Questo
è il quarto libro di questo autore e il secondo in cui parla di Poveda.
Anteriormente, in "La scrittura ardente" (Quattro spagnoli
nella Chiesa) Barcellona 2005, egli dichiarava: "Mi provo a
tracciare un ritratto ideologico (non ideologizzante) del Poveda che
comincia a fondare Accademie Teresiane, da una prospettiva storica,
politica, antropologica."
Riconosce
che ha scritto sul protagonista con entusiasmo, però senza cadere nell’agiografia.
Lo ha interessato la genesi della sua biografia intellettuale, e non
come è stata reinventata o modificata in seguito, e ha voluto mostrare
che "i grandi santi non pensano sempre in termini soprannaturali,
ma di solito stanno con i piedi a terra, scendendo a questa realtà per
cercare di incarnare, in questo mondo, l’idea che gli ha ispirato lo
Spirito".
Sposato
con Cristina Soler, ingegnere industriale, credente come lui, "che
mi legge e apprezza quello che faccio, perché mi ha accettato tutto
intero", e padre di Inés e Miguel, di meno di tre anni, Pego
Puigbò riconosce che "sudai fino alle viscere per ritornare alla
Chiesa e scoprire a che cosa Egli mi chiamava". Ripete che non
voleva essere sacerdote, ma servire Nostro Signore e che lo attirava di
più l’avventura del mondo, che era la sua casa.
Nel
suo focolare domestico egli cambia panni, fa la spesa e cucina, grazie
ai due anni che visse da solo in Inghilterra, con una borsa di studio
postdottorale del Ministero dell’Educazione.
Educato
in ambiente cattolico, rimase lontano dalla Chiesa senza riuscire a
trovare il senso della sua vita. Partecipava a ritiri e gli piaceva
andare a Messa. Terminò il dottorato in Filología Hispánica,
con un premio straordinario nell’Università Complutense di Madrid
(1997) e dice che già allora si preoccupava per il dialogo fede-cultura
in modo embrionale. Una parte della sua tesi, "La proposta estetica"
di Benjamìn Jarnés: un progetto narrativo, fu dedicata a una revisione
laica del termine teologico "grazia", applicato al fenomeno
poetico nelle avanguardie.
A
24 anni, ancora celibe, ebbe un incontro con Cristo. Si rese conto che
non si trattava di qualcosa di intellettuale, ma di "una persona
che parlava a me, non alla mia mente né attraverso i libri". Dopo
un’esperienza così, "uno si pone la questione: e ora che cosa
faccio? Perché io sapevo che quell’esperienza era per qualche
cosa", confessa. Furono anni di una ricerca difficile, di crisi
religiosa ed esistenziale senza trovare appoggi o comprensione nella
gente di chiesa. Si dichiarò obiettore di coscienza e lo mandarono ad
un’associazione di quartiere in una borgata emarginata. Lì fu
testimone dell’integrità della gente e paradossalmente, lì,
"compresi che l’impegno che Dio voleva da me era scrivere sulla
letteratura spirituale."
Ed
è quello che fa, malgrado sia cosciente che il suo campo non è la
teologia e che il suo forte è la critica letteraria e la storia.
Nel
suo libro non ha situato Poveda in termini di destra o sinistra: lo
colloca nel suo momento storico. Non fa di lui un ritratto
ideologizzatore, perché questo supporrebbe assimilare il personaggio al
proprio punto di vista, ma piuttosto cerca di lasciare che Poveda dica
chi è e quello che pensa, attraverso ciò che scrive e ciò che dicono
gli altri. Ha voluto "lasciar parlare lui, ma anche quelli che
entrarono in contatto con lui, contemporanei suoi, Come Andrés Manjón,
Ramón Ruiz Amado e gli uomini dell’Istituzione Libera dell’Insegnamento".
E
poiché non dubita di affermare che "Poveda non solo parlò di
dialogo, ma seppe dialogare", per questo sottolinea che
"questo libro cerca pure di dialogare, utilizzando come strumenti
di analisi
le
correnti intellettuali che possano apportare qualcosa, siano o no
cattoliche".
Nello
scrivere sul suo protagonista sa che non può dimenticare chi è: un
sacerdote della Chiesa Cattolica che, malgrado le difficoltà "non
se ne va, non appende la tonaca ed è molto contento di essere
sacerdote". E siccome lo è, Pego Puigbò afferma che Pedro Poveda
deve parlare e costruire una modernità, dall’interno della Chiesa,
non al di fuori o dai margini. "Deve agire a partire dall’ideologia
cattolica dell’epoca (visse dal 1874 al 1936), cercando nuove strade
che si aprano verso il mondo laico, lasciando da parte quello che non si
concilia, come il laicismo che vuole ritirare Dio dalla società".
