La Storia di Massimo: Capitoli 61 – 65

 

 

Capitolo 61 - Il visitatore

Massimo scrutò attorno all'angolo sud-occidentale della fortezza stando attento a tenersi nascosto. Si era avvolto nella povera pelliccia marrone, alla quale non aveva alcuna intenzione di rinunciare, e avrebbe potuto essere scambiato facilmente per un germanico, sotto quel cielo notturno.

Il campo di battaglia appariva deserto e sul posto non c'era neanche una sentinella romana. Le due torri incomplete si stagliavano ancora dove egli le aveva viste l'ultima volta, ma la torre d'assalto principale era una pila di macerie incenerite, come aveva sospettato. Che cosa era accaduto laggiù?

Massimo zoppicò dolorosamente lungo il muro usando la pietra come appoggio. La sua gamba ferita pulsava ancora, ma la maggior parte del dolore adesso si irradiava da entrambe le ginocchia lacerate ed egli sapeva di sanguinare molto. Avvicinandosi alle rovine incenerite pensò di aver individuato quell'odore di carne cotta e si sentì soffocare nonostante la fame. Era forse l'odore del pasto serale all'accampamento che aleggiava così lontano sulla gelida brezza? Pensò che l'ora di cena era passata da un pezzo, ma non era nemmeno certo di che giorno fosse, e ancor meno di che ora fosse. Non era più sicuro di niente e la sensazione era decisamente sconvolgente. Se l'accampamento era ancora sotto il controllo romano, perché i soldati non lo avevano cercato fino a trovarlo? Il ritorno all'accampamento era difficoltoso, ma non aveva altra alternativa che cominciare. Che cosa non avrebbe dato, in quel momento, pur di sentire sotto di sé l'ampio dorso di Scarto!

Il cielo si stava illuminando ad est, quando Massimo si fermò a riposare, nascosto dietro un albero, sulla collina che dominava l'accampamento. Tutto sembrava normale. C'erano sentinelle all'entrata… sentinelle romane. Si sentiva vagamente in preda alle vertigini per il dolore, la fatica e la perdita di sangue e la sua mente non era acuta come il solito, ma sapeva con sicurezza che c'era qualcosa di diverso all'accampamento. Soltanto, non riusciva a capire che cosa.

Massimo rimase nascosto, raggomitolato sotto la pelliccia, mentre l'alba illuminava il cielo ad est e i soldati cominciavano a muoversi all'interno dell'accampamento. La ronda del mattino entrò in servizio e la pattuglia notturna si diresse alla volta del cibo e delle brandine. L'odore della colazione che veniva preparata gli giunse alle narici, ma non era lo stesso odore che aveva notato sul terreno di battaglia. La soluzione del mistero era laggiù e Massimo capì di dover ritornare al campo di battaglia, adesso che c'era ancora luce sufficiente per vederci. La sua mente si ribellò al pensiero di quell'ulteriore supplizio, ma egli si esortò ad alzarsi e dolorosamente tornò sui suoi passi.

 

Cumuli di neve punteggiavano il campo… corpi congelati di germanici morti che sarebbero giaciuti là fino a primavera, quando sarebbero stati divorati da animali affamati. Massimo calcolò che fossero sepolti sotto la neve duecento uomini, ma questo certamente non spiegava il numero di barbari che egli aveva visto caricare dai boschi verso la torre. Erano stati presi tutti prigionieri? Guardò ancora i resti inceneriti della torre d'assalto principale, con il terrore che gli strisciava nella mente.

Le rovine irradiavano ancora considerevole calore, ma i bordi erano abbastanza freddi per poter investigare, così gettò da parte il suo mantello di pelliccia e fece un passo nella pila di cenere. Nuvole di fuliggine grigia si sollevarono intorno a lui ed egli si sentì soffocare e tossì, finché si portò al naso la mano avvolta nella pelle di pecora, prima di continuare a tirar calci nelle macerie incenerite.

Un ricordo spontaneo inondò la sua mente… era in Ispania, un ragazzino che rovistava tra i ruderi bruciati della sua casa, alla ricerca dei resti dei suoi genitori e di suo fratello… e all'improvviso seppe che cosa stava cercando. Presto lo trovò: pezzi di carne bruciacchiata non identificabile, denti e pezzetti d'ossa bianche. Gli uomini nella torre erano stati arsi vivi. Massimo cadde in ginocchio e vomitò con violenza. Egli non avrebbe mai ordinato una cosa del genere. Che cosa aveva preso ai suoi uomini, per farlo? Chi aveva dato quell'ordine?

- Generale? - la voce incerta proveniva da dietro di lui. - Generale, sei tu?

Massimo riconobbe la voce di una delle sue giovani sentinelle, ma non fu in grado di rispondere. Le sue emozioni erano selvaggiamente fuori d'ogni controllo… una mistura d'angoscia e furore… ed egli dovette ricomporsi prima di poter rispondere al soldato. Si massaggiò le tempie quando udì il giovane allontanarsi a cavallo ad un galoppo serrato.

Quando arrivò Quinto, a cavallo, seguito da centinaia di soldati al passo di corsa, Massimo era in piedi pronto ad affrontarli. Non aveva tenuto conto del proprio aspetto, ma seppe dallo shock sul viso di Quinto di avere un aspetto spaventoso. O forse Massimo stava guardando l'espressione sconvolta di un uomo che aveva pensato d'essere lui ora al comando?

- Massimo... Massimo... Io... - balbettò Quinto. - Pensavamo che fossi morto.

- E' evidente che non lo sono, - ringhiò Massimo.

- Ti abbiamo cercato.

- Non abbastanza.

- Abbiamo perlustrato ogni edificio…

- La squadra di ricerca si è aggirata nella fortezza gridando il mio nome… nulla di più. Se avessero perlustrato gli edifici mi avrebbero trovato.

