I
Ieri sera, quando sono tornato a casa, Saida mi ha detto che stavolta sarà
un maschio. L’ho trovata particolarmente bella con il velo color verde
acqua: lei non lo dichiara, ma in tutti questi anni l’ho vista indossarlo
soltanto quando era molto felice. Scherzosamente le dico sempre che con
quel velo e quel sorriso rappresenta assai bene il nome che porta. Mi risponde
pacatamente, senza parole, prolungando il sorriso in un’eco luminosa.
In genere parliamo ben poco, io e mia moglie: forse per questo, in trentaquattro
anni di conoscenza e ventisei di matrimonio, non abbiamo mai litigato neppure
una volta.
Saida mi fu promessa quando aveva otto anni e io sedici. Mio padre aveva
acquisito una certa agiatezza con il commercio dei profumi e con le gite
dei turisti in cammello: perché qui il deserto sembra di toccarlo,
ma a piedi non ci si arriva. Io ero rimasto l’unico figlio maschio.
Le mie due sorelle maggiori si sono sposate prima di compiere vent’anni
e sono andate a vivere in città, in un quartiere che adesso è
pieno di negozi e ristoranti. L’unico fratello, più giovane
di me di cinque anni, se l’era appena portato via una febbre cerebrale.
Naturale che venisse scelta per me la figlia di un ricco commerciante di
semi, tanto più che passava per essere una delle più belle
bambine del villaggio. Suo padre non era ambulante, aveva una piccola bottega
ben avviata. Sul contratto di fidanzamento scrisse che l’avrebbe venduta
e avrebbe dato la metà del ricavato in dote a Saida. Gli acquirenti
c’erano già: una coppia di giovani sposi che all’epoca
avevano due figli piccoli. Il marito era ambulante, vendeva un po’
di tutto, e la ragazza per il momento doveva occuparsi dei figli; ma aspettava
che fossero un po’ cresciuti per poter costruire un’impresa
di famiglia insieme con il suo uomo.
La cessione del negozio rese molto bene. Non tutti poi sono così
entusiasti all’idea a vivere in città. Dopo otto anni dalla
promessa, io e Saida eravamo marito e moglie.
Ho comperato altri dieci cammelli, assunto tre nuovi cammellieri, allargato
la fabbrica; ho chiamato un mastro profumiere da Assuan. Le nostre condizioni
economiche sono andate sempre migliorando, anche grazie alla parsimonia
e alla diligenza di Saida. La nostra casa è diventata un porto di
mare. E’ a metà fra abitazione e negozio, una specie di grande
salotto per tutti, pieno di profumi esposti ovunque in fiale fantasiose;
la gente si siede, si trova a proprio agio e alla fine compera molto volentieri,
quasi senza che glielo si chieda. Saida appare di rado, come avvolta da
un mistero che non fa male. Stende la stuoia sui tavoli bassi, serve il
tè, posa il vassoio con il falafel
che ha preparato dietro la tenda, come sa fare lei. Si muove con la delicatezza
di un gatto e con la fedeltà di una colomba gentile. I miei genitori,
che sono ormai molto anziani, si vedono ancor meno. Ma io capisco che i
turisti apprezzano queste presenze silenziose, quasi spettrali: si mostrano
e scompaiono, come forme di una bella donna dietro la biancheria ricamata,
e sembrano dire che la casa non è di tutti, che è un dono
offerto per un’ora o un giorno al ricordo di chi dovrà tornare
a casa. Forse la gente non viene qui per me ma per loro, i custodi invisibili.
Io intrattengo le persone, presento loro il mastro profumiere, parlo moltissimo:
con le mani, con gli occhi e con l’inglese che sono riuscito a raccogliere
in tutti questi anni, spesso dagli stessi turisti. S’impara e s’insegna,
si consegna e si prende. Sono piuttosto basso di statura e non molto scuro
di carnagione: questo rassicura le persone, mi rende simile ad un piccolo
occidentale inoffensivo. Certo non faccio del male a nessuno, ma da quando
entrano a quando si siedono ho già calcolato chi sono, da dove vengono,
cosa vogliono da me, quanto denaro sono disposti a lasciarmi. Alcuni sono
annoiati e hanno voglia di novità, di fare cose che non faranno mai
più; altri sembrano portati quasi soltanto ad osservare, a riflettere,
al limite a non fare assolutamente nulla. Lo capisco da come muovono gli
occhi e soprattutto le mani. Non me l’ha insegnato nessuno, ma ci
azzecco sempre. Sto bene attento ad offrire appena un poco di più
di ciò che vorrebbero: non di meno, certo, ma neppure in eccesso.
Servirebbe soltanto a confonderli e magari ad irritarli. Alcuni provengono
da grandi alberghi del Cairo e sono stupiti dell’agiatezza discreta
che si respira qui. Le donne, soprattutto, mi dicono spesso che da me ci
si sente in famiglia.
Saida e io abbiamo avuto quattro femmine. Le prime tre sono sposate, l’ultima
ha dieci anni ed è entusiasta della nuova nascita. Credo che questo
evento l’abbia fatta sentire improvvisamente più grande e più
sicura, quasi come se il figlio fosse suo.
