Donne in amore

Premetto: io non sono mai nata, però so che mia nonna si chiamava Assunta e fu concepita come lo scoppio di un petardo, proprio quella notte lì, la notte dell’Assunta, quando da poco altri splendori avevano riempito il cielo, quando altre fiammate avevano colorato il firmamento con cascate e zampilli e stelle filanti. Era il ’50 e c’era voglia di divertirsi quell’estate, perché il ricordo della guerra non era poi così lontano, lo vedevi ancora sui vestiti sdruciti e nelle case, a mezzogiorno, sulle tavole poco più che misere. Proprio così era l’estate del ’50, con quella voglia di viverla la vita dopo averla riportata a casa, un po’ logora forse, ma ancora in buono stato…
E i miei bisnonni camminavano l’uno accanto all’altra, Feliciano lui, Cianetto per gli amici, e Natalina lei, e venivano giù per il viottolo della collina che dal paese portava al podere dove il mio bisnonno era “mezzadro”…
Cianetto veniva giù canticchiando e ripetendo i passi d’una danza inventata lì per lì. Natalina, invece, era stanca, aveva in mano i sandali e trascinava i piedi un po’ gonfi. Era preoccupata per il suo vestito che alla luce della luna sembrava spiegazzato e vizzo, perciò era contrariata con se stessa dopo tutto quello che le era costato in lavoro e rammendi, e sospirò Natalina, vent’anni, sospirava spesso… guardava il marito che adesso le camminava poco più avanti e lo vedeva ancheggiare al ritmo di quella musica che conosceva solo lui. Aveva i capelli lisci e lucidi di brillantina Cianetto, la camicia bianca sbottonata, il fazzoletto appallottolato in tasca e la giacca di fustagno sulle spalle. .. Natalina s’incupì di nuovo per un istante… “E’ proprio un bambino”, pensò con stizza materna, mentre le scarpe del marito si rivestivano di polvere…
E io so che il mio bisnonno Feliciano, Cianetto come tutti lo chiamavano, camminava nella polvere e sognava poco, per lui la vita andava presa così come veniva e in quel momento non pensava ancora alle bestie del padrone nella stalla, anche se a quell’ora sicuramente si erano già messe ad urlare e a protestare, proprio come bestie. Però la spensieratezza e l’euforia provate nella serata festaiola si stavano affievolendo con il ritorno a casa. Cianetto cercò nuovo entusiasmo nel taschino della camicia, là dove aveva lasciato furtivamente un pacchettino che alla commessa aveva chiesto di volerlo avvolto in una carta dorata, e la commessa gli aveva guardato a lungo le mani callose. Cianetto non aveva capito cosa avessero di sbagliato quelle mani che erano le uniche a portare a casa un pezzo di pane, e poi aveva visto che i suoi modesti risparmi di un anno se ne erano andati con quel pacchettino lì, dorato e con un fiocchettino pure giallo…
So anche che la luna era alta e illuminava il viottolo di campagna, e Cianetto sentiva sua moglie che lo seguiva. Accese la mezza “Alfa” che teneva dietro l’orecchio e desiderò stendersi sull’erba medica e dormire…
C’era ancora tanta strada da fare, Natalina era stanca e guardava il marito, anzi, quell’uomo che le avevano concesso… “Ce l’ho io il marito per la figlia tua”, aveva detto compare Michelaccio che s’era fermato a casa per un bicchiere di vino, e Natalina aveva alzato gli occhi in silenzio, un brivido le era sceso lungo la schiena, aveva avuto paura di quel “sensale” che beveva sotto la lampada ad acetilene, e dopo un mese s’era ritrovata in chiesa e maritata, sempre in silenzio; lei era uscita da casa ed era entrata una vacca che era una bellezza, dava latte a litri, troppo per Natalina esile e magra come un chiodo, avevano malignato nei poderi vicini…
Adesso, vent’anni, Natalina osservava suo marito, quell’uomo capace di silenzi ostinati e pieni di rancore, capace di un amore fatto di piccoli gesti, un grappolo d’uva o un paio di fichi quando tornava dal campo con la roncola nella cinta, o un’occhiata brusca e di traverso quando Natalina gli portava la brocca del vino fresco di cantina…
Sospirò Natalina, e Cianetto aveva ballato tutta la notte, trascinato via dal quotidiano duro lavoro da quei passi di valzer e mazurca, sicché respirò a pieni polmoni l’aria fresca della notte, si sentiva forte e aitante, ma già le bestie del padrone aspettavano la biada nella stalla, aspettavano quella loro manna a forconate, e Cianetto cacciò quel pensiero carico di frustrazione, si girò verso la sua donna e la trascinò per un braccio fin dopo il fosso, la distese ed entrò in lei con rabbia, gioia e angoscia insieme, poi avrebbe voluto scusarsi ma non gli venivano le parole giuste, gettò solo il pacchetto dorato sul grembo di Natalina…
Così fu chiamata al mondo Assunta, mia nonna, il 15 d’agosto, e per una madonna che se ne andava in cielo un’altra era pronta là, sulla terra… ma non per questo dimentico che fu una gravidanza difficile e poi alla fine mia nonna nacque dalle mani di Ninetta che passava di podere in podere per far partorire anche le vacche e le cavalle, grazie a Dio, perché in campagna rendeva più una bestia che una femmina… E quando nacque mia nonna, Cianetto non era più ad aspettarla, aveva già aperto la stalla per far scappare le bestie del padrone e poi aveva sbattuto il berretto per terra e così come aveva fatto per le bestie fece per se stesso e se n’era scappato in Svizzera insieme ad una bestemmia e ad una valigia di cartone. Cianetto sognava poco e per lui la vita andava presa così come veniva, perciò se ne era andato, per seguire la danza di un giorno di festa migliore.
