La Storia di Massimo: Capitoli 91 – 95

 

 

Capitolo 91 - Sogni

- Psst, generale. Svegliati!

Massimo aprì gli occhi di scatto e guardò dritto nel viso in ombra di Cicero.
- Che c’è?  Che succede?

- C’è qualcuno nella tenda dell’imperatore. Vieni con me.

Massimo agguantò una tunica e, scalzo, seguì Cicero. Senza una parola, Cicero scostò il lembo di canapa della tenda e indicò la debole luce di una candela nell’angolo più lontano. La luce ondeggiante gettava misteriose ombre fluttuanti sui vari busti di marmo che riempivano la tenda, facendone apparire qualcuno vivo all’improvviso. La candela era in mano a Settimio Severo, che si spostava con lentezza, toccando con reverenza gli effetti personali dell’imperatore. La sua mano vagava da una superficie all’altra… dal marmo alla seta, al legno.

- Sta cercando di rubare qualcosa? - sussurrò Cicero.

- Non lo so, - rispose Massimo egualmente sottovoce. - Non credo che possa essere tanto stupido. Aspettiamo, e vediamo che cosa fa. Non voglio accusarlo ingiustamente, anche se si trova dove non dovrebbe.

Settimio si fermò e alzò lo sguardo sull’aquila dorata, collocata al di sopra della sedia riccamente ornata dell’imperatore. S’inchinò davanti alla sedia vuota poi, molto lentamente, si girò e si sedette sul trono.

Cicero ansimò. Massimo si fece cupo, ma trattenne il servitore mettendogli una mano sul braccio, poi gli pose un dito sulle labbra. Il generale avanzò strisciando lentamente per avere una migliore visuale delle azioni di quell’uomo. Settimio sedette per alcuni istanti con gli occhi chiusi poi allungò lentamente la mano come per salutare dei sudditi. Annuì con la testa come se stesse ascoltando qualcuno, poi fece altri gesti con la mano come per enfatizzare qualcosa. Sorrise e simulò una risata, poi allontanò con la mano l’immaginario suddito.

Silenziosamente Massimo mosse un passo all’interno della tenda, a non più di una mezza tenda di distanza dall’uomo, ma rimase nascosto nelle ombre scure al di là della poca luce della candela. Osservò ancora per qualche istante Settimio fingere di essere l’imperatore poi si schiarì bruscamente la gola. Settimio schizzò dalla sedia, torcendosi nell’aria per fronteggiare lo sconosciuto nell’ombra. In preda al terrore, fece cadere la candela sul tappeto di lana sotto il trono e Massimo si tuffò quand’esso cominciò a prender fuoco bruciando senza fiamma. I riflessi fulminei, Massimo afferrò la candela, rotolò e si rimise in piedi che era ancora accesa. Cicero fu tentato di applaudire. Settimio, invece, era bianco come il gesso, il respiro affannoso.

- Mi spiace averti spaventato, Settimio, ma il mio servitore ha visto una luce sulle pareti della tenda dell’imperatore e dovevo indagare. Tu capisci… - Massimo spinse la luce sotto il naso del pretore facendolo sembrare mostruoso. - L’imperatore non gradisce che qualcuno si sieda sulla sua sedia.

Settimio si portò una mano al cuore, ancora troppo scosso per parlare.

- Sai che ti dico. Perché non ti fai riaccompagnare da una guardia alla tua tenda, così che tu possa cercare di riposarti? Potremo riparlarne domattina. - A queste parole, apparve Cicero, con una lanterna in mano ed una guardia proprio dietro di sé. Settimio sembrava totalmente annichilito mentre si affrettava a lasciare la tenda davanti all’uomo armato.

Massimo all’improvviso si guardò i piedi, poi indietreggiò disgustato.
- Ha urinato sul tappeto! - Di colpo scoppiò a ridere forte e fu subito imitato da Cicero. I due uomini si sostennero a vicenda, piegati in due dal ridere, prima di crollare definitivamente sulle sedie a riguadagnare padronanza di sé. Massimo si asciugò con il dorso della mano gli occhi pieni di lacrime. - Credo che sia l’ultima volta che farà una cosa del genere. Forza, Cicero, torniamo a letto.

- Darò aria al tappeto domattina, - disse Cicero. - Non vogliamo che l’imperatore torni ad una tenda che puzza come una latrina.

Seguì Massimo verso l’entrata poi notò che le spalle del generale cominciavano a tremare.
- Forse aveva solo bisogno di liberarsi e ha scelto il trono sbagliato! - ridacchiò Massimo ed entrambi furono di nuovo scossi dalle risate, che si spensero solo molto tempo dopo che furono entrati nella tenda del generale.



Settimio non comparve a colazione la mattina dopo, però cercò Massimo più tardi, quando il generale si trovava con Quinto nella propria tenda ad occuparsi degli affari della legione. Il suo legato si era già informato riguardo le risate sfrenate che credeva di aver udito nel mezzo della notte, e Massimo aveva spiegato la situazione.

- Io… io devo scusarmi per le mie azioni la scorsa notte, generale, - disse il pretore in tono calmo ma non contrito. Ho avuto un sogno che mi ha indotto a fare quel che ho fatto. Tu sogni, generale?

- Qualche volta, - disse Massimo con voce pacata. Non voleva apparire ostile, ma non era nemmeno disposto a far credere a quell’uomo di esser stato perdonato.

- Io sì. Spesso. Credo che i sogni siano presagi che possono predire il futuro.

Massimo ricordò la sua conversazione con Marco Aurelio e osservò Settimio con curiosità.
- Anche tu credi nell’astrologia?

- Senza dubbio. Finora, la mia vita sembra essersi rivelata esattamente come pianificato, sebbene io sia piuttosto impaziente di raggiungere lo stadio successivo.

 - Che cos’hanno a che fare i tuoi sogni con le tue azioni della scorsa notte?

- Tutto, in realtà. Non molto dopo essermi addormentato, ho sognato che l’imperatore mi chiedeva di andare da lui.

- E quando hai raggiunto la tenda buia non ti sei reso conto che era soltanto un sogno e nulla più?

- Massimo, tu non capisci. Non si possono prendere i sogni alla lettera ed essi sono ben lungi dall’essere semplici. Il mio sogno significava che l’imperatore stava pensando a me, proprio in quel momento, e io sentivo il bisogno di avvicinarmi a lui in qualche modo, per far sì che i suoi pensieri su di me diventassero ancor più nitidi. Ero in uno stato di dormiveglia quando mi hai svegliato così bruscamente. Non avevo realmente il controllo delle mie azioni.

Massimo riconosceva una menzogna quando la udiva. Lanciò un’occhiata a Quinto che stava fissando il pretore con interesse.

- Ero così scosso, - continuò Settimio, - che mi ci è voluto un bel po’ per riaddormentarmi… ecco perché ho dormito fino a tardi quest’oggi. Ma, dopo, ho fatto un altro sogno. - L’espressione di Settimio cambiò e ora osservava Massimo con curiosa circospezione. - Era su di te.

- Davvero? - Massimo non era certo di quanto ancora avrebbe lasciato durare quel gioco.

- Lo vuoi sentire?

Massimo alzò le spalle e Quinto annuì con avidità, senza mai distogliere lo sguardo da quell’uomo.

- Ho sognato che il lupo di quel tuo mantello di pelliccia tornava in vita e ti divorava. Tu lottavi e riuscivi a ferire mortalmente il lupo con la tua spada, ma perdevi anche la lotta e cadevi morto, sanguinando, con i suoi denti sepolti nel tuo fianco. Tu sollevavi il braccio, tuttavia, e la tua spada volava nell’aria come se avesse le ali e cadeva dalle nuvole finché atterrava nella mano alzata del tuo figlio più giovane mentre il maggiore urlava in agonia.

Massimo osservò Settimio con un’espressione divertita anche se trovava le parole del pretore piuttosto sconvolgenti.
- Io ho solo un figlio, Settimio, - disse calmo.

Il pretore si limitò a fissarlo. Anche Quinto guardò il generale a bocca aperta.

Massimo guardò da un uomo all’altro.
- Se ci vuoi scusare, adesso, Quinto ed io abbiamo dell’altro lavoro.

Settimio annuì e uscì dalla tenda, ma non prima di aver fissato intensamente Massimo con una lunga occhiata pensosa.

Quinto lasciò andare un respiro trattenuto.
- Era inquietante. Che cosa credi che significhi?

Massimo fissò l’entrata vuota.
- E’ un uomo ambizioso, Quinto, e io so già quanto pericoloso possa essere un uomo ambizioso. - Guardò il suo legato che lo stava fissando con aria interrogativa. - Rimettiamoci al lavoro.

Diario di Giulia: L'incontro con il generale Massimo

Capitolo 92 – L’avamposto

Massimo riprese ad esaminare le righe di cifre, ma era evidente che Quinto non era in vena di concentrarsi. Continuò a lanciare occhiate oblique a Massimo fingendo di guardare le statistiche.