- Abbiamo tentato…

- Chi ha ordinato il massacro? - volle sapere Massimo.

Il sangue defluì dal volto di Quinto e centinaia di occhi lo fissarono direttamente. Egli sostenne lo sguardo accusatorio di Massimo per un momento, poi abbassò gli occhi.
- Io, - disse con calma.

Massimo brancolò alla ricerca di parole che esprimessero i suoi pensieri, ma riuscì solo a sussurrare:
- Perché?

- Non ho fatto che eseguire gli ordini.

Massimo era incredulo.
- Gli ordini di chi? Io non avrei mai ordinato una cosa del genere e tu lo sai!

- L'ordine era mio, - disse una voce familiare alle spalle di Quinto.

I capelli gli si rizzarono sulla nuca quando Massimo spostò lo sguardo, accorgendosi per la prima volta del giovane a cavallo.
- Commodo, - disse con un tono piatto che implicava completa comprensione.

- Hai un aspetto orribile, Massimo. Sono sicuro di parlare per tutti affermando che sono lieto che tu…

- Hai ordinato che quegli uomini fossero arsi vivi. - Il tono di Massimo era implacabile.

- Sì, l'ho fatto, - replicò Commodo sulla difensiva. - Ma li abbiamo selezionati, prima. Ogni uomo degno di diventare schiavo è stato tolto e trattenuto come prigioniero. Abbiamo ucciso solo gli uomini feriti, i più deboli e i più vecchi.

- Non avevi il diritto di emanare quell'ordine.

- Certo che sì. Credevo che tu fossi morto, perciò ho assunto il comando. Io rappresento mio padre, l'imperatore.

Nonostante il dolore, Massimo incedette lentamente a gran passi verso Commodo, ancora seduto sul suo stallone bianco.
- Tuo padre è un uomo compassionevole. Non avrebbe mai ordinato che i prigionieri fossero arsi vivi, non importa quanto vecchi o feriti.

- Sì, ebbene, mio padre non è scevro da debolezze e la compassione è sicuramente una di loro. Sapevi che ha interrotto i giochi gladiatori nella grande arena di Roma? I nostri prigionieri più forti dovranno essere mandati nelle province, invece. - Nonostante facesse mostra di spavalderia, il giovane stava cominciando ad agitarsi, mentre il generale si avvicinava con calma al suo cavallo. Egli fece cenno con la testa, una sola volta, seccamente, e degli uomini con mantelli ed elmi neri, tenendo alti le lance e gli scudi, si mossero rapidamente in posizione di fronte a lui, creando una barriera tra lui e Massimo.

Massimo rise con amarezza, un sogghigno beffardo sul volto sanguinante e sporco.
- Sono questi gli uomini che mi hanno cercato, Quinto? - Si rivolse al legato senza guardarlo.

- Sì, - fu la sommessa risposta di Quinto.

Massimo parlò di nuovo a Commodo.
- Bene, ora capisco quasi tutto. Tranne che una cosa…

- E sarebbe?

- Che cosa ci fai tu qui, a migliaia di miglia dalle comodità di Roma?

Commodo non rispose all'implicito insulto.

La fatica e il dolore resero Massimo incauto ed egli si fermò a faccia a faccia con uno dei pretoriani, sperando che la sua condizione lo avrebbe fatto indietreggiare. Non fu così. Massimo alzò lo sguardo su Commodo.
- Sarai anche il figlio dell'imperatore, ma quest'esercito è sotto il mio comando per ordine dell'imperatore. - Le sue parole stillavano disprezzo. - Finché non udirò altrimenti direttamente da Marco Aurelio, così dovrà essere. Farai bene a ricordarlo… principe.

Continuando a guardare Commodo con ferocia, Massimo disse:
- Quinto, dammi il tuo cavallo.

Il legato smontò in fretta e parecchi uomini corsero ad aiutare il loro generale ferito a montare a cavallo. Quando ci riuscì i suoi soldati si chiusero protettivamente intorno a lui e Massimo raddrizzò la schiena, tornando lentamente all'accampamento, circondato da centinaia di legionari sorridenti con i pugni alzati in segno di festeggiamento e sfida.

Commodo lo osservò allontanarsi, ancora circondato dai suoi pretoriani, e Quinto restò dietro di loro nella neve.

 

Capitolo 62 - Risposte

- Resta fermo.

Massimo si sforzò di alzarsi a sedere nel letto.

- Mi hai sentito. Resta fermo. - Il medico poggiò la mano al centro del petto di Massimo e con facilità lo spinse giù.

- Marciano?

- Naturalmente.

- Che giorno è?

- Martedì.

- Ehm… quale martedì?

Marciano sorrise e si sedette sul bordo del letto del suo generale con disinvolta familiarità.
- Hai dormito per due giorni… con un piccolo aiuto da parte mia.

- Due giorni! - Massimo si dimenò per alzarsi di nuovo e il medico lo spinse indietro, poi si chinò sul ferito e gli bloccò il braccio contro il letto per scoraggiarne ulteriore disobbedienza.

- Lo sai, Massimo, ti ho levato un bel po' di frecce dal corpo in tutti questi anni, ma stavolta sei proprio conciato male. Vuoi che ti parli delle tue ferite?

- No.

- Cominciamo dalla tua testa.

- No, - disse Massimo caparbiamente, voltando il viso verso la parete.

- Ti sei procurato numerosi tagli e contusioni picchiando la testa sulla roccia in quella maledetta galleria.

Massimo guardò rapidamente l'amico di vecchia data.
- Come sai della galleria?

- Me l'hai detto tu.

- Quando?

- Poco prima di perdere i sensi e cadere dal cavallo di Quinto. Non ricordi?

