La signora Pazzaglia
La signora Isidora Pazzaglia al mattino si sveglia presto per sciacquare subito il cuore dagli incubi notturni, orlati di rimproveri e di recriminazioni; mentre si ravvia i capelli davanti al lavandino, li vede con la coda dell'occhio gorgogliare via dal buco, sempre un po' otturato dalle speranza cadutele lì dentro la sera prima, con l'ultimo sorso schiumoso di dentifricio. Fa colazione con latte e caffè e poi si dedica al rito quotidiano della spazzatura da buttare: raccoglie le ultime cose della sera sparse per la casa con meticolosità, stando ben attenta a non tralasciare niente e senza volersi soffermare troppo sull'angoscia di non riuscire, durante la giornata, a creare tanti rifiuti da riempire un sacchetto l'indomani.
Apre la piccola pattumiera rossa che occhieggia nell'angolo della cucina, ne cava fuori il sacco sul fondo del quale giacciono già, inermi e spiaccicati, i rifiuti del pasto della sera avanti. Li guarda cacciando per un attimo lo sguardo e il naso dentro: le piacciono perché le ricordano le alghe imputridite sul bagnasciuga del mare, hanno quel solito stare languido e abbandonato, i primi per il cadere casualmente dentro il sacco durante veloci operazioni di gastronomia casalinga, le altre per essere state lasciate li a morire da quelle onde leggere e quasi senza voce del primo mattino. Un giorno, si ripromette, sarebbe andata al mare, si sarebbe divertita a raccogliere tutto quel ciarpame sulla spiaggia e ne avrebbe riempito un gran bel sacco.
Armata di questo carico ancora leggero e vagamente odoroso, va in salotto e acchiappa soddisfatta i fili di lanugine sparsi sul pavimento (il tappeto che ha comprato fuori dal supermercato da un magrebino si libera spesso di qualche ciuffetto colorato) per poi lasciarli liberi di cadere leggeri nel sacco finché non si appiccicano all'organicità in via di putrefazione che già giace là dentro.
Afferra l'incarto di un gelato gustato davanti alla televisione proprio mentre ne mandavano la pubblicità: quale soddisfazione aveva provato, quasi un'euforia intima e appagante (aveva anche sorriso con la bocca sporca di cioccolata). Ne fa una pallottola, anch'essa leggera e eterea, che subito si riapre e si allunga grinzosa e ribelle sopra il resto della spazzatura.
Raccoglie il giornale del giorno prima, svuotato di alcune pagine che le erano servite per raccogliere le squame della carota pelata per quel cruditè che aveva letto dal parrucchiere, su una di quelle riviste per adolescenti che parlano solo di diete e di ragazzi. Mentre lo pigia dentro a forza le cadono gli occhi sul titolo stropicciato di prima pagina "Morir... soffoc... dal... spazz.." Eh, no questo a lei non accadrà mai...
Impugna, decisa e soddisfatta per la scoperta, la lattina vuota di aranciata lasciata in giro con falsa noncuranza, per poi poter assaporare il brivido di rintracciarla, nascosta malamente sotto il tavolinetto che ne lascia trasparire il colore e la forma ma inganna un po', per uno strano effetto si luci e di lavorazione del vetro, sull'esatta posizione. Dopo aver raccolto quelle briciole stantie di vita, passa nel corridoio, che come dice il nome stesso, serve solo per correre, per trasportarti come un tapis roulant verso le altre stanze della casa e non offre niente di bello da gettare via se non, quando sono accesi termosifoni d'inverno, qualche cespuglietto di polvere. Le tornano allora in mente quei film western in cui eterne sequenze sono dedicate alla visione di sterpi che rotolano per strade arse dal sole.