Alla fine Massimo rinunciò e si appoggiò indietro nella sedia.
- Che ti passa per la testa, Quinto?

Il legato fu rapido a rispondere all’invito a conversare.
- Quel sogno, Massimo. E’ davvero inquietante.

- Lo è di certo, per qualcuno, - rispose Massimo in tono sarcastico.

Quinto si mise sulla difensiva.
- Be’, se a te non dà fastidio, invece dovrebbe.

- Perché? Che cosa sa Settimio, di me? Non sapeva nemmeno che ho un figlio, fino a ieri, poi lui si è sognato che ne ho due. - Massimo sospirò. - L’ho sorpreso a fare qualcosa che presumibilmente non doveva fare e sta semplicemente cercando di innervosirmi per rendermi la pariglia. Non funzionerà.

Quinto insisté.
- Potresti avere un altro figlio in futuro. Il che vorrebbe dire che gli eventi del suo sogno accadranno presto…

- Quinto, - lo interruppe Massimo, - Settimio è in vacanza e in missione. E’ un uomo piccolo con un grande obiettivo e un ego ancora più grande. Ce ne sono probabilmente a centinaia come lui nell’impero. Persino se davvero riuscisse a incontrare Marco Aurelio, non riesco ad immaginare Cesare tollerarlo molto a lungo. Il nostro imperatore è ottimo giudice della natura umana.

- Ma…, - cominciò Quinto, poi si fermò quando Cicero entrò nella stanza.

- Scusami, generale. Questo è appena arrivato da parte dell’imperatore ed è urgente. - Cicero porse a Massimo il documento, fece un cenno del capo a Quinto e indietreggiò nell’ombra.

Massimo verificò se il sigillo fosse autentico poi cominciò a leggere. Un lento sorriso si diffuse sul suo volto, poi egli sbuffò.
- Senti qua, Quinto. Cesare ha rimandato Commodo a Roma. Sembra che persino il suo stesso padre non riesca a sopportare di averlo intorno. - Quinto mostrò un sorriso educato. Mentre Massimo continuava a leggere, la sua espressione mutò da gaia soddisfazione a grande preoccupazione. - Cicero! - chiamò Massimo.

- Signore?

- Partirò tra pochi giorni per una o due settimane. Farai in modo che tutto sia pronto?

- Posso chiedere dove stai per recarti?

- In territorio germanico. - Massimo guardò un Quinto dall’aria sorpresa. - Ancora una volta, amico mio, lascio la legione nelle tue mani capaci.

Gennaio 178 d.C.

Massimo, in sella a Scarto, era insieme ad un centinaio di cavalieri armati, le sue pellicce ed il mantello stipati nella sacca. Aveva preferito non informare i ranghi, mentre attraversavano l’insicura zona demilitarizzata situata tra il campo base romano lungo i fiumi Reno e Danubio e gli insediamenti tribali nelle profondità del territorio barbaro.

Massimo visitava raramente questi avamposti romani, dal momento che Marco Aurelio aveva lasciato la loro amministrazione ai generali minori, permettendo a Massimo di concentrarsi sulla strategia militare per l’intera frontiera settentrionale. Gli avamposti erano abitati da truppe ausiliarie e coorti che si avvicendavano. Il loro scopo era di instaurare una presenza romana nel territorio e di tenere sotto controllo le aggressive tribù locali, negoziando costantemente con esse… e, se questo falliva, costringendole alla sottomissione con scorrerie sul bestiame, villaggi bruciati e cattura di ostaggi. Queste tattiche erano impiegate di rado, perché Germani e Romani avevano imparato a tollerarsi a vicenda e perfino a mescolarsi, imparentarsi per matrimonio e scambiare traffici e commerci. Di solito c’erano pochi fastidi in quel periodo dell’anno, dato che ognuno era preoccupato semplicemente di sopravvivere ai crudeli inverni del Nord.

Eppure, qualcosa era andato terribilmente storto. Un generale romano era scomparso e i romani si erano vendicati catturando la figlia di un capo tribù. Le nobildonne germaniche erano tenute in alta stima dal loro popolo e la tribù dei Catti era terribilmente sconvolta, e sosteneva di non saperne nulla, del generale. A rendere peggiori le circostanze, la donna affermava di essere stata stuprata da alcuni soldati romani, i quali tutti negavano che il fatto fosse accaduto. La situazione era bollente e Cesare si rendeva conto che Massimo doveva cavarsela da solo e prevenire l’intensificarsi dell’ostilità che avrebbe potuto dilagare come un incendio per tutto il territorio germanico. Massimo sperava che non fosse già troppo tardi.

Si raddrizzò sulla sella, il fiato raggelato nell’aria, grato per l’assenza di neve ed il cielo terso. Era avvolto in tuniche pesanti, brache di lana ed un mantello che lo copriva dalle spalle alle ginocchia. Strisce di pelle erano avvolte intorno alle sue dita per preservarle dal congelamento ed i suoi piedi erano protetti da strati di lana sotto gli stivali. In testa calzava un semplice elmo per trattenere il calore. Poco prima di raggiungere l’avamposto, si sarebbe cambiato, indossando la sua imponente uniforme da generale per contribuire ad instaurare la propria autorità fin dall’inizio.

Dopo una notte accampati sotto le stelle, arrotolati in parecchie coperte e accalcati il più possibile vicino ai fuochi, gli uomini scorsero la torre di pietra in lontananza sul tardi del secondo giorno. Si fermarono per riposare mentre Massimo si metteva la corazza d’ottone, il mantello e le pellicce, poi drizzarono lo stendardo dell’aquila dorata di Roma e si avvicinarono all’avamposto, le mani vicine alle spade e i corpi in posizione per afferrare rapidi l’elsa, se necessario.

L’avamposto era molto piccolo e primitivo paragonato alle fortezze romane dove gli uomini disponevano di lussi quali i bagni pubblici, ma non era molto peggiore dei campi base dove i soldati trascorrevano la maggior parte del tempo. Vi si trovavano tutte le cose necessarie, ma non i lussi. Era un avamposto militare e nient’altro, anche se molto più confortevole dell’originario fortino in torba e legno che a suo tempo si era trovato in quel punto.

Invece d’incontrare tensione nella tribù, tuttavia, tutto sembrava calmo… almeno finché una pietra scagliata dalla fitta boscaglia a lato della strada andò a scaraventarsi contro la testa di Scarto appena sotto l’orecchio, inducendo il cavallo a nitrire di dolore e ad impennarsi pressoché in verticale, quasi disarcionando il suo cavaliere che disperatamente si afferrò alla criniera dell’animale.  Scarto ricadde sul terreno scrollando selvaggiamente la testa e spruzzando di sangue Massimo. Mentre sia il cavallo che il cavaliere rimanevano fermi, scossi da tremiti, due soldati caricarono nella macchia e presto tornarono con il colpevole tenuto sospeso in mezzo a  loro. Era un ragazzo di non più di dodici anni che scalciava e malediva i soldati e i loro cavalli.

Appena Massimo smontò avvicinandosi, il corpo magro del ragazzo si contorse ed egli sputò proprio sul viso del generale; lo sputo colpì la guancia destra del generale prima di gocciolargli nella barba. Egli se la ripulì lentamente con il dorso della mano. Infuriato, uno dei soldati che tenevano il ragazzo lasciò la presa e con brutalità diede un manrovescio al ragazzo che ruzzolò a capofitto nella strada gelata.

- Basta così! - disse Massimo afferrando il ragazzo dal dorso dell’abito e tirandolo in piedi. - E’ solo un bambino. - Una folla di curiosi si era raccolta e molte persone squadravano incolleriti il generale romano che tratteneva il bambino spaventato con il labbro spaccato. Senza alcuno sforzo, Massimo alzò il giovane ribelle con un braccio e lo passò ad un altro soldato che lo mise a pancia in giù di traverso sulla sella. - Mettilo nella prigione dell’avamposto per qualche ora a fargli raffreddare i bollori.

Massimo tornò da Scarto tra lo scherno della folla e strofinò il naso vellutato dello stallone mentre esaminava la ferita sanguinante. Era profonda e richiedeva attenzione immediata. Finora non era andata per niente bene. Proprio per niente.



- Dimmi che cosa è accaduto. - Massimo sedeva nella fredda stanza principale dell’avamposto, con il centurione anziano ed uno scrivano al quale era stato ordinato di trascrivere ogni parola detta.

- Vidi per l’ultima volta il generale Pollieno ventitré giorni fa… verso la fine di dicembre. Lo incontrai al mattino ed egli andò via dopo il pasto di mezzogiorno per fare un giro dell’avamposto.  Nessuno lo ha più visto da allora.

- Di che cosa parlaste quella mattina?