Io invece mi sono sentito ancora più piccolo. Per tanti anni, ad
ogni gravidanza di mia moglie, ho sperato di non dover mai allevare un figlio
maschio. Non posso dirlo a nessuno: nella mia posizione, in particolare,
tutti mi prenderebbero per pazzo e nessuno più si fiderebbe di me.
In qualunque casa l’erede maschio è un orgoglio per il padre.
Ancor meno posso dirne il motivo, che deve restare più segreto del
mio disappunto.
Questa notte non ho chiuso occhio. All’alba, al momento della preghiera,
ho rischiato di mancarla per lo sfinimento. Allora ho deciso. Mi sono alzato,
ho pregato come se niente fosse e poi ho deciso di affidare le mie parole
a questo diario. Le pagine non hanno un cuore, è vero, ma in fondo
nessuno ha davvero un cuore, quando si tratta di ascoltare ciò che
non si accetta e non si vorrebbe mai sentire. E se non riuscirò ad
essere un buon padre, dopo la mia morte, forse, qualcuno leggerà
e comprenderà; oppure, assai più probabilmente, mi condannerà
come ingiusto.
II
Mio figlio non dovrà mai sapere che io sono così. Preferirei
che lo sapesse chiunque altro. Fino a quattordici anni sono andato a scuola
nel villaggio. Eravamo soltanto fra ragazzi e passavamo molto tempo all’aria
aperta. Sono sempre stato bravo nella corsa e nella lotta e no ho mai avuto
paura a salire su un cammello, neppure quando ero molto piccolo. Non avrebbe
potuto essere diversamente, con il lavoro di mio padre.
C’erano ragazzi che invece avevano paura di fare molte cose e tutti
li deridevano. Dicevano loro che erano femminucce e a volte li facevano
piangere. L’ultimo anno, però, qualcosa è cambiato anche
in questi timorosi: guardavano le ragazze un po’ più grandi,
le servette che passavano svelte come cavalli con il cercine del pane sopra
la testa. Loro se ne accorgevano e facevano apposta a passare proprio di
lì, anche se allungavano la strada. I miei compagni, anche quelli
che erano stati più paurosi, lanciavano loro piccoli sassolini e
le chiamavano. Loro fingevano di spaventarsi e di cadere, ma era solo una
schermaglia. Il giorno dopo sarebbero ripassate di lì senza il cercine,
prima a gruppi di tre o quattro, poi da sole. E prima o poi si sarebbero
fermate a parlare.
Io sapevo che sarebbe dovuto accadere anche a me ciò che accadeva
ai miei compagni: quel richiamo acerbo, l’odore caldo di una donna,
un limo portatore di vita che ti avvolge come una promessa, come una mancanza
da colmare. Ma per me le donne erano qualcos’altro: non che ne avessi
paura, al contrario. Anzi mi era facile parlare con loro, spesso i compagni
mi chiedevano di fare il primo passo. “Hai la parlantina sciolta e
ci sai fare”, mi dicevano. Può darsi che, per qualche dono
di questa nostra bizzarra natura, ci sapessi davvero fare con le donne,
come adesso ci so indubbiamente fare con gli ospiti: in fondo è soltanto
una questione d'esercizio e di stile. Ma non sentivo la loro mancanza, sentivo
soltanto la mia. Non avevo nessun bisogno di loro; niente mi faceva sognare
in quelle curve, troppo invadenti anche sotto la galabia lunga e ampia,
in quei capelli scuri e segreti, dietro la cortina impenetrabile dei veli.
Quello che davvero sognavo, anche se non osavo neppure immaginarlo, era
un corpo asciutto, essenziale; era il sudore agro e muschiato delle nostre
corse, delle nostre risate senza misteri. Era l'errore impossibile di un
altro uguale a me.
I miei passavano e facevano spesso sogni notturni, sempre interrotti molto
presto: prima che potessi vedere, sapere, accettare. Spesso sognavo incontri
furtivi con la fornaia, pieni d'eccitazione e di trepidazione: tutti gli
umori si mettevano in moto, dalla testa alla schiena il pudore si piegava
sotto il giogo del desiderio. Poi, al momento di spogliarla, la donna si
trasformava come un serpente nel compagno che le aveva lanciato i sassi
il giorno prima. Allora mi svegliavo, ancor prima d'essere certo di aver
visto.
III
Saida arrivò molto presto, dopo quel periodo difficile. Non mi creò
nessun problema; anzi, con la sua età così acerba, era perfetta
per un amore soltanto a parole. Anche più tardi, quando cominciammo
a vederci in casa dei suoi genitori, aveva molto pudore e diffondeva attorno
a sé una bellezza non invadente, quasi severa. Tutti apprezzavano
la mia cortesia e il mio saper fare. Ero davvero il marito ideale per lei.
Fu una buona cosa fidanzarmi così presto perché, dopo un periodo
d'apprendistato da mio padre, cominciai subito ad imparare il suo mestiere.
