Mio padre faceva l'ortolano: vendeva i prodotti del nostro
piccolo campo, zucche e peperoni, cardi, insalata e cicoria, a seconda delle
stagioni, prima ai Tedeschi e poi agli Americani, ma anche agli sfollati
che in quell'anno arrivavano a ondate dalla città, ormai devastata
e martoriata da bombe straniere. Frotte di uomini malvestiti, donne paesane
e uomini in divisa si ritrovavano sotto il pergolato, davanti alle casse
di legno che contenevano quel semplice e poco diversificato raccolto, appena
partorito dalla terra, oppure davanti alla bilancia arrugginita posta, coi
suoi pesi, in bella vista nel cortile. Quell'estate vendevano pere cotte:
“Tre pere cotte due etti e mezzo”. Era sempre quello il peso,
si sarebbero potute vendere persino ad occhi chiusi, senza verificare; quel
prodotto era un modo per accontentare, con pochissimi soldi, chi non aveva
più una casa, una cucina o un fornello, ma solo bocche di bambini
da sfamare e una magrezza pallida e smunta, velata da abiti sempre larghi,
o distratta da fazzoletti scoloriti, legati con noncuranza sul capo.
Nei mesi in cui la scuola elementare era chiusa, mi alzavo alle sei del
mattino; il mio compito era riempire le casse sull'aia, legare ordinatamente
mazzi di cicoria o insalata e lavare la verdura destinata al mercato: poco
dopo mio padre sarebbe partito con il calesse verso ciò che rimaneva
del mercato rionale della città, dove lo attendeva un banco per la
vendita della verdura; mio fratello già stava nel campo da una buona
mezz’ora a cogliere ciò che sempre la terra donava, come ricompensa
alle cure continue, attente e meticolose che per tutto l’anno le dedicavamo.
Così anch’io contribuivo al lavorio incessante che caratterizzava
la mia casa, dove peraltro, fortunatamente, non avevo mai conosciuto la
fame. Verdura in abbondanza regnava sulla nostra tavola, di quella di seconda
scelta, se così si poteva chiamare; uova, pane fatto in casa e frutta
di stagione, anche pere, ma solo quelle un po’ ammaccate o bollate
di marcio, e solo crude, quelle cotte le vendevamo.
L’enorme paiolo sull’aia fumava sempre; c’era stata abbondanza
di pere quell’anno, a scapito della miseria che, diventata quasi inoppugnabile,
regnava d’intorno: e giù nell’acqua bollente cassette
di quel frutto che, poco dopo, emanava un vapore dolciastro e piacevole
che si sprigionava con tutta la sua intensità, ogni qualvolta sollevavo
il coperchio di quel pentolone ammaccato e un po’ annerito, anche
lui protagonista di una sua guerra, in minore, fatta di troppi fuochi e
di rosse e reiterate cotture.
Un giorno capitò a comprare le pere una bambina; la conoscevo appena,
avrà avuto un anno, forse due meno di me. In casa dicevano che la
sua era una famiglia poverissima e molto numerosa, che viveva solo con lo
stipendio del padre, perché i bambini erano ancora tutti molto piccoli
e gli anni di guerra non avevano certo favorito quella, come molte altre
situazioni familiari. Tre pere cotte due etti e mezzo: il peso, il prezzo,
sempre il medesimo. Non aveva denaro con sé e segnai, ordinatamente
come mi avevano insegnato, il conto su un registro ad uso domestico e di
fabbricazione casalinga, dove lessi distrattamente quel giorno, sotto lo
stesso nominativo, una lunga fila di cifre a comporre una somma non ancora
saldata, di cui peraltro nessuno nella mia casa aveva mai parlato o reclamato
il pagamento.