- Niente d’insolito. Sole di cose abituali, come i bisogni dell’equipaggiamento e i problemi del personale.

- Ci sono gli stessi soldati qui, ora, che c’erano anche allora?

- Sì. Ci siamo assicurati che nessuno se n’andasse.

- Hai accennato a problemi del personale. Che cosa comportano?

- Anche qui, niente d’insolito. Soltanto normali conflitti di personalità e discussioni sulla proprietà. Niente di serio, davvero.

- Come sono stati risolti questi problemi?

 L’uomo si mosse a disagio. La penna dello scrivano graffiò il papiro.
- Non capisco cosa intendi.

- Tutte le parti erano soddisfatte della soluzione?

- Sì. Immagino ci fossero dei rancori, ma niente…

- D’insolito, - concluse per lui Massimo.

Il centurione s’irrigidì.
- Sì.

- Mi dispiace, Oranio. E’ solo perché ancora nemmeno io so se sia a proposito di una disgrazia, una diserzione o un assassinio che stiamo investigando.

- E’ assassinio, generale.

- E come lo sai?

- Che altro dovrebbe essere? Questi barbari ci disprezzano. Hanno visto un’opportunità di uccidere il nostro comandante e l’hanno colta.

- Ci sono testimoni?

- No.

- Dunque, la tua teoria è pura congettura.

- Congettura basata sull’esperienza… signore.

- Temo d’aver bisogno di qualcosa di più prima di poter accusare la gente di assassinio. Per cominciare, ho bisogno di un cadavere.

- L’abbiamo cercato, signore, ma non siamo riusciti a trovarlo. Probabilmente è stato fatto a pezzi e bruciato.

Massimo si strofinò il mento barbuto.
- Perché avete rapito la nobildonna dei Catti?

- La terremo finché non si farà avanti il colpevole.

- Afferma di essere stata violentata.

- Violentata! - esclamò con disprezzo Oranio. - Nessuno l’ha violentata… ma le starebbe bene se l’avessero fatto! E’ una cagna!

Massimo s’irrigidì.
- Lo stupro è uno degli atti più biasimevoli che un uomo possa commettere e non c’è mai alcuna giustificazione per esso.

- Non è accaduto.

- La donna è stata visitata da un medico?

- No.

- Perché no?

- A che pro?

- Avrebbe dovuto essere esaminata in cerca di segni di violenza, di contusioni…

- Probabilmente è stata maltrattata quando fu catturata. Il che non prova niente.

Massimo osservò la faccia risentita di fronte a sé.
- D’accordo, Oranio, ecco che cosa succederà. Interrogherò ogni soldato, ad uno ad uno, e non voglio scoprire che mi daranno tutti la stessa versione usando identiche parole… se capisci cosa intendo. Voglio anche parlare con la donna catti per avere la sua versione dei fatti. Voglio due traduttori con me quando lo farò… uno romano e uno catti.

- Non sarà necessario. La cagn…, la donna parla latino.

- Bene, ciò rende le cose un po’ più facili. Dai le disposizioni, per favore. Comincerò a parlare con i soldati per prima cosa domani. Puoi andare. - Oranio lanciò un’occhiataccia a Massimo prima di uscire dalla stanza, sbattendo la porta dietro di sé. Massimo guardò il giovane soldato che faceva da scriba. - Be’, credo che almeno lui sarà molto collaborativo. Quest’indagine sarà spiccia.

Il giovane sorrise comprensivo.

- Anche tu puoi andare, soldato, ma avrò di nuovo bisogno di te domani.

- Grazie, generale. - Tario radunò i documenti. - Se posso dirlo, signore… non si è mai visto un ufficiale della tua levatura da queste parti… perciò quelli che sono già qui possono pensare che la loro autorità stia per essere usurpata.

- Lo è.

Tario fissò il viso serio di Massimo poi osservò il lento sorriso allargarsi sui lineamenti forti del generale, ammorbidendone all’istante il contegno austero.

Tario rise.
- Sì, suppongo che lo sia. Dormi bene, generale.

Massimo posò i gomiti sullo scrittoio di fronte a sé e si passò le dita tra i capelli cortissimi, sospirando profondamente, improvvisamente sopraffatto dalla stanchezza. Chiuse gli occhi. Pochi istanti dopo la testa ricadde bruscamente quando egli si raddrizzò, sforzandosi di tenersi sveglio. Udì risate dall’ingresso e concentrò lo sguardo velato sulla figura laggiù.

- Scusami, generale, - ridacchiò Tario, - ma qualcuno ti ha mostrato dove devi dormire?

Massimo appoggiò il mento nei palmi delle mani per sostenere la testa, sorrise mestamente, e scosse il capo.

- Suppongo che potresti dormire sullo scrittoio, generale, ma credo di poterti trovare un posticino più confortevole. L’avamposto è piuttosto affollato ma sono certo che troveremo un posto dove potrai stare un po’ da solo. Credo che la stanza del generale sia disponibile, - disse Tario senza traccia d’ironia.

Massimo seguì il giovane soldato nell’ingresso, grato di trovare almeno un viso amichevole in quell’avamposto solitario.

La stanza del generale era ben più lussuosa di quanto Massimo si aspettasse. Non era grande, ma era arredata e approntata con opulenza.
- E’ stato spostato qualcosa, qua dentro? - chiese Massimo a Tario.

- Non lo so, signore. E’ possibile.

Massimo diede un’occhiata intorno alla stanza e scorse un paio di scarpe da donna sul pavimento vicino al letto.
- Il generale era sposato?

- Sì.

- Sua moglie stava qui con lui?

- No. Sta a Roma, credo.

Massimo raccolse le scarpe.
- Allora queste appartengono a…?

- La sua amante.

- E dov’è?

- Scomparsa anche lei.

- Quando?

- Nello stesso momento in cui è scomparso il generale.

- Capisco. Suppongo che il non averne fatto menzione sia stata una lieve svista da parte di Oriano.

- Lieve, signore, - concordò Tario.

Massimo si mise le mani sui fianchi e guardò la stanza. C’era ancora molto da fare prima di potersi riposare, quella sera.
- Grazie, Tario. Arrivederci a domattina.

Diario di Giulia: L'alcova

Capitolo 93 - Un vecchio amico

Per mezzogiorno Massimo aveva interrogato metà dei soldati dell’avamposto; entro metà pomeriggio aveva quasi finito… e non era arrivato ad alcuna conclusione. Alcuni soldati si tenevano sulla difensiva, come Oranio, altri fingevano di non sapere nulla, e molti erano talmente in soggezione per la presenza di un così gran soldato da riuscire appena a parlare. Egli fece affidamento sull’onnipresente Tario per una minuziosa documentazione.

- Il prossimo, - disse Massimo, il capo chino mentre scriveva qualcosa. Un altro soldato si sedette sul lato opposto dello scrittoio. Il generale alzò lo sguardo poi riguardò i propri appunti. - Nome?

- Non mi riconosci, Massimo, vero?

Con un sussulto, Massimo alzò di nuovo la testa e aggrottò la fronte studiando l’uomo che aveva di fronte. Lo conosceva?

Il soldato sorrise comprensivo e imitò la voce piagnucolosa di un bambino:
- Ti ho mai detto che mi è stato dato il nome dell’imperatore?

Massimo restò a bocca aperta.
- Lucio? Lucio? - ripeté.

Lucio fece un gran sorriso.

Massimo si slanciò dalla sedia e aggirò lo scrittoio in un lampo, trascinando in un abbraccio il suo amico d’infanzia.

- Mi stai spezzando la schiena! - gemette Lucio con quel po’ di respiro che riuscì a radunare, e Massimo immediatamente rilasciò la pressione, ma continuò a tenere le spalle di Lucio mentre lo guardava attentamente.

- Sei… sei così diverso, - Massimo rise notando la testa calva e la pancia prominente dell’uomo.

- Anche tu. Quello che io ho perso sulla testa tu l’hai guadagnato sul viso. - Lucio tirò gentilmente la barba di Massimo. - Non indossavi certo quel genere d’indumenti l’ultima volta che ti vidi. E anche la tua voce si è abbassata un pochino. Sebbene riconoscerei quegli occhi ovunque.

- Vieni a sederti. - Massimo trascinò la sedia del soldato dal suo lato dello scrittoio e fece cenno a Lucio di sedersi. Quando lo fece, il generale colse la vista di un gruppo di uomini radunati all’entrata che si sforzavano di vedere che cosa stesse accadendo e con impazienza li scacciò con un gesto della mano.
- Che stanno fissando? - borbottò.

- Sono terrorizzati da te e non riescono a credere che io ti abbia appena dato un pizzicotto alla barba, - sorrise Lucio. - Ho detto loro che ti conobbi quando da ragazzi eravamo insieme nell’esercito e non mi hanno creduto. Sono qui per vedermi mentre mi rendo ridicolo. Grazie per non aver lasciato che accadesse.

