Il rosmarino.
I luoghi hanno un'anima. E sono vivi, più vivi delle persone che li
abitano.
Bella frase, non c'è che dire. Forse l'ho letta nelle cartine dei cioccolatini,
forse sul retro di un CD di musica new age. Però è vero. Accidenti
se lo è! Altrimenti, mi dico, non starei seduta qui, in mezzo alla
polvere, a domandarmi perché mi sento così male all'idea di
lasciare questa casa.
Il trasloco è sempre un trauma. Lo so, buttata così è
un'affermazione da vecchia comare che, sfogliando le riviste dal parrucchiere,
abbia fatto indigestione di rubriche "Lo psicologo risponde". Il
guaio è che anche questa è una verità. Esistono poche
fortunate (dipende dai punti di vista) persone che vivono fregandosene allegramente
del luogo in cui si trovano (casa, quartiere, nazione, pianeta Terra... non
necessariamente in quest'ordine) o che dichiarano che vivrebbero bene in qualsiasi
posto. Persone che non hanno alcun problema a spostarsi, per un giorno o per
la vita intera. Un po' profughi, un po' viaggiatori, un po' rappresentanti
di enciclopedie.
Per carità, non è il mio caso. Io, se trovassi un vaso abbastanza
grande, mi ci pianterei, come un geranio. E mi parcheggerei su un bel terrazzo,
in una posizione ideale; non troppo sole, non troppo vento, giusto grado di
umidità. Oppure, mi accosterei al muro di una vecchia casa. Casa come
questa, alla quale sto dicendo addio.
C'era una grande pianta di rosmarino, fino a qualche tempo fa, tra la porta
e una panca di pietra. E' seccato. Per mia madre è un segno del destino.
Non ho mai abitato in questa casa per più di una ventina di giorni
consecutivi. Giusto il tempo delle vacanze di agosto, spesso anche quelle
di Natale e Pasqua. Il tempo della vendemmia, ovviamente. Ha dominato i sogni
della mia infanzia, i sogni veri, i notturni onirici viaggi. Ad essere sincera,
io sogno spesso le case, quindi, se si dà retta alle più comuni
interpretazioni, sono una che riflette parecchio su se stessa. Verissimo.
Sai che pizza... Be', io ritengo me stessa interessante, ma non esageriamo...
Torniamo alla casa. Ho sofferto meno quando abbiamo lasciato la nostra vera
casa, in Riviera, quella in cui la mia famiglia ha abitato per cinquant'anni.
Il problema è che questa casa è ormai solo un guscio vuoto e
cadente. Non c'è più la prozia Matilde, una roccia di donna
che, me lo ripeto sempre, se fosse nata mezzo secolo più tardi, sarebbe
diventata capitano d'industria o presidente della Camera. Non c'è più
mia nonna. Non ci possiamo più venire noi, e allora ci siamo premurati
di portar via tutto. Più che un trasloco è stato un saccheggio.
Una rapina di ricordi. Ogni mobile, ogni vecchio attrezzo è stato da
noi portato via con il preciso scopo di catturare per sempre un po' dell'anima
della casa.
Mi aggiro per le stanze spoglie con un mano un voluminoso piatto di portata,
bianco con svolazzi color seppia. Non è nostro. Abbiamo ritrovato un
appunto, scritto con inchiostro ormai sbiadito su carta ingiallita, in cui
forse la prozia si era segnata di doverlo restituire ad una certa Eugenia.
Ignoriamo per quale ragione il piatto fosse ancora tra le stoviglie della
prozia e neppure il perché e il come vi fosse arrivato. Forse era stato
consegnato pieno ma, una volta svuotato, non era tornato alla legittima proprietaria.
Mio padre ha identificato l'Eugenia del biglietto, perciò devo recarmi
da lei, o meglio, da sua figlia Maria, per procedere alla restituzione. Mi
decido a salire in macchina, fa un gran caldo nonostante sia quasi sera. Il
paesaggio ha la forma e i colori pieni, maturi, che io amo di più.
Io sono un tipo da collina, senz'ombra di dubbio. Anche se sono nata e cresciuta
al mare, se mi chiedono di chiudere gli occhi e di immaginare la natura, io
vedo queste colline, con i vigneti, i campi di grano, di mais e i noccioleti.
E, in un angolo, lo scorrere del fiume Bormida, qui dove si incontra con l'Erro.
E la torre.
Arrivo ad una cascina tra le tante, un cane - un meticcio di media taglia
- mi viene incontro scodinzolando. Un uomo anziano e uno giovane lavorano
dentro al cofano di un grande trattore. Sono il marito e il figlio di Maria.
Mi presento e spiego loro la ragione della visita.
Mi invitano immediatamente ad entrare, e intanto mi chiedono dei miei genitori
e se è proprio vero che abbiamo deciso di vendere la casa, come hanno
sentito dire in paese. Glielo confermo e Pietro, il marito di Maria, grugnisce
" E' un peccato... "
L'interno della cascina è arredato con gusto, persino con qualche tocco
decisamente moderno, anche se con una sobrietà tutta contadina. Ne
ho viste parecchie, di case come queste, anche più ricche, ma hanno
tutte il passato lì, appena sotto la superficie passata a cera, anche
se i pochi oggetti antichi o almeno vecchi sono usati né più
né meno come decorazioni, come si farebbe in città.
Mi offrono da bere un vinello dolce e frizzante, Maria va a preparare il caffè,
mi porta una torta di nocciole. Le mostro il piatto e le spiego che gliel'
ho riportato.
Lei ride. " Sono anni che abbiamo rotto l'ultimo pezzo di quel servizio!"
" Be', non proprio l'ultimo..."
" Perché non lo tenete voi per ricordo? " mi propone. "Sarebbe
più un ricordo per voi che per noi " insisto. "Va bene "
accetta Maria con un sorriso.. Esalo un sospiro di sollievo. Ho onorato anche
questa volontà della prozia ed ho sbolognato un ingombrante coccio
che, pur con tutti i nostri buoni propositi di non rinunciare neppure ad un
chiodo arrugginito o ad una tazzina sbeccata, minacciava di essere la goccia
che fa traboccare il vaso. Mia madre, nonostante la sua indiscussa abilità
nell'arredare (leggi stivare) mobilia e oggetti vari, avrà il suo bel
daffare a piazzare il tutto nella nostra attuale casa, già ricchissima
di masserizie!
" Però anch'io ho qualcosa da darti " mi annuncia Maria.
Panico; chissà perché, penso subito che quel qualcosa sia enorme,
ben più grosso del piatto.
Spedisce il marito a prendermi della verdura, delle caciotte e un salame,
poi mi invita a scendere in giardino. Contro il muro della casa esposto agli
ultimi aliti del vento che arriva dal mare, c'è un'enorme pianta di
rosmarino.
" Visto che meraviglia, eh? " mi dice, orgogliosa. " E' un
regalo della tua prozia a mia madre. E' nato dalla pianta che aveva lei davanti
a casa e che mi hai detto che è seccata. " Si china per prendere
un vasetto di coccio nel quale sta crescendo una nuova piantina. " Tieni.
Portatelo in Riviera."
La ringrazio. Annuso le minuscole foglie cerose, dall'aroma inconfondibile.
Forse, alla fine, lo spirito della nostra antica casa piemontese riusciamo
a portarcelo via... Maria sorride, compiaciuta. Forse ha capito cosa sto pensando.