L’autore
sottolinea che come cornice di tutto il libro, "opera Covadonga e
la reinvenzione personale di Poveda dopo gli avvenimenti di Guadix"
dove, al culmine del suo successo pedagogico-sociale e del suo impegno
con gli abitanti delle grotte, nel 1906 deve lasciare tutto – aveva
trent’anni – costretto dalla polemica, dall’invidia, dalla
mancanza di fiducia del suo stesso vescovo.
Da
quando, nel 2004, la Cattedra Pedro Poveda dell’Università Pontificia
di Salamanca gli chiese di scrivere il libro, Pego Puigbò è vissuto
immerso in Poveda e ha visitato periodicamente l’Archivio Storico dell’Istituzione
Teresiana, dove è entrato in contatto diretto con i suoi scritti. Lì,
circondato da testi e carte, si è lasciato intervistare per parlare
dell’opera ancora incompiuta.
Per
cominciare si affretta a chiarire che gli è stato possibile scrivere il
libro grazie all’incarico che gli era stato dato dalla Cattedra Pedro
Poveda. Nel novembre del 2004 era stato invitato a tenere la conferenza
di fine di corso, col tema "San Pedro Poveda alle soglie della sua
modernità". La proposta seguente fu ampliare, in un libro, le idee
della sua conferenza.. Un libro che vedrà la luce nel 2006, anno
centenario dell’arrivo di Poveda a Covadonga.
Vuole
sottolineare, "per giustizia", che la sua ricerca è stata
finanziata dalla Cattedra e commenta che "il fatto che una
istituzione si renda conto che uno ha bisogno di mangiare e di far
mangiare la sua famiglia e che inoltre gli lascino completa libertà
intellettuale di trattare a modo suo l’argomento, o che si tratti del
Fondatore o dell’ultimo dei suoi membri, è, semplicemente,
miracoloso. E’ veramente fiducia evangelica".
La
sua ricerca lo portò anche a Covadonga, dove ha immaginato che cosa
abbia significato per il suo protagonista andaluso trovarsi fra le
montagne delle Asturie e circondato da nebbie. Un’esperienza a cui l’autore
dà un valore simbolico.
"Utilizzo
questa immagine della "soglia", dice, per cercare di far
comprendere questo passaggio che si trova nella sua esperienza
biografica fra le scuole di Guadix e la fondazione delle prime
Accademie".
Colloca
questa esperienza sotto il nome di Giano, il dio latino che dà il suo
nome al mese di gennaio (ianuarius) e che rimanda direttamente al
simbolo della porta (ianua- jamba).
E’
un’immagine già utilizzata in "La escritura encendida", per
parlare della letteratura povedana. Nel tempio di Giano, a Roma, secondo
la tradizione, c’erano due porte, l’una di fronte all’altra,
sempre aperte, tranne che in tempo di guerra.
Pego
Puigbò è attratto dalla visione delle porte aperte, perché lasciano
vedere "molto più in là di quello che gli occhi fisici ci
permettono". Aprirle, aggiunge, "è un vero servizio etico e
civico che, nel caso mio, è anche animato da un forte impulso
religioso, nel suo senso etimologico di legame con il carattere sacro
della realtà".
Con
l’opera già quasi terminata, l’autore commenta soddisfatto:
"Ho parlato di quello che volevo e mi sono lanciato con quello che
desideravo". Il suo "lanciarsi" lo ha condotto a mettere
in risalto come Poveda si colloca in mezzo al dibattito ideologico del
suo tempo, "aprendosi alle novità tecniche e professionali che la
"Institución Libre de Enseñanza" stava difendendo da circa
trent’anni" e mette in risalto anche "il debito del Poveda
pedagogo" verso questa stessa Istituzione.
Si
è arrischiato a scrivere sulla sua relazione con un altro sacerdote
innovatore, Andrés Manjón, "senza rifugiarmi nel luogo comune che
questi non comprendeva Poveda". E sostiene che le proposte che fa
Poveda "sebbene non sempre riescano, tuttavia sono completamente
moderne".
Però
soprattutto, dice, "mi sono azzardato a parlare del luogo da cui
credo che sorga l’Istituzione Teresiana e del suo carisma, nel cammino
iniziale fra le Accademie e la Institución Católica de Enseñanza
(ICE)".
Confessa
che "nello scrivere alcuni capitoli mi sono ritrovato alla fine
esausto", per l’esigenza di dover attendere alle ragioni dei suoi
interlocutori, e perché "dialogare con Poveda richiede prestare
molta attenzione al senso dei suoi silenzi".
Ora
si domanda se, una volta pubblicato, il suo libro avrà un’eco, però
afferma che almeno bisognerà fare i conti con esso. "Sono sicuro
che è una messa a fuoco nuova", aggiunge.
Non
è vanità né orgoglio di padre intellettuale, ma semplice gratitudine
verso un Padre Poveda estremamente generoso con me".
Testo e foto, ARACELI CANTERO GUIBERT
Traduzione Maria Cimino