GLI OCCHI DELLA BELVA
La notte era la parte peggiore.
Il minimo rumore lo faceva trasalire e si svegliava con il cuore in tumulto,
la mano che tastava freneticamente l’erba alla ricerca del mitra.
Per assurdo preferiva passare le notti a marciare nel buio, quando ogni ombra
era un insidia ed il minimo passo falso poteva essere l’ultimo. Aveva
imparato a muoversi quasi in assoluto silenzio, soppesando anche il respiro,
gli occhi a frugare l’oscurità, la mano destra che ad intervalli
regolari si chiudeva sull’impugnatura dell’arma.
Teneva la cinghia del mitra in modo che il peso fosse sempre presente contro
l’anca ad ogni passo e provava e riprovava il movimento di impugnare
l’arma, togliere la sicura e alzare la canna, valutando il tempo in
cui riusciva a essere pronto al fuoco. Ma non gli sembrava mai abbastanza
veloce.
Durante il giorno, quando non era di pattuglia, dormiva. Si metteva lontano
dalle ombre degli alberi e si sdraiava nell’erba, badando bene di non
avere altro di fronte che il cielo. Da quando la primavera si era fatta viva,
dormiva con il sole dritto sul viso dimentico di quando, solo poco tempo prima,
la sua stanza doveva essere assolutamente buia per poter prendere sonno.
Il tempo rimanente, che fosse di guardia, in ricognizione o durante le interminabili
ore di attesa, lo trascorreva frugare con lo sguardo il tappeto di boschi
che coprivano i monti.
La belva era là, da qualche parte.
Da settimane si sfioravano, a turno cacciatori e prede, e alla cascina si
erano mancati di non più di un’ora. Ma era stato sufficiente
per non lasciar loro altro da fare che scavare le fosse.
Era stato il momento del crollo, quello. Anche i veterani più duri
erano scoppiati in lacrime o avevano dato in escandescenze ma lui sapeva quell’ultima
strage era un segnale apposto per loro, un avvertimento: la belva era alle
strette ed era meglio girarle alla larga. Nessuno, neanche la pacifica famiglia
di contadini che viveva lì da sempre era al sicuro.
Da allora quasi ogni conversazione era cessata, diari e lettere erano lasciati
negli zaini e lui era sicuro che molti dei suoi compagni sarebbero fuggiti
se per ironia della sorte, non fosse stato proprio quello il posto più
sicuro.
“Dopo pochi giorni alla macchia avete tutti quello sguardo”, gli
aveva detto il sacerdote la prima volta che si erano incontrati.
“Quale sguardo?” aveva chiesto e il prete aveva accennato con
la testa ad un suo compagno di guardia. Scrutava l’intrico degli alberi
con gli occhi sbarrati, le pupille come mosche contro un vetro.
Lui aveva annuito in silenzio, erano mesi che non si guardava allo specchio
ed era meglio così.
Di colui che era stato soprannominato Belva sapevano solo che veniva da lontano.
Il resto lo trovavano da mesi sulle strade che percorrevano la valle, sui
sentieri che sprofondavano nell’intrico dei boschi, fin sui monti che
credevano sicuri. E dopo l’ultima assurda strage nessuno faceva più
congetture su chi fosse o da dove venisse. Nessuno riportava più le
storie che giravano tra i pastori della valle. Era come se avessero paura
che al solo nominarlo potesse sbucare dal nulla e massacrarli come aveva fatto
alla cascina, come aveva fatto giù al ponte, o sulla strada che raggiungeva
la chiesina del colle e tutte le altre volte.
Ma lui, giorno dopo giorno, mentre scrutava il muro di vegetazione che la
belva aveva eletto a suo rifugio, continuava a porsi ininterrottamente le
sue domande.