Lavoravo moltissimo, giorno e notte, e non pensavo più a nulla se
non ad offrire alla mia futura moglie una vita degna di lei, della sua grazia
e della sua educazione. Le mie sorelle rimanevano incinte a turno e venivano
a trovarci con i nipoti, sempre più rotonde e più morbide.
Io scherzavo con tutti, facevo salire i bambini sui cammelli. Mio padre,
cominciava ad arrotolarsi su se stesso come un papiro vecchio e mi affidava
i lavori più pesanti, che io poi avrei affidato ai cammellieri e
ai servi. Era fiero di me, era felice che stessi prendendo il suo posto.
Ho quasi finito per dimenticarmi dei miei sogni. E' facile: basta viverli
come se non appartenessero a noi, ma ad un sognatore qualsiasi. In fondo,
chi può affermare che i sogni abbiano un padrone?
Con Saida mi sono trovato bene anche dopo le nozze. Il suo pudore rendeva
tutto più facile e dava una parvenza di rispetto al mio disinteresse
per lei in quanto donna. Posso dirle d'averla capita, non certo d'averla
amata.: in fondo è molto facile comprendere, e quindi anche rispettare
ciò che non si detesta, ma neppure si ama. Chissà che cosa
sarebbe accaduto se avessi sfidato tutto, la nostra legge e il mio destino
famigliare, per poter avere accanto un uomo. L'avrei certo amato, almeno
in qualche momento, e avrei quindi rischiato di rovinare tutto. Prima o
poi, uno dei due se ne sarebbe certamente andato.
La mia vita scorreva tranquilla: sognavo un sogno che non era più
mio: La nostra famiglia era cresciuta ed era quasi naturale che non toccassi
ormai più Saida. Qualche mese fa, però, è successo
qualcosa d'imprevedibile.
Nel mese d'aprile è venuta a trovarci una famiglia francese. Ho conosciuto
persone di tutti i tipi, ma sono rimasto subito colpito da loro. Dal più
grande dei due ragazzi, soprattutto. Poteva sembrare uno di noi, sottile
e scuro di carnagione: forse aveva qualche goccia di sangue africano nelle
vene. Parlava pochissimo in un inglese perfetto, cosa rara per un ragazzo
francese così giovane. Poteva avere al massimo sedici anni: la pubertà
alquanto tardiva lo accompagnava senza chiasso, con la dignità di
una pianta ad alto fusto, di cui non puoi conquistare l'ultimo ramo. Era
molto legato alla madre, non tanto nell'atteggiamento esterno, ma per una
somiglianza sorprendente dei tratti, che superando la differenza di genere
diventava quasi uno strano sincronismo gestuale. Erano due facce di una
moneta e si aveva quasi l'impressione che lo stesso pensiero si fosse incarnato
in due menti, o che una specie di calamita animale attirasse entrambi in
una sola direzione: non per caso, ma necessariamente. Erano la stessa vita
con in mezzo una pausa, una storia.
Per le due ore in cui si sono fermati qui, prima di salutarmi e passare
dai cammellieri per il giro turistico, io ho parlato come sempre, ho presentato
loro il mastro profumiere, ho sorriso e aspettato il té di Saida.
Ma più i minuti passavano, più sentivo che il sogno spodestato
ritornava lentamente mio. Non mi sono mai sentito così sorpreso e
così felice. Gli occhi del ragazzo, gli stessi occhi grandi e profondi
della madre, esploravano la stanza come se volessero parlare con tutti i
custodi vivi e morti della casa, con tutti i fantasmi e le parvenze che
apparivano e scomparivano. Non riuscivo a guardarlo e neppure a non guardarlo.
Non ho fatto niente d'illecito o di strano, se non fosse versargli il tè
una volta in più rispetto agli altri, o tacere un istante quando
roteava lo sguardo in tondo, come fosse un sole accelerato. Ma qualcosa
era cambiato in me. Mi sentivo infinitamente grato ai miei genitori, alle
mie figlie, a Saida, per essere stati involontari tutori del mio sogno senza
rubarlo.
Ci salutammo tutti. Il ragazzo uscì dopo gli altri membri della famiglia,
attardandosi un istante di più per sistemarsi il giubbotto. Io stavo
ritornando verso la cucina, ma non potei fare a meno di voltarmi per seguirlo
un ultima volta con lo sguardo. Lo vidi aprire la porta e, altrettanto irragionevolmente,
volgersi indietro verso di me. Ci siamo guardati per un solo istante, credo
di averlo salutato con un gesto goffo della mano, prima che il suo incarnato
olivastro tradisse un raro rossore. Poi la porta si è rinchiusa.
Non lo rivedrò mai più. Spero che qualcuno sappia custodire
il suo sogno senza impadronirsene, com'è accaduto per me.
Quella notte mi sono avvicinato a Saida dopo molto tempo; abbiamo concepito
questo figlio, che ora cresce in lei e che mi fa tanta paura. Ho paura che
possa somigliare a me, al ragazzo francese, a tutti coloro che hanno sbagliato
sogno. Ho paura di non sapergli insegnare ad essere un vero uomo, io che
per tutta la vita sono riuscito a fingerlo così bene.