L’ULTIMA GITA IN GONDOLA
Venezia, 23 agosto 1576.
Non hanno bussato. I monatti non bussano: spalancano le porte a calci, a
spallate; talvolta addirittura le sfondano. Ma la porta di ser Geronimo Zen
si è aperta da sola, con un cigolio sottile come lo sbadiglio di un
gatto. Sono entrati in tre, col respiro pesante e le mani sporche, guardandosi
intorno con cupidigia più che con sospetto. I monatti non temono gli
agguati. Ci convivono, loro, con la morte. Ne conoscono il lezzo, il rantolo,
il passo. Sono entrati e se lo sono trovato morto davanti, piccolo, scarnito,
pochi capelli e grandi occhi celesti. Quarant’anni, forse cinquanta;
occhi di bambino e calvizie a confondere il calendario.
“Siamo venuti a prendere ser Geronimo Zen” ha detto il più
grosso, sicuramente il capo. Gli altri due gli stavano ai fianchi, torreggiando
sopra quel guardiano alto poco più di un folletto.
“Il mio padrone sta di sopra. Riposa” ha risposto lo gnomo, allargando
le braccia per sbarrare la strada ai colossi.
“E’ stato denunciato come infetto” proclama il capo.
“Dobbiamo portarlo al Lazzaretto Vecchio” aggiunge il secondo.
“Ordine della Signoria” taglia corto il terzo.
Ma il vecchio fanciullo non si schioda di un passo.
“Vi ho detto che sta riposando. Non vi permetterò di disturbarlo.”
Lo cacciano via con una manata. Cominciano a salire le scale, due gradini
alla volta, tallonati dal minuscolo custode, che ha il fiato corto e la vista
annebbiata dalle lacrime. Entrano in camera.
Ser Geronimo Zen ha il viso gonfio, paonazzo. Gli occhi chiusi da cecità
antica, irrimediabile. Ma le braccia, che spuntano nude dal lenzuolo fresco
di bucato, rivelano i segni inconfondibili del male. I rigonfiamenti che gli
spaccano la pelle sono bubboni: il vecchio ha la peste.
“Da quanti giorni è così?” domanda il capo, squadrando
con disprezzo il servitore.
L’omino non risponde.
“Chi c’è in casa, oltre a voi?” lo incalza il monatto.
Gli occhi incollati alla punta delle sue babbucce, l’ometto scuote la
testa.
“Io solo”.
“E gli altri servitori” ringhia il capo.
“Sono scappati in campagna due giorni fa”.
“Tutti?” urla il capo, e lo afferra per le spalle, lo scrolla
come una tovaglia. “ Con le loro robe?”
“Tutti. Con le loro robe, sì. E anche con l’oro e l’argento
del mio padrone.”
Uno dopo l’altro, i tre sputano per terra.
“Che l’inferno se li pigli! Ladri maledetti!” grida il capo.
Gli altri due hanno già sollevato per le ascelle il moribondo, lo tirano
giù dal letto, lui geme, un lamento fievole, un fiato che taglia in
due l’aria come una lama di coltello, e il dolore che ne sgorga fa rabbrividire
il folletto, benché sia agosto e faccia un caldo insopportabile.
Lo trascinano verso le scale di malagrazia. I piedi del nobiluomo strisciano
per terra e lui gira la testa all’indietro, a cercare aiuto.
Il capo ha aperto il cassettone: vuoto. Fruga sotto il materasso, tra le lenzuola,
sotto i guanciali: niente. Bestemmia.
“Andate giù anche voi” intima al servitore, e già
corre nel salone, ma i mobili sono spogli, le vetrine vuote, gli arazzi e
i quadri staccati dalle pareti. Sono rimasti solo gli specchi, nei quali vede
correre il suo volto incupito dalla rabbia. Non ci sarà bottino.
Sulla riva sono ormeggiate due barche: sulla prima stanno i casi più
gravi, gli uni addossati agli altri, chi seduto chi sdraiato chi già
in agonia, in una confusione di cenci arti storpiati umori marci rantoli sfacelo;
sull’altra poche persone dalle facce piangenti e spaventate. Hanno quasi
tutti un fazzoletto imbevuto di aceto premuto sul naso, o un sacchettino di
erbe odorose incollato alle narici.