La bambina, di cui non ricordo il nome ma i cui occhi hanno lasciato un
segno incancellabile nella mia memoria, mi guardava con aria quasi di diffidenza,
rimarcando così in modo ancora più deciso i ruoli, inadeguati
per l’età, che ci erano stati assegnati dalle situazioni e
dai tempi. Scambiammo pochissime parole; io pesavo le pere, maneggiando
con una certa sicurezza la bilancia arrugginita, lei rimaneva appena in
disparte, quasi non volesse disturbare il compito sicuramente importante
che stavo svolgendo con serietà e diligenza. Quando ebbe in mano
il cartoccio che conteneva quella piccola spesa, salutando educatamente
si allontanò, oltre il cortile, in modo quasi fulmineo. La seguì
con lo sguardo e vidi la sua figura esile e nera sparire all’orizzonte,
oltre l’ultimo tratto dritto di strada, laggiù dove casupole
e portici maltenuti erano il riparo degli sfollati e di tutta quella gente
povera che la guerra aveva segnato davvero. Solo allora, quando ormai la
sua sagoma, era sparita definitivamente dalla mia vista, rividi col pensiero
e per un solo istante la sua figura e mi accorsi del suo abbigliamento.
Si trattava inequivocabilmente di un grembiule; un grembiulino nero col
colletto bianco di semplice fattura lungo fino alle ginocchia, di quelli
che si usavano a scuola trasformato, al momento, per quella stagione e sulla
spinta delle ristrettezze, in un vestitino estivo mediante un taglio netto
alle maniche, di cui stranamente conservo esattamente il ricordo dei particolari
delle bordature e delle rifiniture, eseguite con capacità e precisione.
Non mi sembrò tanto strano però quel capo indossato a quel
modo da quella ragazzetta magra e schiva, né mi domandai, al momento,
come tre sole pere cotte avessero potuto soddisfare la sua famiglia così
numerosa; l’età, la situazione, l’abitudine precoce ad
agire a cui ero stata avviata mi distoglievano, forse fortunatamente, da
qualsiasi tipo di riflessione sulla realtà che stavo vivendo.
Ricompariva ogni tanto, riconoscibilissima nel suo grembiulino nero, sempre
lo stesso senza maniche, a comprare le pere cotte o una modesta quantità
di qualche altro prodotto della nostra terra. Salutava, faceva il suo ordine,
rimaneva in silenzio durante tutte le operazioni della vendita, poi ringraziava
e immediatamente dopo spariva, stringendo tra le mani come una conquista
quel suo fagotto avvoltolato.
Così trascorse l’estate e ritornò anche il momento del
rientro a scuola: non potevo più dedicarmi alle mie attività
e quasi me ne dispiacevo, non avevo mai avuto infatti una predilezione assoluta
per lo studio e la scuola in generale. Folle di bambini malvestiti arrivavano,
mi sembrava, da ogni dove, in gruppi rumorosi che ingombravano le vie del
paese e i sentieri delle campagne circostanti. Nella mia classe eravamo
una quarantina, stipati e silenziosi riverenti e vergognosi di fronte all’autorità
dell’insegnante che ci ordinava di eseguire esercizi e operazioni
matematiche o ci assegnava composizioni che svolgevamo senza battere ciglio
o senza distrarci minimamente da ciò che stavamo facendo. E fu così
che solo il terzo o il quarto giorno dopo il rientro a scuola, quando il
maestro chiamò alla lavagna una compagna riconobbi, anche se la figura
mi volgeva le spalle, un grembiulino nero, dalla tinta lievemente ingrigita,
su cui spiccavano vistosamente due maniche dal colore più scuro,
evidentemente ricucite, affinché il capo potesse andare bene per
la nuova funzione cui era stato destinato. Sicuramente nessuno ci fece caso
nel marasma di quei mille altri cenci indossati allora dai bambini, troppo
lunghi o troppo corti, troppo stretti o riaggiustati e comunque nella quasi
totalità dei casi riadattati più volte a seconda delle nuove
situazioni in cui venivano indossati, ma per me fu una sorta di rivelazione,
dolorosa di una realtà che non avevo compreso prima in tutta la sua
compiutezza. Abbassai per la prima volta lo sguardo di fronte alla risposta
che mi era stata offerta e imparai solo quel giorno a fermarmi a guardare,
cominciando dal punto esatto in cui gli occhi non possono più vedere.