Massimo scosse il capo.
- Marciano, c'è una famiglia nella fortezza con un bimbo ferito gravemente…

- Lo so. Mi hai chiesto di entrare nella fortezza e l'ho fatto… attraverso quella maledetta galleria.

- Che cosa hai…?

Il medico sollevò la mano per ottenere silenzio.
- Tra un attimo. Adesso stiamo parlando di te. Dove eravamo? Ah, sì… la tua testa. E' un bene che sia dura quasi quanto quelle rocce. - Sorrise brevemente e spinse i lunghi capelli grigi dietro le orecchie prima di continuare. - Ho estratto le frecce e non c'era troppo danno. Sei fortunato che facesse così freddo, perché ciò ha scoraggiato l'infezione. Hai avuto una febbre leggera, ma le ferite da freccia dovrebbero guarire bene. Le tue mani, i piedi e le orecchie hanno sofferto un lieve congelamento, ma anch'essi dovrebbero guarire. Sospetto che tu abbia un po' di costole incrinate, a causa della caduta da cavallo. Nessuno ti aveva mai visto cadere da cavallo prima, così non hanno reagito in tempo per afferrarti e hai colpito il terreno piuttosto violentemente. In realtà, sei seriamente ammaccato dappertutto.

- Che cosa è successo nella…?

- Non ho ancora finito. - Il medico guardò con grande affetto l'uomo sdraiato accanto a lui. - Massimo, le tue ginocchia. Non so che cosa gli hai fatto, ma sono scarnificate fino all'osso, che è gravemente scorticato. Ho estratto schegge di pietra, lana e fuliggine, ma ci vorrà del tempo perché guariscano. Non potrai piegare le ginocchia per una settimana o giù di lì perché non faresti che aprire le cicatrici.

- Non puoi dire sul serio.

- Sono serissimo, invece. Provati a muovere le gambe.

Massimo lo fece senza successo. Sembrava che fossero distese, allungate e legate.
- Che cosa mi hai fatto?

- Stecche. Sei immobilizzato e rimarrai così finché non ordinerò diversamente, generale o no.

- Marciano, se non sono in grado di svolgere i miei compiti, allora è proprio "no" - C'era una nota di disperazione nella voce di Massimo.

- Mmm… ti riferisci al nostro inaspettato visitatore. Bene, non mi preoccuperei troppo di lui. Dubito che rimarrà a lungo, con questo clima.

- Può fare un sacco di danno perfino se starà qui per breve tempo.

- Nessun danno permanente. I soldati sono completamente leali a te e non gli obbedirebbero mai finché tu sei vivo.

- Nessun danno permanente? Raccontalo alle mogli e ai figli degli uomini arsi vivi. - Massimo pensò a Helga e si chiese se le ceneri del marito si confondevano con quelle della torre bruciata.

Marciano sospirò.
- Sì, quella è stata una vera… sventura. Commodo convinse i soldati che tu eri morto e che i barbari avevano fatto a pezzettini il tuo corpo dandolo in pasto ai lupi. Disse che era per quello che non riuscivano a trovare il tuo corpo. - Marciano sistemò la coperta coprendo le gambe di Massimo. - Non ho mai visto gli uomini così turbati e questo posto era precipitato nel lutto. - Il medico sorrise all'improvviso. - Il poveretto che ti ha individuato sul campo di battaglia era convinto di aver visto il tuo spirito.

- Hai pensato anche tu che fossi morto?

- Io… ho pregato Dio perché tornassi sano e salvo.

Massimo sorrise e chiese irriverentemente:
- Quale dio?

- L'unico Dio che io credo esista. Il mio Dio è un Dio misericordioso, Massimo, ed ha risposto alle mie preghiere. Lui sa quanto Roma abbia bisogno di te.

Massimo era sbalordito e senza parole.
- Sei un seguace di quella setta religiosa? Quella che…

- Sì.

Massimo lanciò un rapido sguardo all'entrata, poi di nuovo al suo amico.
- Lo sa qualcun altro oltre a me?

- No. Tu sei l'unico a cui l'ho confidato.

- Bene, nell'interesse del tuo Dio… e del tuo… mantieni il segreto. Devi sapere che i cristiani vengono perseguitati e sterminati in tutto l'impero.

- Lo so.

Massimo fissò preoccupato l'uomo che conosceva fin da ragazzo.
- Non so che dire.

- Non devi dire nulla. Massimo, la vita che conduci è quella di un cristiano esemplare, che tu te ne renda conto o no.

- Un generale cristiano a capo dell'esercito romano? - Massimo rise. - Non credo.

- No, certo che no. Sarebbe impossibile. Ma, tu, proprio perché sei tu, rendi facile a me essere me. Capisci?

Massimo afferrò la mano dell'amico.
- Sì, - disse. - Capisco. Grazie.

Un'ombra attraversò l'entrata aperta di Massimo ed egli cambiò in fretta argomento.
- Dov'è Cicero? - chiese.

- L'ho mandato via. Quel poverino stava male dalla preoccupazione per te e si è preso cura di te senza lasciarti un momento, fin dal tuo ritorno.

- Marciano... So che stai evitando di dirmi quello che voglio sapere della famiglia nella fortezza e mi stai rendendo molto agitato.

Il medico sospirò.
- Ho trovato la galleria proprio dove avevi detto che era e sono entrato nella fortezza con altri due medici e alcune guardie. Avevamo dotazioni mediche e cibo e vestiario con noi, come tu ci avevi ordinato. Ci abbiamo impiegato un po', ma abbiamo trovato la casa dove sei stato tenuto prigioniero.

- E?

- Non c'era nessuno.

- Che cosa?

- E li abbiamo cercati in tutta la fortezza. Se n'erano andati.

Massimo assimilò l'informazione e poi disse a voce sommessa.
- Suppongo che non si sia fidata di me, dopo tutto.