Sicché Natalina cercava di consolare la figlia, e quando piangeva le raccontava di un principe ricco e dai capelli lisci e lucidi di brillantina, e le aveva messo al collo la catenina d’oro che una notte d’agosto il suo uomo le aveva regalato…
Però mia nonna Assunta non ha mai voluto imparare a ballare, non c’era tempo e nemmeno voglia, appena l’età glielo permise andò a servizio dal Conte Pesci, e in quella casa patrizia trascorse buona parte della sua gioventù, fino a vent’anni, fino a quando vide Tonino…
A volte penso a mia madre e immagino che sia stata concepita in un giorno di chimere, annuncio di un carnevale baldanzoso e perenne …
Amo pensare tutto ciò. In verità mia madre Sara anche lei fu concepita come lo scoppio di un petardo, perché Assunta lavorava a servizio e Tonino era muratore e cantava lì sulla piazza dove si affacciava la più bella casa del paese… Aveva la faccia sporca di calcina Tonino, ma la sua voce era come quella di un usignolo e per Assunta quella voce era una gran cosa, più ancora dei pavimenti da lavare in ginocchio e del Conte Pesci, vecchio e infermo e da lavare meglio dei pavimenti… Così mia nonna Assunta seguì la felicità che pensava stesse dietro un canto di sirena…
Amo pensare che mia madre Sara sia stata concepita in un giorno di festa, forse perché più d’ogni altra cosa si desidera quello che non si ha, così io, che non sono mai nata , penso di conoscere lo stesso la mia Epifania, ed immagino una rivelazione del tutto particolare, l’annuncio di un carnevale perenne e lontano insieme al ricordo ormai spento di un padre dal volto qualsiasi…
E mentre nella notte tornava dall’osteria abbruttito dal vino ed eccitato dai racconti degli uomini, Tonino cantava oscenità con la sua voce d’usignolo per cacciare la paura delle ombre vaganti, cantava nella notte spettrale e fredda pensando alla sua sposa bambina. E nella notte che stentava a stemperarsi in un lattiginoso mattino, l’uomo gigante strappò la moglie dal sonno arcaico. Mia nonna rabbrividì al tocco ruvido di quelle mani callose, di quelle mani pesanti di lavoro, e covò rancore per la voce calda di eccitazione e di vino. Assunta, vent’anni, non si era ancora abituata a quella virilità prepotente e rude… E poi, nel lattiginoso mattino, la suocera e la cognata, irreggimentate per la prima Messa, avevano invidiato Assunta ancora protetta dalle coperte… “Avrà fatto l’amore…” aveva malignato con scandalizzato pudore l’una. E l’altra, più tardi, aveva avuto un gelo di sorriso di fronte all’evidente verità di una gravidanza.