- Tario, - Massimo si rivolse allo scrivano, - dai al mio amico e a me un po’ di tempo in privato insieme. Parlerò ai soldati rimanenti più tardi.

- Non credo proprio. Lui è l’ultimo, - disse il giovane radunando gli appunti e lasciando la stanza, chiudendo con fermezza la porta dietro di sé.

- Oh… bene, - sospirò Massimo. Si strattonò le pellicce e il mantello e li lasciò cadere sul pavimento. - Mi stavo stancando… e annoiando. - Sorrise a Lucio. - Abbiamo molto di cui parlare e… per favore… chiamami Massimo. E’ così bello rivederti. Da quanto tempo sei qui?

- Dodici anni.

- Cosa?

- E’ così. Prima ero in un avamposto in oriente. Tutto qui. Fine della mia storia.

- Questo è un luogo brutale per viverci tanto a lungo. Credevo che gli uomini si avvicendassero più spesso di così.

- L’esercito regolare lo fa. Io sono in quello ausiliario, ricordi? Seconda classe in ogni caso. - Non c’era amarezza nelle sue parole e Lucio rise allo sguardo incuriosito sul viso dell’amico. - Non è così brutto, Massimo. Stare in un posto tanto a lungo ti permette di mettere radici. Ho una famiglia qui.

- Una donna germanica? - tirò ad indovinare Massimo.

- Sì. Abbiamo quattro figli. Tre femmine e un maschio… Tu?

- Ho una moglie in Ispania, e un figlio, Marco.

- Tuttavia… sei d’istanza in Germania.

Massimo annuì con tristezza.
- Non ci vediamo spesso. A volte passano anni tra una visita e l’altra.

- Mi dispiace sentirlo. Per certi aspetti la mia vita è meglio della tua, allora, - osservò Lucio.

- Potresti aver ragione.

- Che cosa è accaduto a quel miserabile Quinto?

Massimo ridacchiò.
- E’ il mio legato.

- Vuoi dire che tu sei il suo superiore?

Il sorriso del generale non vacillò.

- Ahhh… questa sì che è vera giustizia. Ma, com’è successo? Tu venivi da famiglia d’umili origini.

- Sì, ma l’imperatore fece in modo che fossi adottato da una famiglia senatoriale così che potessi arrivare dove sono adesso.

- Puoi spingerti ancora più in là.

- Non m’interessa, - disse Massimo poi distolse la conversazione da sé. - Che cosa fai qui?

- Ho scoperto di essere bravo con le lingue. Sono il traduttore principale, perché parlo molti dei dialetti germanici. Non sono un combattente. Non sono abbastanza grosso o forte per quello. Mia moglie è felice così.

- Traducevi per il generale Pollieno?

- Sì.

- Perciò… lo conoscevi piuttosto bene?

- Quanto chiunque altro. Non era molto amichevole… stava sulle sue.

Massimo si appoggiò indietro nella sedia e fissò intensamente il suo amico.
- Mi sei stato inviato dagli dei, Lucio.

- Mi farà piacere aiutarti in qualunque modo mi sia possibile, Massimo, ma temo di non sapere molto di più di chiunque altro.

- Credi che sia stato assassinato?

Lucio si strinse nelle spalle.
- Non ne sono sicuro.

- Che cosa credi?

- No, non credo che sia stato assassinato. - Lucio lanciò un’occhiata alla porta chiusa. - Massimo, un avamposto è una piccola comunità romana ai margini di un vasto mare di popoli che vorrebbero vederci andar via. Siamo isolati. Il resto dell’esercito non presta troppa attenzione a noi finché qualcosa non va storto. Perciò… può essere un gran posto per un uomo avido per incoraggiare le sue ambizioni. Perfetto per la corruzione. - Massimo annuì, incoraggiandolo a continuare. Lucio si chinò in avanti, gli avambracci sulle ginocchia, e abbassò la voce guardando Massimo con fervore. - Ho avuto altre responsabilità qui. Ho lavorato nei magazzini per un po’. Il contabile venne da me e mi fece alcune domande. Aveva trovato delle irregolarità. Quando le fece notare al generale, fu trasferito da qualche altra parte e io fui rimosso da quella posizione.

Massimo si spostò in una posizione che imitava quella dell’amico, i loro visi vicini.
- Che genere di irregolarità? - chiese pacato.

- Rifornimenti che non coincidevano con gli ordini. Registri non bilanciati.

- Qualcuno stava rubando i rifornimenti?

- Così sembrava.

- Perché? Per venderli?

- Probabilmente. C’è grande domanda tra i germani di forniture romane. Pagano bene.

- Come pagano? La loro moneta non ha valore da noi.

- Donne… e bambini. Fanciulle e ragazzini.

- Cosa! - Massimo si mise la testa tra le mani e parlò al pavimento. - Un commercio di schiavi. Il generale Pollieno si è riempito le borse prima di scomparire?

- E’ altamente possibile.

- E la denuncia della sua scomparsa potrebbe essere semplicemente una copertura. Se fosse questo il caso, allora anche Oranio può essere implicato… e ce ne sono altri probabilmente. – Massimo si riappoggiò alla sedia, chiuse gli occhi e scosse la testa - Perché le tribù dovrebbero vendere le loro stesse donne e i loro stessi figli?

- Non lo fanno. Li catturano da altre tribù.

- Alimentando così la discordia tra le tribù.

Lucio annuì.
- Combattono tra di loro per tutto il tempo fino a che c’è un nemico comune, poi è stupefacente quanto in fretta possano unirsi.

- L’amante di Pollieno… era davvero una schiava?

- Sì.

- Quindi, egli è convenientemente scomparso con un sacco di denaro proveniente dalla vendita di schiavi e nessuno lo cerca perché si presume che sia stato assassinato. Poi i Catti vengono accusati della sua scomparsa, per coprire tutto, e la figlia del capo tribù viene rapita come messinscena per Roma.

- Intelligente, eh?

- So che non sai molto di quello che sta accadendo al di fuori di questo avamposto, Lucio, ma l’intera frontiera settentrionale sta fumando come un vulcano e non ci vorrà molto prima che un incidente come questo dia inizio all’eruzione. - Massimo scosse la testa con aria infelice. - Le ripercussioni di questi eventi potrebbero essere davvero molto serie.

- Dubito che al generale Pollieno importi. Probabilmente si trova in qualche angolo sicuro dell’impero, adesso. Britannia, senza dubbio. Scommetto che anche Oranio stava progettando di scomparire. Poi sei arrivato tu a rovinare tutto.

- Sono abituato a farlo, - Massimo sorrise brevemente, poi la sua espressione ridiventò seria. - Ci sono segni di agitazioni tribali proprio fuori dell’avamposto. Che cosa accadrebbe se semplicemente liberassimo la donna catti per placare la sua gente?

- Accusa di essere stata stuprata, non dimenticarlo.

- Hai idea se sia vero?

- Non lo so. Molto francamente, Massimo, a pochi uomini qui importa che lo sia stata o meno. La considerano come niente più di una barbara.

- Tu sei sposato con una donna germanica. Nessun altro ha fatto lo stesso?

- Pochi. Le coorti tendono a cambiare ogni anno. Quei soldati non si curano delle donne locali, tranne che per soddisfare la loro lussuria. Sono solo gli uomini dell’esercito ausiliario… come me… che si sono sposati.

- Quindi la tribù esigerà un risarcimento per lo stupro. Quale potrebbe essere?

- La morte dell’uomo, o degli uomini, che l’hanno perpetrato.

- E se non sappiamo chi è stato?

- Allora chiederanno di scegliere un paio di soldati, e li tortureranno a morte.

- Uomini innocenti, forse.

- Forse. - Lucio si piegò e diede un colpetto al ginocchio di Massimo. - Hai proprio un bel guaio tra le mani, amico mio.

Massimo si strofinò gli occhi come cercando di scacciare un mal di testa.
- Sono più abituato a maneggiare le armi che la diplomazia.

- Sono certo che sei esperto in entrambe le cose, - replicò Lucio con ammirazione sincera nella voce.

- Anni fa… quando eravamo ragazzi… chi mai avrebbe immaginato che saremmo arrivati in queste posizioni.

- Il tuo essere diventato generale… e comandante di tutte le legioni settentrionali… non mi sorprende per niente. Persino allora, sapevo che eri speciale.

Massimo aveva l’aria perplessa.
- Io non l’avevo capito. Altri sì, ma io no.

- Un uomo buono raramente riconosce la grandezza in se stesso.

- Quando hai cominciato ad essere così filosofo?

- Le lunghe, fredde notti invernali germaniche fanno questo ad un uomo. O questo, o lo riducono alla pazzia.