- Dubito che abbia qualcosa a che fare con la fiducia. Probabilmente era istinto materno. Ha visto l'opportunità di fuggire e l'ha colta al volo.

- Ma avrebbe potuto andarsene con gli altri prima e non l'ha fatto. Era rimasta indietro a causa del bimbo. Marciano, il piccolo era malridotto. Non posso credere che lei avrebbe rischiato di mettersi in viaggio con lui.

L'uomo più anziano si limitò a scrollare le spalle e si chinò ad accarezzare il grosso cane disteso a fianco del letto del suo padrone, così che il generale non riuscì a vedere il suo volto. Aveva trovato il piccolo, oh sì. Lo aveva trovato… seppellito in una tomba poco profonda nel pavimento della capanna, amorevolmente avvolto in pellicce. Egli aveva svolto le fasce del moncherino e gli era stato chiaro che cosa avesse ucciso il bimbo. Anche se fosse giunto giorni prima non avrebbe potuto salvare il bambino. Non c'era bisogno che Massimo lo sapesse.

- Aveva all'incirca l'età di mio figlio.

Marciano si alzò e fece gran mostra di stiracchiarsi.
- Massimo, ci sono molte persone che desiderano vederti, ma ho intenzione di tener lontane la maggior parte di loro finché non sarai più forte. Sei riuscito a far in modo che quest'accampamento funzionasse con molta efficienza ma, se vuoi, puoi emanare qualunque ordine tramite Quinto…

- No, Quinto no.

- Quinto è un brav'uomo, Massimo. E' il tuo secondo in comando.

- Lo so, Marciano, ma sono preoccupato per la sua… amicizia… con Commodo, e per qualche sua decisione, ultimamente.

Fu il medico, adesso, a lanciare un'occhiata alla porta, prima di sedersi di nuovo accanto a Massimo, avvicinando la bocca all'orecchio del generale.
- Dire amicizia è forse troppo, ma Quinto sembra davvero affascinato dai pretoriani e, per dirla molto francamente, non ho mai visto nessuno come loro. Sono un terrificante branco di giovani scherani arroganti, che pare che Commodo abbia selezionato sulla base della loro mancanza di scrupoli e sfrenata ambizione.

- Mmm… E' riuscito a trovare uomini proprio come lui, - disse Massimo con aria pensierosa. - Marciano, nonostante la sua giovane età e la buona salute di suo padre, ho la sensazione che Commodo stia preparandosi per il suo futuro ruolo d'imperatore e stia radunando potenziali sostenitori. Cerca uomini che gli obbediscano in modo assoluto, non importa quanto ripugnanti siano i suoi ordini, in cambio di… cosa? Prestigio…? Ricchezze…? Potere…?

- Be', suppongo che questo ti escluda, - replicò Marciano, e i due uomini sorrisero.

- Non gli piaccio fin da quando Lucil… - Massimo si fermò di botto.

- Lucilla? - concluse Marciano.

- Eravamo buoni amici e Commodo se ne risentì.

- Sì, lo so.

- No che non lo sai, - disse Massimo con durezza.

Marciano rise.
- Mio caro giovane generale, l'intero esercito sa che la figlia dell'imperatore era più che un pochino affezionata a te. Nell'esercito niente rimane segreto a lungo. Troppi occhi e troppe orecchie. Parlando di occhi, i tuoi sembrano piuttosto assonnati. Ti lascerò riposare un po'. Se hai bisogno di qualcosa per il dolore o per dormire manda Cicero a cercarmi. Non sarò molto lontano. Come tutti gli altri soldati, ho un interesse personale nel farti star bene il più velocemente possibile e ciò significa non farti stare in piedi per una settimana almeno.

- Marciano… ancora una cosa. Quando è arrivato Commodo?

- Appena prima che iniziasse la battaglia, credo, ma alcuni soldati dicono che si è tenuto fuori vista fino a dopo che era finita, così da non rischiare di sporcarsi l'uniforme. Quando è corsa voce che tu eri scomparso all'interno della fortezza, lui è arrivato cavalcando da eroe, pronto a prendere il controllo di un esercito senza guida. Devo dirti che molti dei tuoi uomini hanno tentato di strisciare nella fortezza per cercarti essi stessi, dopo che Commodo aveva annunciato che eri morto, ma i suoi pretoriani la sorvegliavano molto attentamente.

- Commodo deve aver saputo che ero ancora vivo. I suoi uomini non avevano trovato il mio corpo.

Marciano si grattò la barba grigia con aria meditabonda.
- Chi può sapere che cosa passa per la testa di quel ragazzo…

- Non è uno stupido, Marciano. Mi voleva morto.

- Può darsi, ma sembra che continui a sottovalutarti, non è così? - sorrise il medico.

Massimo restituì il sorriso.
- Mi è piaciuta la nostra chiacchierata.

- Anche a me. Anche a me. Dormi bene, Massimo. - Il medico spense alcune candele mentre andava verso la porta, oscurando la stanza affinché il ferito potesse dormire. Ma Massimo sapeva che il sonno non sarebbe giunto per un bel po', perché lo aveva afferrato una terribile tristezza. Marciano non aveva parlato molto di Helga, ma lui sapeva che lei non avrebbe mai tentato di mettersi in viaggio con il suo figlioletto gravemente ferito. Se se n'era andata, allora il piccolo era morto. L'amico aveva solo voluto risparmiargli la sofferenza di saperlo.

Massimo finalmente scivolò nel sonno, la fronte aggrottata che si rilassava mentre i suoi pensieri si volgevano dalla famigliola nella fortezza alla propria famiglia al sicuro in Ispania.

