a me", disse, e sfoderò un altro mezzo sorriso.
"Sì, se viene tocca a te. È il giro".
"È il giro. Quando tocca, non lo puoi fuggire". Mise il resto nel portafogli ordinando le banconote, poi tastò la birra con sorsi più brevi.
"Ha ragione l'amico", disse rivolto al boccale. "Non si può fuggire. Neanche noi. Pensa se, ad esempio, ci rifiutassimo".
L'altro sbuffava, frenando a stento la sua impazienza che non contemplava un'ipotesi di quel genere. Venne gente al bancone e il tipo del bar dovette abbandonarli. La musica non fu più un sottofondo, il volume era salito, come d'abitudine quando il locale cominciava a riempirsi. Ma restava un romorio ossessivo, un blues imbastardito che era tutto un refrain, che sembrava sempre al punto di svoltare e invece tornava senza speranza su se stesso; il continuo, angoscioso refrain sul quale i Savoy Brown sferragliavano il loro Train to Nowhere.
Il tipo del bar tornò da loro con un paio di bicchieri lavati in mano, facendo segno che non aveva più tempo da spendere, che il ragionamento era finito.
"Aspettiamo ancora un po'", disse il tipo col pizzetto levando la sua faccia pelosa dal boccale. "Se arriva celo indichi. Senza scherzi, s'intende", aggiunse col suo mezzo sorriso.
"Siamo intesi. Non potrei evitarglielo comunque. Avrei solo una richiesta..."
"Che cosa ancora?"
"Non fatelo qui. Il sangue, costa fatica a lavarlo."