In camera da letto scuote via dalla federa del guanciale le briciole dei
presagi onirici della notte appena trascorsa, le spazza via con la scopa e
le riversa nel sacco che si trascina dietro come una befana; getta via la
boccetta ormai esausta delle gocce per dormire, e svuota il posacenere dagli
incarti delle caramelle succhiate mentre ha riletto l'ultimo romanzo d'amore
prestatole dalla sua amica. Si china poi per terra, quasi in preghiera, sperando
che qualcosa le sia sfuggito il giorno prima, qualcosa che potrebbe essere
rotolato sotto il letto e che potrebbe buttare ora, un po' in ritardo, ma
sempre in tempo per la corsa diurna all'illusione penelopeliana si creare
e disfare per poi creare.
Niente: sotto il letto solo la ceramica un po' scrostata e il buio profondo
verso la parete. Si rialza un po' delusa, un ultimo sguardo ricognitore attorno
a sé e poi va verso il bagno, vera flicina, assieme alla cucina, di
spazzatura. Sul bordo del lavandino giace, vitreo e scivoloso, il vasetto
vuoto della crema da notte: purtroppo queste confezioni economiche - le uniche
che si può permettere con i soldi della pensione di reversibilità
del marito - durano anche un mese, ma non saprebbe descrivere quale contentezza
le nasce tra le viscere, alla bocca dello stomaco quando lo afferra, finalmente
vuoto, per gettarlo nel sacchetto dell'immondizia, quel sentirsi conforme
e parte del sistema ora che lo butta e anche dopo, quando ne aprirà
uno nuovo, già acquistato e tenuto lì, pronto, nell'armadietto
del bagno dentro la sua scatolina di cartone avvolta nel cellophane, anch'essi
splendidi rifiuti per far ingrassare il suo sacco.
Schiaccia tra le dita il cilindro di cartone della carta igienica (delle volte, quando la spazzatura scarseggia, lo sfila prima che sia finito il rotolo, che lascia lì a penzolare, molle e sfinito, ormai privo di scheletro e pronto alla resa); poi con delicatezza, con due dita appena, il rasoio per depilarsi (non aveva mai avuto tanti peli sulla lingua e la vita le aveva insegnato che ogni tanto non averli era meglio, almeno quando c'era da difendersi da chi voleva fare il furbo, come il giorno prima quel fruttivendolo odioso del mercato vicino a casa sua, che le voleva rifilare delle melagrane di giugno spacciandole per primizia e ad un prezzo impossibile), la bottiglia vuota del bagnoschiuma o dello shampoo, della lacca per i capelli, l'incarto della saponetta al profumo di rosa... Alla fine pigia ben bene tutto nel sacchetto azzurro, tira con forza i lacci gialli e ne fa un bel fiocco stretto stretto di modo che niente del suo buttare possa sfuggirle più e rimanga in eterno prigioniero di quel tempo ormai trascorso. Ciabatta giù per le scale del palazzo, esce per strada, percorre quei trenta metri che la separano dal cassonetto tenendo il sacco con la stessa identica soddisfazione con cui un cacciatore tiene per le orecchie la lepre appena fucilata. Giunta al cassonetto, apre col pedale il coperchio, si getta il sacco dietro le spalle e lo lancia dentro con un gemito di fatica di vivere. Lascia il pedale e il coperchio, sbattendo, gli alita con forza un po' di tanfo nel viso. Si ravvia soddisfatta verso il portone col mazzo delle chiavi nella mano sinistra e un po' di niente nella destra.
Un tempo, quando i sacchetti da buttare venivano lasciati fuori dalla porta
degli appartamenti dai condomini ed era il portinaio che si occupava di raccoglierli,
aveva preso l'abitudine di affacciarsi sul pianerottolo a sera tarda per scambiare
il proprio sacco con quello dei vicini. Il portinaio, un volta che era un
po' più sobrio del solito, notò la strana disincronia tra il
sacco gigantesco, odoroso di cibo e di vita in viaggio, buttato da quella
signora sessantenne che viveva da sola, e il minuscolo sacchettino della spesa,
abbandonato fuori dalla famiglia di cinque persone della porta accanto, leggero
quanto la cenere che gli cadeva dalla cicca appesa in eterno alla bocca, e
aveva pensato, tra sé e sé, che quello della signora Pazzaglia
doveva essere un gran bel vivere.