 

Capitolo 63 - La visita di Commodo

Durante i giorni successivi Massimo seguì le istruzioni di Marciano e cercò di riposare, ma si ritrovò ad essere sempre più impaziente. Era un uomo abituato all'attività fisica e l'inazione gli stava dando ai nervi, nonostante il flusso costante di visitatori che cercavano di distrarlo. Tutti i centurioni gli fecero una breve visita per dirgli quanto erano contenti che fosse salvo, e che doveva riposare fino a quando si fosse completamente ristabilito. Di sera, un coraggioso centurione pativa l'umiliazione di essere sbaragliato a scacchi, mentre Massimo, la schiena sorretta da cuscini, incanalava nel gioco la sua grande energia creativa e gli istinti strategici. Fu visitato da ogni ufficiale tranne Quinto, che era o troppo imbarazzato o troppo occupato nell'intrattenere il figlio dell'imperatore, per fargli visita.

Marciano veniva almeno due volte al giorno per esaminare il suo paziente preferito. Il giovedì dichiarò Massimo ragionevolmente in forma, eccettuati i suoi ginocchi, che ci avrebbero impiegato ancora un po' a guarire completamente. Tolse le stecche dalle gambe del generale e frizionò un unguento sulle ginocchia in via di guarigione, poi con delicatezza gli fletté le gambe per far allungare gradatamente la pelle.

- Se continuiamo a fare questo, le tue ginocchia dovrebbero guarire completamente con quasi nessuna cicatrice, - disse Marciano a Massimo.

- Come se m'importasse delle cicatrici, - lo schernì il suo paziente, un sopracciglio alzato mentre scrutava il medico.

- Be', a te può non importare delle tue belle gambe, ma sono sicuro che a tua moglie importano.

Massimo rise convulsamente, poi abbassò in fretta la voce.
- Che cosa sta facendo lui?

Entrambi sapevano a chi si riferiva Massimo.
- Avanza impettito per tutto l'accampamento come se fosse lui l'imperatore, sempre seguito da vicino da quei suoi cani neri. Si ferma per parlare con i soldati che incontrano i suoi gusti, senza dubbio cercando di reclutarli, ma nessuno di loro sembra interessato. Sembrano piuttosto diffidenti di lui e lo incolpano per averti quasi perso. Non hai nulla di cui preoccuparti.

- E Quinto?

- Segue i pretoriani passo passo, ma Commodo per lo più lo ignora. A differenza di te, l'ambizioso Quinto è largamente controllabile, ma sin dal tuo ritorno dal regno dei morti, non è molto utile a Commodo, adesso.

- E' difficile capire come il figlio di Marco Aurelio possa essere così diverso da lui.

- Sì, ecco…

- Ecco cosa?

- Sono sicuro che hai udito le voci.

- Sì, le ho udite, ma non vi credo.

- Qualcuno crede che sia quella la vera ragione per cui l'imperatore ha chiuso alfine i giochi gladiatori a Roma… così che sua moglie non potesse più… frequentare i suoi favoriti. Commodo immagina di essere un po' gladiatore, lo sai. Ogni mattina, noncurante di quanto faccia freddo, lui e quattro dei suoi pretoriani si denudano il petto e si esercitano con la spada. Inutile dire che attira molto l'attenzione, il che gli piace molto.

- E' bravo?

- Sembra di sì. Immagino che non ci sia molto altro da fare per un imperatore-in-attesa.

Massimo rise sardonicamente.
- Sì, sono sicuro che Roma è di una noia assoluta. - Ridivenne serio. - Mi chiedo perché Marco lo ha inviato qui in questo periodo dell'anno.

- Commodo può essere esperto con la spada ma è ben lontano dall'essere un duro, Massimo. Credo che l'imperatore sperasse che Commodo potesse assistere ad una vera battaglia e capire che cos'è la vera sofferenza, e anche divenire più edotto della vita nei luoghi più remoti dell'impero.

- Credi seriamente che Marco Aurelio speri che Commodo possa sviluppare della compassione? - sbuffò Massimo. - Bruciare uomini vivi è compassionevole? Pugnalare un cane… - La voce gli mancò mentre i suoi pensieri tornavano ad un momento doloroso di molti anni prima.

- Mmm, sembra proprio una speranza piuttosto inconsistente, vero? - Marciano posò sul letto la gamba destra del generale e tirò le coperte sopra di lui. Allo sguardo interrogativo di Massimo, rispose: - Non credo che tu abbia più bisogno delle stecche, se prometti di stare tranquillo. Puoi camminare un po', ma camminare lentamente, e non sederti senza allungare in fuori le gambe.

Massimo annuì in assenso.
- Grazie, Marciano. Adesso puoi prenderti cura degli uomini che hanno davvero bisogno dei tuoi servigi.

- I soldati sono ben curati dagli altri medici.

- In che condizioni sono i prigionieri?

- Buone, veramente, perché Commodo ha ucciso chiunque non lo fosse…

In quel momento Cicero irruppe nella stanza, ansimante e chiaramente sconvolto.
- Signore, Commodo sta uccidendo i prigionieri.

In un baleno Massimo fu fuori del letto, agguantando i suoi stivali mentre correva verso la porta, saltellando prima su di un piede e poi sull'altro mentre se li infilava. Marciano gli afferrò la corta tunica per ridurne la velocità, ma Massimo se lo scrollò di dosso.

- Massimo! - gridò mentre il generale scompariva attraverso la porta. - Non hai nemmeno addosso le brache! - Raccogliendo il mantello pesante del generale corse dietro a Massimo, con Cicero alle calcagna.

Una grande, ma stranamente silenziosa folla, si era radunata nella neve fuori della prigione dell'accampamento e Massimo spinse e sgomitò per aprirsi un varco finché si fermò di fronte alla moltitudine. Nella radura vide sul terreno due prigionieri morti, uno decapitato e l'altro senza un braccio, il quale giaceva vicino al cadavere sulla neve rosso sangue. Un terzo germanico, vivo ma gravemente ferito e armato di nient'altro che un robusto bastone, stava in piedi circondato da Commodo e tre dei suoi uomini, che maneggiavano spade. Sghignazzavano, colpendo e trafiggendo l'uomo dallo sguardo allucinato, cercando di aizzarlo ad attaccare.

