PAOLO SANGIOVANNI

CORSO SAN GOTTARDO

Quella mattina uscisti nelle nebbie
di corso San Gottardo scarmigliata,
col montgomery sulla sottoveste.

Perché vivevi in fretta il tuo declino
e l’esilio. Perché la nostra terra
è nel metro quadrato dove i nostri
ricordi si concentrano. E si è fuori
solo un metro più in là. Rabbiosa come
una bestia braccata, intimorita,
alla ricerca di ragioni vere
del tuo scontento con furore. Ed io
questa mattina colmo di pietà
per te, per me, per questo nostro esausto
smarrimento per non poter capire,
ho rievocato quella tua sortita
con le lacrime agli occhi. Ma purtroppo
uscire in una strada una mattina
con la febbre a vent’anni non è uscire
a sessant’anni nella stessa via.

Tutto cammina nel frattempo. Se
i viandanti incrociati in fretta e furia
sotto un filo di pioggia come quello
di allora per assurdo a loro volta
fossero uguali a quelli là ogni cosa
diverrebbe ugualmente disuguale.
Se fossi viva non saresti tu.

Perché nei sortilegi di una storia
tutto non si ripete mai due volte
né si può ritoccare l’accaduto.

Ma mentre tu cercavi le radici
del nostro male con affanno, io
che sognavo di vivere in un film
torbido di quegli anni, in bianco e nero,
con Eddy Costantine e la colonna
musicale di Fred Buscaglione,
aspettavo tremando il tuo ritorno.

Quella fu poesia. Tante parole
sdolcinate o feroci o rattristate
scritte dopo non sanno immaginare
felicità e dolore scritte assieme
dentro una storia. E dopo quarant’anni
il più grande saluto che può farti
una debole foglia che fingeva
di decidere il verso del suo moto
e che non ha potuto mai scordarti,
è ricordarsi di quella mattina.

In cui tornasti con il tuo regalo
per il tuo malatino che aspettava:
una pipa, per me. Perché smettessi
di fumare. CHE MI FACEVA MALE.