- Mi dispiace che l’esercito non abbia capito il tuo potenziale. - Massimo all’improvviso sorrise, indicando il lupo sulla corazza e alzò le sopracciglia. - Posso porvi rimedio, sai, - sussurrò con fare cospiratorio.

Lucio rise.
- Grazie, Massimo, ma io appartengo a questo luogo ora. Ho la mia famiglia, e questo mi basta.

Massimo annuì, lo sguardo distante.
- Basta a chiunque.

Diario di Giulia: La notte nella sua tenda

 

Capitolo 94 - L’ostaggio

Massimo aprì la massiccia porta di legno poi rapido si abbassò quando vide di sfuggita qualcosa scagliarsi contro la sua testa. Il piatto s’infranse contro il muro riversando cocci sul generale mentre le due guardie si lanciavano attraverso la stanza, ghermivano i polsi della donna e le immobilizzavano le braccia contro il muro di pietra. Ella strepitò contro le guardie in una lingua che Massimo non capì, poi volse lo sguardo su di lui mentre egli lentamente si raddrizzava, spazzolando via i cocci dal mantello di pelliccia, e le si avvicinava. Non le si approssimò a più di due braccia di distanza, ma lei riuscì ugualmente a sputare su di lui, centrandolo sulla guancia destra. Lucio e Tario rimasero senza fiato a quell’oltraggio, ma Massimo si limitò a sospirare e si strofinò il viso contro la spalla impellicciata.
- Credo di aver conosciuto tuo fratello, - mormorò, poi ordinò alle guardie di legarla ad una sedia.

Girò le spalle alla donna berciante e afferrò un’altra sedia di legno grezzo che piazzò proprio oltre la distanza del calcio di lei. Girando la sedia in senso inverso, si sedette con gli avambracci posati con gesto pratico sullo schienale e le gambe calzate da stivali allungate a cavalcioni.
- So che parli il latino, mia signora, perciò perché non procediamo con esso?

Ella alzò le sopracciglia e finse ignoranza. La donna catti era di media altezza, snella, con sottili capelli castani stopposi e la faccia sporca. I suoi abiti erano di semplice lana marrone e molto sporchi. I piedi sudici erano nudi. Un forte, aspro sentore emanava da lei, facendo contrarre le narici di Massimo. Non c’era nulla di veramente notevole in lei, eccetto gli occhi, di un azzurro bruciante, che la dicevano lunga su quello che le sarebbe piaciuto fare al generale romano. Lo insultò nella propria lingua nativa e in latino, e sputò di nuovo nella sua direzione, stavolta mancando di poco il bersaglio.

Massimo in apparenza rimase freddo.
- Il mio nome è generale Massimo Decimo Meridio. Sono il comandante delle legioni settentrionali dell’esercito romano. Sono qui per la scomparsa del generale Pollieno e per il tuo rapimento. Sto investigando su entrambi, e anche sulla tua accusa di stupro da parte di soldati romani.

Lei gli lanciò uno sguardo sprezzante.

- Ti chiami…?

- Non sono fottutissimi affari tuoi.

Massimo sbatté due volte le palpebre e inconsciamente si raddrizzò. Questa era una nobile catti?
- D’accordo. Dovrò semplicemente chiamarti ‘mia signora’, allora.

Lei sorrise beffardamente.

Lui si sforzò di rilassare le spalle.
- Vorrei che mi raccontassi quello che ti è accaduto.

- Ho già riferito la mia storia, - disse, la voce incerta per l’amarezza.

- Non a me, e vorrei sentirla direttamente da te piuttosto che dai soldati.

- Perché, generale… ti farà eccitare?

- Per niente, te l’assicuro, - rispose Massimo senza esitazione, ma decise di provare un’altra tattica. - Hai fame?

- Cosa te ne frega, - chiese lei tagliente gettando indietro la testa nel tentativo di togliersi dagli occhi erranti fili di capelli.

Massimo fece perno sulle spalle e si rivolse agli uomini dietro di sé.
- Guardie, fa freddo qua. Accendete un fuoco. Lucio, vedi se riesci a trovarle degli indumenti puliti, e Tario, porta del cibo e del vino. - Gli uomini silenziosamente sfilarono fuori dalla stanza per eseguire l’ordine del generale.

- Vuoi restare solo con me, generale?

- Non particolarmente.

- Perché, hai qualcosa che non va?

- No, semplicemente non trovo attraenti le donne ossute, sporche e sboccate.

Lei fu momentaneamente colta alla sprovvista poi si rianimò e sferrò un altro attacco.
- Senza dubbio le tue puttane indossano gli indumenti più fini e fanno il bagno nel profumo ogni giorno.

Lui non intendeva abboccare.
- Te lo chiedo di nuovo… che cosa ti è successo?

- Che cosa sembra che sia successo, stupido romano. - La donna fece per incrociare le braccia ma le corde la tennero ferma, così scalciò la sedia per la frustrazione.

Massimo cercò d’indovinare quanti anni avesse. Sedici? Diciassette? Nonostante la sua sbruffoneria, non era altro che una spaventata fanciulla in disordine.
- Chi ti ha portata qui? - chiese con gentilezza.

Lei serrò la bocca.

Lucio ritornò con il cibo.

- Posalo là, per favore. - Massimo indicò il tavolo accanto alla donna. Lei non poteva raggiungere il cibo, ma ne sentiva l’odore.

Guardò con cipiglio Lucio poi osservò Massimo con le sopracciglia alzate.
- E’ il tuo schiavo? - chiese con sarcasmo.

- No, è mio amico.

- Tu hai degli amici, generale. E’ sorprendente quante cose possa comprare una pretenziosa uniforme, vero?

Massimo riconobbe la sua perspicacia con un cenno del capo.
- Vuoi qualcosa da bere?

Lo sguardo di lei sfrecciò verso il tavolo poi ritornò sul viso di lui. Rimase in silenzio, cercando di fargli abbassare lo sguardo.

- Rispondimi, poi potrai mangiare e bere.

Involontariamente, lei deglutì, ma non disse nulla.

La pazienza di Massimo era agli sgoccioli.
- Scusami, mia signora, - disse alzandosi e stando a gambe divaricate, - ma puoi far sapere alle guardie quando sarai pronta a parlarmi. Fino ad allora, ho cose migliori da fare con il mio tempo. - Roteò la gamba sopra la sedia e si diresse verso la porta.

Lei l’osservò diffidente, non credendo del tutto che se ne sarebbe andato.

Lui se n’andò.

Dall’esterno della porta Massimo fece un cenno a Lucio poi gli si rivolse in un sussurro dopo che la porta fu chiusa, anche se lei non sarebbe stata in grado di udire.
- Lucio, quella donna puzza. Quand’è stata l’ultima volta che si è fatta un bagno e cambiata i vestiti?

- Settimane fa. Non si toglierà gli abiti per nessun motivo.

- Be’, se è stata stuprata, è comprensibile. Ma, non posso sedermi di nuovo là a parlare con lei finché non sarà meno odorosa.

Lucio annuì e disse con aria pensosa.
- Mia moglie potrebbe esser d’aiuto.




Un’ora dopo sul pavimento della stanza da letto c’era una tinozza piena d’acqua calda, con sapone e soffici teli impilati accanto, insieme ad abiti semplici ma puliti. La graziosa paffuta moglie di Lucio, Erika, sorrise all’ostaggio con aria incoraggiante, arrotolandosi le maniche, preparandosi all’azione. Lucio teneva d’occhio le loro azioni da una sedia nell’angolo e due guardie stavano in piedi proprio fuori della porta chiusa.

- Che cosa credi di fare? - chiese la donna legata, nella propria lingua. Riconobbe la moglie di Lucio.

- Mi preparo ad aiutarti a fare il bagno, mia signora. Il generale pensa che puzzi.

Lei spalancò gli occhi per la sorpresa e ruggì oltraggiata.
- Come osi stare dalla sua parte. Tu sei una di noi!

- Anch’io penso che puzzi. Che fine ha fatto il tuo orgoglio, mia signora?  Ti presenti come una sciattona, non la signora che sei.

- E tu sei sposata con un romano! - accennò con la testa in direzione di Lucio. - Tu sei una traditrice del tuo popolo!

- Nessuna traditrice, mia signora. Semplicemente una moglie e madre felice che capisce ciò che è importante nella vita. Ora… andiamo a farti il bagno, d’accordo?

I commenti sul suo odore l’avevano evidentemente punta nell’orgoglio. L’ostaggio, risentita, guardò Lucio.
- Digli di andarsene, - ordinò a sua moglie.

- Non ho intenzione di lasciare mia moglie sola con te, mia signora. Non ho voglia di guardare, ti assicuro, - replicò Lucio con convinzione.

- Allora gira la sedia dalla parte del muro!

Lucio sospirò e fece come gli fu ordinato. Qualche istante dopo udì l’acqua sciaguattare nella tinozza.