- Che sta succedendo qui? - domandò Massimo in tono di comando, la voce profonda che risuonava autorevole mentre si avvicinava al gruppo.

- Bene, Massimo, è bello vederti, - lo salutò cordialmente Commodo. - Sei arrivato in tempo per vedere come dovrebbero essere puniti i prigionieri che cercano di scappare. - Tirò con forza un fendente al barbaro, aprendogli uno squarcio nel braccio prima di saltare indietro e ridere scioccamente, quasi con isteria. - Mi sbagliavo nel voler far di loro dei buoni gladiatori, Massimo. Non hanno per nulla coraggio.

- Credo che quell'uomo capisca la situazione e si renda conto che qualunque mossa faccia affretterà la sua morte. Li hai presi mentre cercavano di scappare?

- Non personalmente, ma mi è stato riferito da… Quinto. Lo ha detto a me perché tu sei stato a letto per giorni.

- Bene, adesso non sono a letto, come puoi vedere, e i prigionieri sono affar mio, principe. - Massimo chiamò tre delle sue guardie che stavano nei pressi e ordinò loro di riportare l'uomo sanguinante nella sua cella. Prima che si potessero muovere Commodo fece un affondo in avanti e seppellì la spada nel ventre dell'uomo, poi la ritirò con lentezza e lo osservò piegarsi in due.

Commodo si girò verso Massimo con gran soddisfazione.
- Ecco, così non è più affar tuo, generale.

Dietro di lui Ercole ringhiò profondamente di gola e Massimo vide lo sguardo di Commodo guizzare verso il grosso cane. Massimo afferrò il muso del cane per zittirlo mentre Marciano gli drappeggiava da dietro il mantello sulle spalle. Massimo riuscì a fare un sorriso teso.
- Non abbiamo avuto l'opportunità di parlare, da quando sei arrivato, principe, e in verità io non sono vestito per stare all'aperto. Perché non mi raggiungi nella mia tenda per un rinfresco?

- Sarebbe molto piacevole, amico mio. Verrò non appena mi sarò cambiato. I miei indumenti sono macchiati di sangue, come puoi vedere.

Massimo stese la mano a indicare che Commodo lo precedesse e chinò leggermente la testa quando il giovane passò. Con la testa abbassata, lanciò un'occhiata in su a Quinto che freneticamente scosse la testa in segno di diniego. Massimo annuì una volta poi ordinò ai soldati di disperdersi, prima di ritornare alla tenda con Ercole al suo fianco e Cicero alle calcagna. Anche lui si sarebbe cambiato. Aveva tutta l'intenzione di avere l'aspetto di un generale, non di un invalido, quando Commodo fosse venuto.

- Tuo padre sta bene? - chiese Massimo mentre Cicero versava loro del vino caldo speziato. Indossava la tunica e le brache rosso-vino e la corazza di cuoio.

- Suppongo di sì. Sta invecchiando, sai. Passa il tempo con il naso sepolto nei manoscritti e a scribacchiare nel suo diario invece che a curarsi degli affari dell'impero.

Massimo represse l'irritazione e rimase in silenzio, decidendo di lasciar parlare Commodo invece che contraddirlo.

- Ha permesso al senato di ottenere rilevante potere. Alcuni di quei senatori, Gracco per esempio, hanno molta più influenza di quella che dovrebbero avere. L'impero dovrebbe essere governato dall'imperatore. Egli dovrebbe avere potere assoluto. Questo è quello che ci vorrebbe per restituire a Roma la gloria che essa conosceva una volta.

- E' un bene vederti visitare i confini remoti dell'impero, - disse Massimo. - Quando diverrai imperatore avrai bisogno di capire tutto dei sudditi di Roma. - Sorseggiò il suo vino e allungò le gambe, le ginocchia doloranti avendogli ricordato le istruzioni di Marciano. - Ti ha inviato tuo padre?

- E' stata un'idea esclusivamente mia.

Massimo seppe che stava mentendo.

- Ti ammiro, principe. E' difficile e pericoloso viaggiare in questa parte del mondo in inverno.

- Lo è, non è vero? La Germania è un luogo brutale. Capisco perché nessuno vive qui, a parte barbari e soldati. Perché mio padre dovrebbe anche solo lontanamente preoccuparsi di un posto del genere, va oltre la mia capacità di comprensione.

- Credo che sia più interessato a portare la pace con dei trattati piuttosto che fare la guerra, ma è dura convincere i germanici di questo. Vedono la nostra presenza come una minaccia al loro modo di vivere.

- Il loro modo di vivere? - Commodo sbuffò. - Sembrano animali, puzzano come animali e vivono come animali. Che specie di vita è questa?

Massimo pensò a Helga.
- Tra di noi ci possono essere più affinità di quanto tu ti renda conto. - Per Massimo stava diventando difficile non confutare questo giovane che conosceva così poco del mondo.

- Be', non hanno nulla in comune con me, te l'assicuro. - Commodo squadrò Massimo. - Sei stato qui troppo a lungo, amico mio, se lo pensi. Non hai voglia di tornare a casa?

- Ogni minuto di ogni giorno, principe.

- E allora perché no?

Massimo rispose senza esitare.
- Io servo Roma e tuo padre ha bisogno di me qui.

- La tua lealtà è apprezzata, Massimo. Sono certo che lo sai. - Commodo restò zitto per un minuto prima di aggiungere con una traccia di sospetto. - O la tua lealtà è più per mio padre che per Roma, Massimo?

Massimo esitò prima di rispondere.
- Tuo padre è il solo imperatore che io abbia conosciuto, a parte Lucio Vero, e per me egli è Roma.