Riconobbero subito la voce della mitragliatrice. Due lunghe raffiche che
riecheggiarono per la valle sottostante seguite dal crepitio di mitra e armi
leggere. Lui ed il suo compagno di ricognizione si guardarono in faccia un
attimo poi si misero a correre giù per il sentiero che quel giorno
avevano pattugliato senza scorgere anima viva.
Lui apriva la strada saltando di pietra in pietra per non scivolare sul terreno
umido, il mitra che gli sbatteva furiosamente contro l’anca, la consapevolezza
che, se il peggio stava accadendo non avrebbe potuto fare altroché
seguire la sorte dei compagni.
Scesero giù, attraverso gli alberi che li frustavano e i rovi che si
aggrappavano ai loro indumenti mentre il fuoco oramai si attenuava sino a
ridursi a qualche singolo sparo.
Quando arrivarono, il silenzio regnava indisturbato nella valletta dove i
pastori avevano le loro case.
Furono accolti da due mitra spianati. Ma erano nelle mani giuste.
Era tutto finito.
Le due sentinelle si erano unite da poco con la banda. Quello era il loro
battesimo di fuoco e lui sperò che non ci fossero ulteriori sacramenti.
“Un colpo di fortuna”, disse il più alto, stiracchiando
un sorriso esangue sul volto pallidissimo. “Oggi toccava a me portare
la mitragliatrice e quando siamo partiti ho dimenticato il treppiede”.
Aspirò una lunga, nervosa boccata dalla sigaretta e si interruppe.
“…Sai com’è il comandante”, intervenne l’altro,
“appena se n’è accorto lo ha preso per un braccio e giù
come due frecce, noi venivamo dopo, era dura stargli dietro!”
“Quando siamo arrivati qua abbiamo sentito qualcuno” disse quello
del treppiede…”Non abbiamo dovuto fare altro che mettere su la
mitragliatrice… ci sono venuti in bocca.” Aspirò di nuovo
dalla sigaretta con la mano che gli tremava.
“Alla seconda raffica quelli ancora in piedi hanno cominciato a ritirarsi,
poi siamo arrivati noi e ci abbiamo dato dentro. Si sono messi a correre come
lepri, qualcuno buttava persino via le armi”, finì il secondo.
Parlavano a scatti nervosi, ancora terrorizzati e sospettava che non casualmente
li avessero messi di sentinella allontanandoli dal campo di battaglia. Fu
sul punto di battere una mano sulla spalla di Treppiede dicendogli “ben
fatto”, come fanno i più esperti con i giovani dopo il primo
fuoco, ma si trattenne. Lui aveva almeno tre o quattro anni meno anche se
c’era dentro da tanto, troppo tempo e non gli sembrava una buona idea.
Li ascoltò ancora un attimo, poi li superò. Doveva vedere.
Un’ora dopo era seduto su una roccia nella radura nei pressi delle
baite dei pastori. Aveva girato per un po’ tra i corpi dei nemici, parlando
con gli altri compagni e ne conveniva: era stato davvero un colpo di fortuna.
Il comandante era sceso giù a rotta di collo con il ragazzo della mitragliatrice;
mai dividere l’arma del treppiede, era una sua fissa e nessuno in futuro
avrebbe mai potuto criticarlo.
Se fossero stati tutti assieme li avrebbero visti, così non avevano
dovuto fare altro che aspettare.
Un colpo di fortuna, o finalmente un momento di distrazione. I morti avevano
gli stivali consumati, le divise strappate, barbe e capelli lunghi. Anche
loro non ce la facevano più.
Era ancora sulla roccia quando arrivò il comandante.
“Stavolta mi sono perso tutto”.
“Meglio così. E’ durata solo pochi attimi. Non quasi hanno
opposto resistenza…”
“Sono loro.”, disse all’improvviso rispondendo al suo muto
interrogativo. “Quelli che ho mandato a inseguire i fuggiaschi sono
tornati con tre prigionieri.”