Lucio trovò Massimo in cima alla torre di pietra nell’aria glaciale, a fissare gli enormi falò che punteggiavano il buio paesaggio che circondava l’avamposto. Voci di uomini catti gli giunsero alle orecchie. Quattro guardie stavano a fissare dietro il generale, muovendosi irrequiete, la loro agitazione evidente. Senza spostare lo sguardo dai fuochi Massimo disse:
- Guardali, Lucio. In questo momento è solo una dimostrazione di potere ma se il loro numero aumentasse, saremmo in guai seri. Nessuno uscirebbe vivo da questo posto. Intendo inviare un soldato a Bonna stanotte, protetto dal buio, per far arrivare qui altre tre coorti. - Sorrise tristemente. - E’ un po’ come essere abbandonati su un’isola minuscola circondata da squali affamati.

Con semplice familiarità, Lucio posò una mano rassicurante sulla spalla dell’amico e non riuscì a trattenere l’eccitazione nella voce.
- Massimo, guarda questo. - Un’intricata collana d’oro tempestata di piccole, luccicanti pietre preziose penzolava dalle sue dita. - Mia moglie l’ha trovata nascosta negli indumenti del nostro ostaggio catti, insieme ad altri simili tesori. Ecco perché non voleva levarsi i vestiti. - Lucio la rigirò nella mano perché Massimo la esaminasse alla luce della lampada. - E’ romana e probabilmente vale moltissimo. Non c’è luogo qui intorno in cui l’abbia potuta avere, a meno che qualcuno non gliel’abbia data. - Lucio guardò Massimo con orgoglio. - E’ pronta a parlare.




La stanza aveva un’atmosfera ben diversa da quella che Massimo aveva lasciato. Le finestre erano state spalancate per cambiare l’aria, riscaldata poi da un fuoco scoppiettante che gettava un’allegra luce danzante sulle pareti di pietra. I piatti sulla tavola non contenevano che briciole e l’ostaggio catti sedeva contegnosa nella sua sedia, le mani in grembo. I capelli appena lavati erano ancora umidi, ma risplendevano d’un morbido oro scuro ai bagliori del fuoco. La pelle era perfetta e leggermente arrossata per l’emozione. Gli occhi splendevano d’un intenso luminoso azzurro. Era una donna stupenda.

Massimo sorrise e annuì in segno di ringraziamento ad Erika. Lei arrossì profondamente restituendo il sorriso, poi raccolse i teli bagnati e lasciò la stanza.

- Mia signora, - disse Massimo sedendosi e incrociando la caviglia sul ginocchio con aria informale, stringendo le dita attorno al ginocchio sollevato. - Confido che ti senti meglio. Hai voglia di dirmi come ti chiami, adesso?

Lei lo osservò imbronciata da sotto le sopracciglia abbassate, ma alla fine borbottò una risposta.

Massimo si chinò in avanti e inclinò la testa con espressione interrogativa.
- Prego?

- Freyda! - scattò lei, il suo umore evidentemente non molto migliorato.

Bruscamente egli si risedette indietro.
- Grazie, Freyda.

- Prego… Massimo.

Egli chinò brevemente il capo, ad indicare che le dava il permesso di rivolgersi a lui in quel modo, poi estrasse la collana da sotto il mantello e gliela fece penzolare davanti al viso.
- Dove l’hai presa questa, mia signora?

Ella distolse lo sguardo e si rifiutò di rispondere.

Massimo aspettò in silenzio piuttosto a lungo, finché lei cominciò a sentirsi sulle spine sotto il suo esame critico.
- Mia signora, sai che cosa può accadere ad una schiava nell’impero romano? - Lei allontanò il viso da lui e chiuse gli occhi. - Fame bastonate tortura stupro mutilazione anche assassinio. - Sollevò di nuovo la collana. - Questo gioiello vale l’esporre anche un solo bambino ad un supplizio di quella sorta? - Studiò il profilo di lei. La vide deglutire e il suo labbro inferiore fremere leggermente. Testardamente lei premette insieme le labbra.

La voce di Massimo era calma.
- Conobbi una donna una volta, schiava dalla nascita. Una donna bella, coraggiosa, intelligente e stupenda che veniva data ad ogni uomo che faceva comodo al suo padrone… anche da bambina. Nonostante le sue molte qualità personali, ella prese in considerazione l’idea di suicidarsi piuttosto che sopportare una vita di tale umiliazione e sofferenza. - Massimo si chinò di nuovo verso Freyda, obbligando lo sguardo di lei a incontrare il suo. - Come ci si sente a sapere che hai contribuito a mandare molte donne e bambini ad un analogo destino? Tutto per gingilli come questo.

Freyda volò fuori dalla sua sedia e roteò come un turbine per mettersi di fronte a Massimo. Allarmate, le guardie si precipitarono rapide ad afferrarla, ma Massimo le frenò con un cenno della mano e rimase seduto… in apparenza rilassato.

- Tu non capisci! Non capisci! - urlò lei. - Non era la collana. Lui mi diceva che mi amava! Mi diceva che mi avrebbe portata a Roma… che avremmo abitato in una villa vicino al mare. - I tremiti le scuotevano il corpo snello e si strinse lo stomaco come se le dolesse.

- Chi è ‘lui’? Il generale Pollieno?

- Sì! Sì! - Stava piangendo lacrime cocenti adesso. - Mi ha mentito.

- Pollieno aveva una moglie e un’amante. Perché pensavi che potesse lasciarle per te?

- Io non sapevo che era sposato, - pianse lei. - La sua amante era solo per esibizione. Lui dormiva con me!

- Dove? Qui? Nell’avamposto?

- Qualche volta… ma la maggior parte no, - tirò su dal naso.

- Dove? - insisté Massimo.

- Per lo più c’incontravamo in una casupola nella foresta qua vicino.

Massimo guardò Lucio, che scosse la testa e si strinse nelle spalle. Avrebbero dovuto andare a cercarla. Il generale proseguì:
- Ha imbrogliato tutti, Freyda, non solo te. - Lei stava in piedi vicino alla parete adesso, la testa premuta contro la pietra fredda. Massimo si alzò e con calma andò verso di lei, parlando per tutto il tempo per evitare di spaventarla. - Ti stava chiaramente usando come usava molti altri. - Massimo posò la mano sul muro di pietra sopra la testa di lei. - Freyda, - disse pacato, - ti ha violentata?

Lei scosse la testa, il corpo tremante.

- Ti ha violentata un qualunque soldato romano?
Lei scosse di nuovo la testa, sfregandola contro la ruvida pietra.

- Perché hai raccontato quella storia?

- Me lo disse lui.

- Il ratto era una messinscena?

- S… sì.

- Non c’è stato alcun rapimento, - constatò Massimo.

Lei scosse di nuovo la testa, le lacrime che le scorrevano sul viso.

- Chi ti ha portata qui, allora?

- Oranio.

I sospetti di Massimo furono confermati. Era ancora perplesso, tuttavia, riguardo la giovane che si premeva contro il muro come desiderando che esso la inghiottisse.
- Hai aiutato il generale Pollieno a fuggire. Dopo le promesse che ti aveva fatto, non pensasti che fosse strano che non ti portasse con te?

- Disse che mi avrebbe mandata a prendere, - sussurrò lei.

A dispetto di ciò che aveva fatto, Massimo dovette combattere il bisogno imperioso di prendere quella giovane tra le braccia e confortarla.
- Che ruolo hai avuto nel rapimento delle donne e dei bambini che sono stati venduti in schiavitù?

- Lui… lui mi fece parlare loro… perché si fidassero di me.

- Ti ha usata come esca… tu, la figlia di un capo tribù catti. Tu li hai ridotti in prigionia.

Un singhiozzo informe le sfuggì dalla gola.

- Un’altra domanda. Oranio faceva parte del commercio di schiavi?

Lei annuì e parlò al muro.
- Prendeva una quota del denaro. Anche lui sta progettando di andarsene, non appena non sembrerà più cosa sospetta. Li ho uditi per caso mentre ne parlavano.

Soddisfatto dalle risposte di lei, Massimo cominciò a spostare la mano dal muro e a voltarsi ma lei gli agguantò il braccio per fermarlo. Ancora una volta le guardie si slanciarono verso di loro.
- Restate dove siete, - ordinò Massimo e rivolse di nuovo la sua attenzione a Freyda. - Che cosa c’è?

- Che ne farai di me?

Egli abbassò lo sguardo negli occhi azzurri pieni di lacrime e paura.
- Ritornerai da tuo padre, così che tu possa raccontargli la verità e, se tutto va bene, evitare una guerra molto grave.

- Mi ucciderà per averlo disonorato.

- Freyda, ascoltami attentamente. - Ogni calore che c’era stato nella voce di Massimo ora era svanito. - Se devo sacrificare la tua vita per salvarne migliaia di altre… lo farò. - Massimo fece leva sulle dita di lei staccandole dal proprio braccio e lasciò la stanza senza uno sguardo indietro. Superando le guardie disse:
- Arrestate Oranio.