- Roma ha avuto molti imperatori, Massimo. Mi stai dicendo che non servirai nessun altro?

- Naturalmente no, principe. Un imperatore rappresenta Roma e io servo Roma.

- Ben detto, amico mio, - rise Commodo. - Roma ha bisogno di uomini come te. Comandanti forti che appoggiano il loro imperatore. - Con lentezza aggiunse: - Mi sorprende come ti sono devoti i tuoi uomini. Quale pensi sia la ragione? Hanno paura di te?

- No, principe, non hanno paura di me.

- Davvero? Allora mi devi dire il tuo segreto, Massimo, perché credo che la paura sia un gran modo di ispirare lealtà.

Massimo pensò ai pretoriani di Commodo.
- I miei uomini mi rispettano, principe.

- Ma è naturale. Sei un generale.

- Essere un generale non significa necessariamente che otterrai rispetto. Obbedienza, forse, ma non rispetto.

Commodo si piegò verso Massimo con aria eccitata, gli avambracci appoggiati alle ginocchia.
- Allora dimmi qual è il tuo segreto, - sibilò.

- Non ho segreti, ho semplicemente cura degli uomini al mio comando. Li vedo come uomini, non come guerrieri soltanto. Mi rendo conto che hanno dei bisogni e cerco di venire loro incontro, ecco tutto.

Commodo rise, raddrizzandosi.
- Così… ti amano?

Amarlo. Lo amavano? si chiese Massimo.
- Amore è forse una parola troppo forte, principe.

- L'amore è tutto, Massimo. Tutti gli uomini hanno bisogno d'amore. Quando sarò imperatore mi farò amare dal popolo, a differenza di mio padre che è troppo occupato per amare qualcuno.

- Tuo padre ti ama, principe.

- E tu come lo sai, Massimo?

- Sei suo figlio.

Commodo lo fissò duramente.
- Mio padre ama te. Parla di te sempre.

Massimo sapeva che la conversazione stava entrando in un territorio pericolosissimo.

Commodo si alzò e cominciò a camminare intorno alla tenda toccando statue e ninnoli. Prese le statuette che Olivia aveva fatto per lui e Massimo strinse forte i braccioli della sedia per evitare di fare un balzo e strapparglieli dalle mani.

- Lucilla mi ama.

- Sì, principe.

- Sono il solo uomo che abbia mai amato, lo sai questo, Massimo?

Egli non replicò.

- Non amava suo marito. Fu obbligata a sposarlo. - Commodo lanciò un'occhiata torva al suo ospite. - So che pensavi che amasse te, ma non era così. Ama solo me. Disse che aveva quasi fatto il più grosso errore della sua vita, con te, ma si era resa conto in tempo che tu non eri che un soldato e molto al di sotto del suo ceto. Dice che adesso rabbrividisce quando pensa a te. Ti trova rozzo.

Massimo non riusciva a distogliere lo sguardo dalle figurine nelle mani di Commodo. La sua memoria, tuttavia, evocò un Marco Aurelio leggermente sbronzo nella sua tenda vicino al Mar Nero mentre diceva:
- Lucilla be', Lucilla non ti ha mai dimenticato, sai.

- Ha un figlio, lo sapevi? - domandò Commodo.

L'attenzione di Massimo tornò di colpo sul tormentato giovane.
- Sì.

- E' di sangue regale come me.

Commodo tenne alta la statuetta del bambino per esaminarla alla luce tremula della lampada.
- Un giorno anch'io avrò un figlio, - disse con aria quasi assente. - La regalità deve generare regalità. Non può esserci altro modo. - Commodo sorrise e lanciò con noncuranza le statuette su di un tavolo dove rimbalzarono con forza per poi cadere rotolando sul pavimento. Rise mentre si girava verso Massimo, che stava fissando il pavimento, il volto impallidito.
- Allora… dov'è quell'orribile cane che hai? Non ne avevi già avuto uno proprio simile a questo?

- Era il cane del generale Patroclo e, sì, era simile.

- Amavi quel cane, vero, Massimo? Come si chiamava? - si domandò Commodo, un dito sulla tempia, fingendo di ricordare con difficoltà.

- Ercole.

- Sì… Ercole… E come si chiama il tuo nuovo cane?

Massimo non rispose.

- Massimo?

- Ercole.

- Aaahhh, commovente! Che sentimentalismo. - Commodo si piegò contro il tavolo, incrociò le braccia e sorrise a Massimo. Sui suoi occhi era proiettata un'ombra profonda, che rendeva il suo viso simile ad una ghignante maschera malvagia.

Massimo sollevò il mento.
- Ho saputo che progetti di andartene presto, principe.

Le sopracciglia di Commodo si sollevarono di colpo.
- Davvero? Chi te l'ha detto?

- C'è della neve sul terreno adesso, ma diventerà solo più alta, nelle settimane a venire. Ad un certo punto sarà impossibile praticare le strade perfino a cavallo. Perciò, se non hai in mente di restare fino a primavera, forse vuoi prendere in considerazione l'idea di metterti in viaggio.

- Suona quasi come se tu non mi volessi qui, Massimo.

- Sto solo pensando alla tua sicurezza, principe. - Massimo fece in modo di suonare cortese.

- Naturalmente. Bene, in realtà stavo progettando di partire per Roma dopodomani. Ne ho abbastanza di questo tempaccio. E mia madre non sta bene. Lo sapevi?

- Mi dispiace di sentire ciò, principe. Spero che non sia nulla di serio. Ma questa è anche una ragione in più per tornare a Roma, no? - Massimo si alzò, ad indicare che la loro conversazione era finita. - Farò preparare ai cuochi le provviste per te e per i tuoi uomini.

Commodo annuì seccamente.
- Dormi bene, amico mio, - disse voltandosi, e qualcosa scricchiolò con forza sotto il suo stivale mentre si dirigeva alla porta.