Nacque Sara, mia madre, venne al mondo da quell’amore naturale che sa unire le donne nel silenzio, così come Natalina, Assunta… Già!, Sara, e adesso sarebbe stato il mio turno, certo, appena Sara, a vent’anni… Senonché mia madre si rifiutò di chiamare con un nome proprio l’essere che le cresceva dentro e a me mancavano le parole per aiutarla a cancellare la vergogna di un peccato originale… quella vergogna che aveva segnato mia madre più del peccato. Per questo ha tentato di cancellarmi inutilmente, perché io, per mia madre sono ancora più viva di Natalina e di Assunta concepita il 15 d’agosto così la mia inesistenza l’umilia e l’attanaglia ogni giorno, così i suoi occhi mi cercano in ogni angolo della città, sulle immagini dei muri, nei negozi, al mercato, ai giardini pubblici, nella scuola e, soprattutto, negli occhi innocenti d’ogni bambino… Così come ogni suono, ogni parola, ogni pensiero fa precipitare mia madre nel ricordo palpitante e terribile, perché a Sara, a vent’anni, successe là nel parcheggio sotterraneo del supermercato di conoscere il suo amore naturale, tra lo scricchiolio lontano e metallico dei carrelli pieni di spesa e lo stridio delle ruote sull’asfalto liscio… Mia madre stava per risalire in macchina carica di buste quando comparve l’uomo della notte che pretese la sua parte di felicità da lei, proprio da mia madre che continuava a pensare.. “Adesso si ferma qualcuno e mi aiuta… E’ sicuro!”, così pensava mia madre fino a quando l’uomo della notte non si fermò lui per primo e le sorrise.. “Sei stata brava….” E mia madre era così sola al mondo che ringraziò quasi quello sconosciuto che l’aveva presa a calci e schiaffi, che le aveva strappato i vestiti e l’aveva trattata come una bestia riottosa. E a casa per quanto mia madre cercasse di togliere dal corpo l’umiliazione, la rabbia e l’impotenza sotto il getto di un’acqua bollente, non poté cancellare me che avevo appena iniziato a nuotare nel suo ventre materno facendo capriole alla vita…
So che l’Epifania è l’annuncio di un magico incanto, ma la mia rivelazione fu per Sara un baratro incolmabile, e le mie euforiche capriole avevano lo stesso sapore dei calci inflitti con crudele indifferenza dall’uomo – padre. Chi ha detto che le cicatrici dell’anima non si vedono? In ospedale tutti guardavano mia madre con disprezzo per quella fede che non aveva al dito, o con pietà se conoscevano la sua storia, ma tutti si discostavano come per un contagio maligno.. “Abbi fede.. Coraggio… Accetta il tuo bambino”, erano pronte a dire le altre donne. Anche le ombre di Cianetto e Tonino erano lì pronte a giurare che non tutti gli uomini sono uguali.. “Ma è poi vero?”, pensava mia madre, vent’anni, e poco esperta nelle questioni di cuore..
“Bambina mia, come potrei inventare per te storie di principi dai capelli lisci e lucidi di brillantina…” mi confessava mia madre, e poi immaginava le mie mani, se erano gentili o arroganti, si chiedeva se i miei occhi erano innocenti o duri come quelli dell’uomo-padre, se i miei capelli avrebbero avuto il colore delle spighe mature, poi decise Sara che il colore degli angeli non poteva dare umiliazione e sofferenza, e che un’altra madre, in un’altra vita, m’avrebbe amato.. Così, io e Sara, siamo precipitate nel buio di un giorno senza festa in un’altalena d’amore e odio.
Ricordo che quando le giornate si erano fatte improvvisamente corte, alleggerite dal peso imminente di una decisione da prendere, mia madre mi disse di un sogno che sarebbe diventato grigio, e lei stessa mi parlò di una vita sporca e di cieli puliti…. Quel giorno, all’imbrunire, passeggiavamo tra prati e vialetti alberati, e vedevamo i ritardatari che passavano dalle panchine ormai in ombra alle panchine nel sole che tramontava. E tra gli alberi passava il vento e questo a mia madre piaceva, le piaceva camminare verso sera per la strada alberata, le piaceva stare insieme al vento, sentire il profumo di prato e di foglie, e anche a me quel giorno, all’imbrunire, piaceva passeggiare con mia madre anche se piangevamo entrambe, perché Sara mi disse che il mio cielo non sarebbe mai diventato azzurro… Stava seduta su una panchina, era sola, afflitta dal peso di una prova insopportabile, e quel peso ero io, e già mi sentivo una ragazza che porta a casa una cattiva pagella. Intanto, sotto un ippocastano, tre giovanotti suonavano la chitarra e sussurravano una canzone che diceva di un amore naturale…
Premetto: io non sono mai nata, però so che quando mia madre lasciò che mi strappassero dal suo corpo, chiese a se stessa di essere vigile per avere impresso ogni segno della mia presenza, ma forse con il dolore non voleva punirsi, bensì avere la consapevolezza della mia perdita.
Mia madre guardava ad occhi bassi la sua gonna un po’ sdrucita all’orlo e poi le sue braccia immobili come ali spezzate, le gambe appese… Le venne l’idea della vetrina di una macelleria, e ascoltava il rumore metallico dei ferri a contatto con le vaschette, e quando fu risollevata dal lettino canticchiava a voce bassa e senza lasciare il tempo di capire nulla sulla sua salute, si avviò alla porta inorridita come le viole del pensiero sotto la pioggia. Sulla porta si girò e a quelle persone in camice bianco sorrise e disse.. “Signori, sono stata brava…”. E se ne andò triste e sognante…
E’ proprio in gamba mia madre. Di tanto in tanto c’incontriamo, perché ci siamo formate l’idea di non esserci abbandonate del tutto, e se non posso avere il caldo delle sue braccia, ho almeno la dolcezza delle sue parole che mi accarezzano quando vado ad abitare nei suoi sogni… E nelle sue giornate, ora lunghe e inquiete, sono fitti i momenti in cui il suo pensiero m’insegue e mi cerca, nella consapevolezza che io non riderò, non piangerò, non potrò assaporare il mio amore naturale e le manco, ha nostalgia di me come se davvero m’avesse stretto tra le sue braccia, come se davvero avesse visto i miei occhi colore del cielo, e io continuo a visitare le sue notti, senza nessun rancore, ma felicemente infelice…