“Salite con quelli” dice il capo, indicando all’omino la
seconda barca.
“Voi siete solo in sospetto di peste. Farete la quarantena al Lazzaretto
Nuovo, e se Dio vorrà ne uscirete con le vostre gambe e vi cercherete
un altro lavoro”.
L’ometto non si muove. “Io non abbandono il mio padrone”
dice, con celestiale fermezza.
“Non fate stupidaggini” lo ammonisce il barcaiolo. “Dal
Lazzaretto Vecchio nessuno è mai uscito vivo. Dal Lazzaretto Nuovo
invece sì. Salite sull’altra barca, svelto: con l’aiuto
di san Marco, di san Sebastiano e di san Rocco, magari riuscirete a campare
qualche anno ancora”.
Ma con un salto l’omino è già accanto al suo padrone,
sulla barca dei morenti, e gli solleva la testa, gli accarezza i capelli,
“Stiamo andando a Rialto a comperare del buon pesce, signore”
gli dice, e sulle labbra di ser Geronimo Zen trema un sorriso di sollievo.
“Scendete da lì” abbaia il capo. “Scendete!”
grida.
Ma l’ometto ha occhi e orecchie solo per ser Zen. Anche la voce è
solo per lui. “Ricordate, signore, il pranzo di nozze di vostra figlia
Erminia? Comprammo insieme il pesce più grosso che mai si fosse visto
a Rialto, e lo feci servire in tavola intero, su un vassoio retto da quattro
valletti: da un lato era lesso e dall’altro arrosto, in modo da non
scontentare nessuno degli invitati…”
Ancora un fremito sulle labbra di ser Geronimo Zen. Sotto le palpebre chiuse
dalla sua decennale cecità, i ricordi danzano a braccetto con i sogni.
La barca dei moribondi non esiste, non esiste la mano che scioglie l’ormeggio,
e neanche il piede che con un calcio la scosta dalla riva, non esiste il remo
che la governa e la allontana dal palazzo irrimediabilmente perduto, non esiste
il fetore della morte che viaggia con loro, incontro all’isola del Lazzaretto
Vecchio.
“Chi siete voi? Il suo buffone?” lo irride il barcaiolo.
L’omino non lo degna di uno sguardo. “Sapete cosa vi preparerò
stasera, signore? La salsa bianca che vi piace tanto. Pesterò le mandorle
spellate insieme con il pane bianco, e stempererò il composto nel succo
dell’arancio amaro. Poi lo verserò in un tegame, unendovi zucchero
fino e acqua di rose; metterò a cuocere e a metà cottura aggiungerò
un po’ di zenzero. Vedrete che sarete contento, signore…”
Gli parla tenendo la bocca accostata all’orecchio, non ha paura del
contagio, né lo disturba la smorfia di scherno stampata sulla faccia
dell’uomo curvo sul remo.
Dalle case vicine la gente si affaccia alle finestre, a spiare la sventura
degli altri per compiacersi della propria buona sorte. Da un terrazzino il
procuratore Domenico Mocenigo sta dettando al notaio il suo testamento. Si
interrompe per cercare, nella barca degli appestati, qualche volto noto: riconosce
quello di Orazio Vecellio, il figlio del celebre Tiziano. Si fa un segno di
croce. Poi scopre quello di ser Geronimo Zen. Ha un trasalimento, sta per
gridargli addio… Ma lo gnomo è più svelto: accosta l’indice
alle labbra, a intimargli di fare silenzio. E con un ammiccare dei sopraccigli,
gli fa capire che bisogna salutare l’amico con la cordiale allegria
dei tempi andati.
“Buona passeggiata in gondola, ser Geronimo Zen!” grida il procuratore;
e il moribondo muove le labbra come per rispondere che sarà bella davvero,
quella gita a Rialto in compagnia del suo cuoco.
Il barcaiolo scuote la testa. “Amano così i cani” borbotta,
con la sua voce buia.
“E gli angeli” mormora il vecchio cieco, e l’anima gli vola
via in un soffio, senza dolore.