Più tardi, quella notte, le guardie abbatterono la porta della casupola nella foresta e ne illuminarono l’interno con una lanterna. Massimo li spinse vie e camminò sullo sporco pavimento gelato del tugurio di una sola stanza. Il grezzo arredamento consisteva di un tavolo, due sedie e un letto. Steso scomposto sul letto c’era il corpo nudo, raggelato di una giovane donna bionda, gli occhi spalancati e fissi, neri lacci in rilievo sul collo. L’amante di Pollieno.




La pallida luce dell’alba illuminava il cielo ad oriente, quando Massimo sedette nella radura oltre il cancello posteriore dell’avamposto con il padre di Freyda. C’erano quattro sedie sul terreno brinato, a formare un semplice quadrato. Massimo sedeva dando la schiena all’avamposto, e agitava le dita dei piedi per cercare di far scorrere il sangue all’interno degli stivali bagnati. L’aroma invitante dei fuochi di cottura gli arrivò fluttuando alle narici e fece brontolare il suo stomaco. Dietro Massimo c’erano otto guardie armate, e dietro di loro una cavalleria armata di tutto punto, i cavalli che sbuffavano e davano zampate al terreno ghiacciato. Il capo tribù era egualmente ben protetto da robusti uomini dai lunghi capelli, vestiti in pelli disadorne e armati di spade. Freyda sedeva alla sinistra di Massimo e Lucio alla destra.
- Racconta tutto a tuo padre, - ordinò Massimo.

C’era genuina paura negli occhi di lei quando si rivolse all’alto guerriero e mentre lei parlava, Lucio traduceva per Massimo. Il volto del capo tribù rimase impassibile, ma Freyda stava tremando di paura o di freddo.

- Digli di nuovo che non sei stata rapita e che eri consenziente al cosiddetto ‘ratto’.

Freyda rivolse a Massimo uno sguardo implorante.
- Gliel’ho detto.

- Diglielo ancora. Non ci devono essere malintesi.

Con parole esitanti ella ripeté quei punti.

- Lucio, chiedi al capo tribù di annullare ogni intensificarsi della loro protesta.

Mentre Lucio parlava, il comandante germanico guardava dritto negli occhi di Massimo. La risposta del capo tribù fece ansimare Lucio.
- Massimo, dice che è troppo tardi. Migliaia e migliaia di guerrieri provenienti da dozzine di tribù sono già in viaggio e potrebbero essere qui alla fine della giornata. Anche se dicesse loro la verità, pensa che non saranno dell’umore di ascoltare. Dice che non può fermarli. Stanno venendo aspettandosi la guerra.

Massimo si alzò in piedi, inducendo il capo tribù a saltare in piedi anche lui. L’uomo era di almeno mezza testa più alto di Massimo.
- Lucio, digli che il nostro incontro è finito e che deve mandar via i suoi guerrieri per permetterci di evacuare l’avamposto. E’ la cosa più onorevole da fare.

Lucio tradusse le parole del suo generale e il capo tribù lentamente scosse la testa replicando nella sua lingua nativa. Lucio trasse un respiro tremante.
- Dice che non può farlo. Dice che l’altro capo tribù lo ucciderà quando scopriranno che aveva il comandante romano nelle sue mani e l’ha lasciato andare.

Massimo si rivolse direttamente all’enorme barbaro.
- Se provi a trattenermi, l’ira letale dell’impero romano calerà sul tuo popolo.

I due comandanti si fissarono l’un l’altro, uno alto, imponente e dai capelli lunghi; l’altro più basso,  ma ugualmente forte e vestito in modo regale quale miglior guerriero di Roma. Gli uomini dietro di loro si guardarono reciprocamente con diffidenza.
- Lucio, - disse Massimo rivolgendosi al suo traduttore senza spostare lo sguardo dal capo tribù. - Di’ alla mia cavalleria di cominciare ad evacuare gli ausiliari e le loro famiglie. Non c’è tempo di radunare effetti personali. Devono dirigersi direttamente a sud e non devono fermarsi per nessun motivo, nemmeno per dormire. I soldati dell’avamposto li accompagneranno. Poi, di’ al comandante catti che io rimarrò finché non lascerà partire pacificamente tutti tranne me e i miei uomini.

- Massimo, - disse Lucio con una punta di disperazione. - Così lasci solo la cavalleria a proteggerti. Potremmo stare parlando di decine di migliaia di guerrieri germanici qui entro domani. Per quanto bravi siate tu e i tuoi soldati, non avreste alcuna possibilità.

Massimo annuì una volta ad indicare che aveva udito l’appello di Lucio, ma disse:
- Porta via da qui tua moglie e i tuoi figli… e va’ con loro.

La voce di Lucio tremò.
- Qualcuno ha mai direttamente disobbedito ai tuoi ordini, generale?

Massimo diffidò dell’improvvisa formalità di Lucio.
- No.

- Allora, per favore, non farmi essere il primo. Metterò in salvo la mia famiglia, ma rimarrò con te. Hai bisogno di un traduttore.

Lo sguardo di Massimo esprimeva il suo apprezzamento.
- Va’, e aiuta la tua famiglia ad organizzarsi… ma prima, di’ al capo tribù che i miei uomini ed io andremo dentro per mangiare e scaldarci.

Lucio tradusse la risposta del guerriero germanico.
- Vuole un pegno di buona fede che non te ne andrai con gli altri.

- Bene… lo avrà. - Massimo fece cenno ad una guardia e diede istruzioni che mandarono il soldato via di corsa.

Nessuno si mosse o parlò finché la guardia tornò con altre tre… e un terrorizzato Oranio che si dibatteva.
- Non puoi farlo, - strillò a Massimo quando fu consegnato ai germanici. - Non puoi condannarmi senza un processo! Mi uccideranno! Ci sono delle leggi! Ci sono le leggi romane!

- Oranio, in una situazione come questa… io sono la legge. - ruggì Massimo poi s’inchinò brevemente alla sua controparte e tornò verso l’edificio di pietra, con i suoi soldati al seguito quando i germanici cominciarono a disperdersi. Tuttavia, Massimo esitò e ruotò su se stesso per trovare gli occhi del capo tribù ancora su di sé.
- Tua figlia. E’ stata abbindolata dal generale romano. Egli ha ingannato molta gente. - Freyda guardò Massimo con gratitudine e lui continuò il suo cammino verso la relativa salvezza dell’avamposto.

Diario di Giulia: Nascondendo Massimo

Capitolo 95 - Solo

Massimo e Lucio erano soli in cima alla torre di pietra a guardare l’ordinata processione di romani che abbandonavano l’avamposto. Uomini, donne e bambini, a piedi, a cavallo e su carri di legno si allontanavano faticosamente dall’unica casa che avessero mai conosciuto. Per la maggior parte avevano visi risoluti che guardavano dritti avanti a sé, ma alcuni si giravano per rubare un ultimo scorcio della struttura di pietra grezza. Se avessero raggiunto il Reno, il loro futuro sarebbe stato quasi certamente migliore di quanto fossero state le loro vite nel selvaggio territorio barbaro, ma molti pericoli li minacciavano nel loro viaggio attraverso la zona demilitarizzata dalle folte foreste, non ultimi i guerrieri germanici rinnegati che non giuravano fedeltà ad alcuna tribù. Eppure, la processione contava centinaia di persone e comprendeva le coorti dei soldati dell’avamposto, che erano contenti di partire, ma anche molti uomini della cavalleria di Massimo… tutti ben armati e assai abili con le armi che portavano.

Massimo si attardava sulla torre, mettendosi bene in vista come prova di forza e coraggio per quelli della processione, e anche per rassicurare i comandanti catti che egli era effettivamente rimasto indietro come aveva promesso che avrebbe fatto. La sua presenza nell’avamposto quasi certamente avrebbe assicurato il transito ai cittadini romani che ora erano diretti verso una terra più sicura.

Il mantello di Massimo fluttuò dolcemente nella brezza fredda ma, a parte quel movimento, egli sembrava scolpito nel marmo. Lucio lanciava occhiate all’uomo preoccupato, ma non riusciva ad intuire che cosa stesse succedendo nella sua mente. Stava progettando una strategia per la propria fuga? Era preoccupato per la propria sicurezza? In tal caso, non manifestava le sue paure, e le sue mani posate sulla parete di pietra erano rilassate. Sebbene molti, molti anni prima, avessero cominciato nello stesso modo le loro vite militari, da allora esse erano state drasticamente diverse. Studiando il viso forte e risoluto del generale, Lucio si domandò che diritto avesse, lui, di stare accanto a quell’uomo straordinario quasi fosse un suo eguale. Ora che aveva conosciuto il Massimo adulto, Lucio capiva perfettamente perché fosse stato scelto come comandante dell’esercito romano e si sentiva sopraffatto dalla sua semplice presenza.