Rimase in silenzio per un attimo, a fissarlo. Sapeva a cosa pensava quando
il comandante lo guardava così. Aveva moglie e un figlio in città
e non aveva quasi contatti con loro. Il figlio aveva solo qualche anno meno
di lui che era il più giovane della truppa.
Mise in tasca l’oggetto e si alzò.
“Il più vecchio è il capo”, aggiunse ancora il comandante
con riluttanza. “Se vuoi andare ti faccio accompagnare dal sergente”.
Lui gli fece sì con la testa poi lasciò il mitra a terra e si
incamminò sentendo lo sguardo del comandante sulle spalle.
La vecchia casa dei pastori era mezza in ombra nel tardo pomeriggio. Il sergente
accese la lampada e lo appese al gancio sulla parete.
Identificò subito il più vecchio, sembrava tranquillo, seduto
su una sedia accanto alla stufa spenta.
“Mandano i bambini ad interrogarci” fece quest’ultimo quando
lo vide.
Lui non rispose. Camminò davanti a loro osservandoli e poi tornò
a mettersi di fronte a quello che aveva parlato.
Aveva ancora quell’espressione beffarda.
“Siete stati voi, vero? Giù alla cascina”.
“Non so di cosa stai parlando. Eravamo in ricognizione.”
“E tu? Neanche tu sai di cosa sto parlando?”, disse all’altro,
il più giovane.
Quello si mise il viso tra le mani e scrollò la testa.
“Non ho bisogno di risposte. I vostri amici si sono presi un bel po’
di ricordi alla cascina. Argenteria soprattutto. E il fucile da caccia del
vecchio. Avete fatto un massacro, lì e la settimana prima al ponte.
E quella prima, quei ragazzi “.
Il più giovane continuava a tenersi il volto tra le mani.
“Erano traditori, spie” fece improvvisamente l’altro.
“Anche il bambino alla cascina? E la donna giù al ponte? Aveva
tre figli”.
Il ragazzo sollevò improvvisamente il volto dalle mani tremanti. “E’
stato lui ad ordinarlo”, disse indicando il più vecchio che rimaneva
impassibile. “E’ sempre stato lui, io avevo paura”.
“Come no”, fece l’altro appoggiato al muro, “eri sempre
il primo quando era il momento.”
“Li avete ammazzati come cani”, aggiunse ancora, quasi parlando
a sé stesso.
Il giovane contro il muro a quel punto esplose: “Quel bastardo non voleva
che ronzassi intorno alla figlia. Una volta mi ha preso a calci sul sagrato.
Dopo la messa, davanti a tutti. Però poi non faceva più il furbo.
Quando li abbiamo messi al muro mi scongiurava. Gli sarebbe piaciuto che fosse
la mia donna, allora!”
Rimase a guardarlo in silenzio. Il volto era contratto dalla rabbia, il labbro
inferiore gli tremava violentemente. Abbassò la mano sulla pistola
che gli aveva dato il sergente e si spostò davanti al capo. Aveva seguito
tutta la scena senza battere ciglio e adesso lo guardava impassibile.
“La belva”, pensò. Era sui cinquanta, l’aria forte,
l’uniforme in ordine nonostante tutto, i capelli bianchi sulle tempie.
“E’ lei che comanda?”
“Sono colonnello”, gli fece indicando i gradi.
“Siete stati sempre voi? Ha qualcosa da dire?”
“Mi stai processando ragazzino? Siamo soldati. Credi sia un gioco?”
Tirò fuori l’orologio dalla tasca senza neanche pensare.
“Lo aveva lei?”
Il colonnello rispose con un ghigno sarcastico mostrando che al polso aveva
già un orologio. Poi indicò il ragazzo che singhiozzava con
il viso nascosto tra le mani.
“Era mio fratello. Aveva solo 21 anni”.
“Ah, una faccenda personale… Quei due banditi che abbiamo appeso.
Sì me lo ricordo quello giovane. Uno di fegato… Mi ha sputato
in faccia, ma alla fine gli ho fatto sputare sangue.”
Lo colpì all’improvviso, con una forza ed una decisione che non
fu in grado di controllare. Uno schiaffo con tutta la mano, in pieno volto,
assolutamente freddo e deciso ma allo steso tempo incontrollato. Non sarebbe
mai stato capace di compiere quel gesto in maniera conscia.
Gli occhi del colonnello si spalancarono assolutamente increduli. La bocca
si aprì in un’espressione
grottesca che durò solo un attimo.
Poi si scagliò in avanti le mani a chiudersi sul suo collo.
“Come osi bastardo? Come osi?”
E allora vide.
In quegli occhi gelidi si era accesa una luce selvaggia. Era la vanità
del potere, la stupida presunzione dell’uomo che crede di elevarsi uccidendo,
lo stupore e la rabbia per l’oltraggio al potere assoluto, per l’arroganza
della violenza contraddetta così impunemente da un ragazzino. In quegli
occhi vide la furia omicida, come doveva essere esplosa molte volte, come
doveva averla vista suo fratello che a quella miseria aveva sputato in faccia
nel suo ultimo attimo d’orgoglio.
Rimase fermo mentre l’uomo cercava di strangolarlo a mani nude, completamente
assorbito da quello sguardo al punto che forse sarebbe rimasto immobile a
farsi ammazzare. Poi il sergente si andò a sbattere contro il muro
e scivolò a terra, dove rimase con quello sguardo omicida negli occhi.
“Come osi, bastardo?”, ripeteva.
Nulla era rimasto della gelida figura che lo fronteggiava poco fa.
Lui invece rimase fermo a guardarlo, solo lontanamente conscio del dolore
che le unghie affilate gli avevano lasciato sul collo.
Improvvisamente si sentì un idiota. Che cosa si era aspettato di trovare
in quella casa?
Giustificazioni?Scuse? L’incarnazione del male? Una qualsiasi risposta
al suo orrore?
Non c’era niente dietro quegli occhi.
E allora ebbe veramente paura. Non quel terrore irrazionale per l’entità
misteriosa che colpiva e spariva nel nulla.. Ma la paura di quello che quegli
uomini erano diventati senz’altra ragione che le loro miserie umane.
Alzò la pistola in maniera meccanica. Lui aveva capito, toccava a lui.
Cominciò a sparare un colpo dietro l’altro e continuò
fino a quando nulla di tutto quello che aveva davanti dava più segni
di vita.
Poi lasciò scivolare il braccio inerte sul fianco e rimase immobile
a guardare le tre figure inanimate.
“O Madonna Santa…”
Si girò e guardò il sergente, immobile con il fucile abbassato
spostava lo sguardo da lui ai cadaveri.
Lo superò e si avviò verso la porta.
Erano accorsi agli spari, tutti lì, fermi sull’ingresso con le
espressioni incredule.
“Li ha ammazzati tutti!”
“Il ragazzo…Mio Dio…”
“Ha fatto giustizia di quei bastardi…”
Passò attraverso il capannello dei suoi compagni che si aprì
per lasciarlo passare.
Altri stavano arrivando, e anche essi si disposero su due ali a guardarlo.
Resse lo sguardo di disapprovazione di uno dei veterani che scuoteva la testa
e continuò ad allontanarsi, incontrando, infine, anche il comandante
che lo guardava con quello sguardo grave e addolorato da padre. Lasciò
cadere la pistola nell’erba e proseguì a camminare, diretto alla
piccola radura dove si era seduto a fumare poco prima e dove aveva intenzione
di sedersi di nuovo a piangere per tutto il tempo che gli sarebbe occorso.
Si chiese cosa avrebbe visto nei suoi occhi il reverendo quando sarebbe tornato
a visitarli, ma sapeva che sarebbe andato oltre e avrebbe trovato qualcosa.
La sua paura ed il suo dolore.