Gli occhi di Massimo guizzarono verso il recinto dell’avamposto, dove la cavalleria rimasta sembrava vagare senza scopo, andando su e giù dai cancelli anteriori aperti, accompagnando gli sfollati per un tratto e poi tornando indietro… alcuni a cavallo altri a piedi. Sembravano completamente confusi, ma Lucio la sapeva lunga. Era convinto che qualunque cosa stesse accadendo, fosse stata accuratamente orchestrata dall’uomo indomito accanto a lui, e che ogni movimento fosse premeditato.

I guerrieri germanici sembravano soddisfatti di star fuori dei piedi e schernivano i profughi sapendo che il premio ambito era ancora nelle loro mani, ritto in cima alla torre dell’avamposto come un dio invincibile. Sapevano che senza il loro leggendario comandante, l’imbattibile esercito romano sarebbe stato impotente e avrebbe reso vulnerabile l’impero settentrionale abbastanza a lungo da soffrire una ferita mortale. I guerrieri sollevarono minacciosi le loro asce, le spade e le lance, fischiando, lanciando urla e schernendo i cittadini romani in partenza. Anche solo il loro aspetto era parecchio inquietante, con quelle loro enormi dimensioni, i capelli bizzarramente annodati, le lunghe barbe e i rozzi indumenti.

Ci sarà una guerra, Massimo? Lucio seppe di aver parlato ad alta voce quando il generale rispose.

- Siamo già in guerra, Lucio, ma io non lascerò che civili innocenti siano le prime vittime, né i soldati di quest’avamposto, che verrebbero macellati come agnelli in primavera.

Lucio sapeva che ciò poteva significare una cosa soltanto.
- Ti sei preparato ad offrirti tu come prima vittima, al loro posto?

Massimo non rispose.

- Massimo, hai idea di che cosa ti farebbero? Io l’ho veduto, Massimo. Ho veduto soldati torturati e uccisi dalle tribù. Hanno sofferto indicibili agonie, prima che fosse loro concesso il rifugio della morte.

Gli occhi azzurri di Massimo seguirono l’estremità della coda della processione fino a quando essa fu inghiottita dalla fitta foresta oscura. Soltanto allora egli sospirò e chiuse gli occhi.
- Non mi prenderanno mai vivo, Lucio. Morirò combattendo.

- Massimo…

 Il generale si mosse per la prima volta dopo ore, voltandosi finalmente per guardare in viso l’amico, la voce abbassata ad un bisbiglio malgrado la distanza fra loro ed il nemico.
- Le coorti in arrivo da Bonna supereranno la processione sulla strada e continueranno fin qui, ma non prima di aver cercato rinforzi. Entro qualche giorno sarà ingaggiata una battaglia su larga scala proprio fuori di queste mura. Lucio, tu non capisci che cosa sta accadendo qui, perciò te lo spiegherò. Siamo soli. La mia cavalleria se n’è andata. Siamo solamente tu, io... e qualche cavallo.

- Soli? - Confuso, Lucio scosse la testa cercando di capire le implicazioni di quella dichiarazione.

- Sì. Non volevo sacrificare la mia cavalleria più di quanto volessi mettere in pericolo i soldati delle coorti.

- Come... come hanno…?

- La cavalleria? Mentre aveva luogo l’evacuazione li ho fatti vagare dentro e fuori dall’avamposto in quello che sembrava uno schema casuale. Di fatto, stavano nascondendo nella foresta la maggior parte dei cavalli e riportando gli stessi avanti e indietro dentro il recinto. Poi hanno superato il muro meridionale mentre i germanici si stavano divertendo al cancello principale. Se tutto va bene, i barbari pensano ancora che la cavalleria sia qui dentro e che l’avamposto sia ben protetto. Il che li tratterrà dal venire a prenderci fino a che le loro fila raggiungeranno un tale numero d’uomini che riterranno di poter sopraffare perfino i più esperti soldati di Roma. Dovrebbe farci guadagnare qualche giorno. Ho fatto lasciare per noi da un paio di soldati le loro uniformi, da indossare se ne avessimo bisogno.

Lucio era stordito.
- Così... non c’è qui nessuno a proteggerti?

Massimo si mise leggermente sulla difensiva.
- No… e ti ho appena detto perché.

Furioso, Lucio farfugliò le sue parole.
- Massimo, sei tu l’ostaggio adesso!

- Abbassa la voce, - ammonì Massimo.

 - E che mi dici di me? - continuò Lucio. - Stai rischiando anche la mia vita!

Le ombre profonde del pomeriggio oscurarono l’improvvisa smorfia di sofferenza sul viso di Massimo.
- Avrei dovuto far partire anche te. Mi dispiace. E’ stato estremamente egoista da parte mia. - Il suo sguardo si abbassò e un’esitazione, un mero accenno di vulnerabilità, serpeggiò per la prima volta nella voce di Massimo. - Credo che non volessi ritrovarmi completamente solo, - bisbigliò, incapace di guardare il suo compagno. - Lucio, sei ancora in tempo per andartene indisturbato. Puoi raggiungere la tua famiglia.

-  Be’, forse lo farò davvero! - minacciò Lucio, ma non si mosse.

- Allora va’. Rimarrò qui per un po’. I guerrieri non si cureranno di sorvegliare instancabilmente l’avamposto, finché possono vedermi e sapere che non sto cercando di fuggire. Prendi una delle uniformi e passa dalle mura meridionali prima che i barbari abbiano la possibilità di riorganizzarsi, - sollecitò Massimo. Lucio ancora non si mosse così Massimo gli volse la schiena, ponendo termine ad altro dialogo.

Ciò fatto, Lucio abbandonò la torre, pestando la sua frustrazione ad ogni gradino che scendeva, e Massimo percepì ogni passo come un pugno nel ventre fino a che gradualmente essi s’allontanarono e soltanto il sibilo del vento freddo riempì le orecchie di Massimo. Il suo sguardo cercò ancora una volta la colonna di romani diretti a sud, ma da tempo erano ormai fuori di vista. Frugò nell’interno della sua corazza alla ricerca del sacchettino di pelle chiuso da stringhe che sempre portava con sé ed estrasse le due piccole figure intagliate. Le girò e rigirò nella mano, poi le portò alle labbra e le baciò. Infine, le tenne strette nelle mani chiuse, poggiò i gomiti sul muro e posò la fronte sulle nocche, gli occhi chiusi.



Ore dopo, talmente intirizzito da potersi appena muovere, Massimo si avviò verso i quartieri del generale. Fu sorpreso di vedere braci ardenti emettere ancora luce nel focolare e vi si curvò sopra per scongelarsi le dita, troppo stanco per pensare ad altro, quella sera.

- Mi chiedevo quanto tempo saresti rimasto là fuori.

Con un unico fluido movimento, Massimo si girò di scatto e si accosciò, la spada in mano come per magia. Lucio stava in panciolle sul letto, la testa appoggiata alle braccia piegate. Dopo aver atteso che il suo cuore smettesse di martellare, Massimo ringuainò la spada e si voltò di nuovo verso il fuoco, tentando di scaldarsi i piedi stavolta.
- Pensavo che te ne fossi andato.

- Avrei potuto essere un guerriero catti che si nascondeva in questa stanza. Allora saresti morto.

- Non ci scommetterei.

Lucio gettò le gambe fuori del letto e si avvicinò a Massimo.
- Che genere d’uomo lascerebbe il suo amico quando è in difficoltà?

Massimo si limitò a fissare il fuoco.

- Ecco, se tu fossi Quinto, me ne sarei andato da tempo.

Un lento sorriso si allargò sul viso di Massimo.
- Non è poi così male.

-  Mhh, vedremo. - Lucio strinse la spalla di Massimo. - Allora, comandante di tutte le legioni settentrionali, qual è il tuo piano?

- Dormire un po’. - Massimo si girò a guardare in viso Lucio e si scaldò la schiena.

- Sei molto sicuro di te, date le circostanze, - si meravigliò Lucio.

- Non realmente, ma mi sono trovato altre volte in situazioni alquanto difficili. Finora, sono riuscito a sopravvivere. La cosa più intelligente che possiamo fare ora è riposare un po’, così che i nostri cervelli e corpi funzionino a pieno regime domani.

- Allora, dove andrai a dormire? Io ho già preso il letto.

- Dormirò sul pavimento.

- Massimo, - rise Lucio, - stavo solo scherzando. Naturalmente il letto è tuo.

- Lucio, posso dormire su qualsiasi cosa, credimi. Starò benissimo.

- Ma…

- Va’ a letto, d’accordo? - Massimo temperò le sue parole con un sorriso.

Diario di Giulia: Uccidendo Cassio