Nel momento in cui scomparve, Massimo si gettò in ginocchio, ignorando il dolore mentre cercava a tastoni le due statuette, col cuore in gola. Le sue dita ne toccarono una, poi la seconda, e si sedette sul pavimento con la schiena contro il letto mentre le esaminava. La figurina del bambino era intatta, ma sporcata di terra dallo stivale di Commodo, sulla faccia e sul petto. Massimo la strofinò con il pollice riuscendo a togliere la maggior parte del sudiciume, ma la statuetta aveva chiaramente sofferto qualche danno permanente. Massimo rivolse la sua attenzione alla figura di Olivia che aveva subito l'urto. Aveva una piccola crepa nella gonna e una scheggia usciva dal fondo. Se le portò entrambe al cuore, poi in silenzio maledisse Commodo, chiedendosi come sarebbe mai stato capace di servire quell'uomo se l'impensabile fosse accaduto e Marco Aurelio fosse morto.

 

Capitolo 64 - Onore

Due giorni dopo Massimo, in piedi vicino all'entrata dell'accampamento, osservava Commodo e i suoi pretoriani prepararsi a partire. Nelle vicinanze, in fila, i prigionieri germanici stavano in piedi incatenati l'uno all'altro per i polsi e le caviglie, con catene pesanti di ferro che strascicavano nella neve e tagliavano loro le carni. Massimo aveva argomentato che i prigionieri avrebbero solo rallentato Commodo e ritardato il suo viaggio verso climi più caldi, ma Commodo aveva insistito perché gli schiavi più forti lo accompagnassero a Roma. Massimo dubitava seriamente che qualcuno dei germanici sarebbe sopravvissuto, arrivando a vedere la città.

Accanto a Massimo c'era Quinto, in silenzio, la testa leggermente inclinata, le dita attorcigliate in nodi sul fianco. Lui e Massimo non avevano ancora conversato privatamente e Massimo era determinato a farlo una volta che l'uomo che li aveva divisi, mettendo alla prova la loro amicizia e in discussione la lealtà di Quinto per il suo generale, se ne fosse andato.

Il cavallo di Commodo s'impennò e sbuffò, due pennacchi gemelli di vapore si alzarono dal suo naso nella gelida aria del mattino, ma il figlio dell'imperatore controllò la sua cavalcatura con facilità, trasudando sicurezza di sé, evidente nella sua postura eretta e nell'inclinazione del mento.
- Allora, Massimo, sembra che dobbiamo separarci ancora. - I suoi occhi cupi osservarono lentamente l'accampamento. - Non posso dire che mi dispiaccia partire, tuttavia. - Il suo sguardo tornò su Massimo. - Ammiro un uomo come te, generale, così pago di vivere in condizioni primitive, mancanza di cultura e civiltà. Quando verrà il momento, i miei generali dovranno essere uomini semplici, come tu sei, così che possano essere soddisfatti molto facilmente.

Massimo non aveva intenzione di abboccare all'esca.
- Fai un viaggio sicuro, principe, - fu tutto ciò che egli disse. Si sbagliava o il sorriso compiaciuto del giovane si era quasi dileguato?

Commodo spronò il suo stallone e la lunga processione cominciò ad attraversare il cancello, al di là dei soldati con le teste chine. Il suo cavallo aveva appena superato i portali quando Commodo si girò sulla sella e gridò da sopra la spalla:
- Porgi i miei saluti ai tuoi familiari, Massimo, la prossima volta che li vedi. Sei un uomo fortunato… circondato da cose che ami…

Massimo sentì crescere l'ansia.

- … i tuoi soldati, i tuoi amici, i tuoi cavalli… il tuo cane. - Commodo sghignazzò con perfidia e si voltò, spronando lo stallone ad un vivace galoppo, la sua risata che risuonava fin nei più alti rami degli alberi drappeggiati dalla neve.

Massimo obbligò se stesso a rimanere calmo fino a che l'ultimo del seguito fu partito e i pesanti cancelli di legno furono chiusi, poi si portò le dita alla bocca e produsse un lungo fischio acuto. Attese con calma l'usuale risposta, mentre i suoi soldati lo osservavano con sguardi interrogativi. Ercole non comparve. Massimo inspirò profondamente e fischiò ancora. Non vi fu nessun abbaiare di risposta; nessun cane con la coda scodinzolante e le orecchie ritte che si slanciava verso di lui.

Un tribuno che stava nei pressi considerò i lineamenti tesi dalla preoccupazione del suo generale, incerto del perché l'assenza del cane gli causasse tanta angoscia.
- Vuoi che lo cerchiamo, signore? Probabilmente è soltanto via a caccia di conigli, - aggiunse con aria rassicurante.

Massimo si limitò ad annuire, gli occhi chiusi, il corpo intorpidito.

Il tribuno urlò ordini agli uomini ed essi corsero via in tutte le direzioni preparandosi ad ispezionare ogni angolo dell'accampamento.
- Se non riusciamo a trovarlo, signore, cercheremo fuori delle mura. Perché non vai a fare colazione, e noi te lo porteremo presto.

Quinto sapeva molto bene perché Massimo era così sconvolto, ma non riusciva a credere che Commodo avesse rifatto una cosa simile.
- Quando l'hai visto l'ultima volta, Massimo? - chiese, inducendo il generale ad accorgersi della sua presenza.

- Era accanto al mio letto come il solito quando mi sono alzato. Non lo vedo da allora, - rispose Massimo con voce bassa e forzata.

- Non è passato molto tempo. Probabilmente è solo che non riesce a sentirti. Ti aiuterò a cercare nel pretorio. - Lo sguardo e la voce di Quinto erano concilianti. Massimo annuì e si affrettarono verso i suoi quartieri, il suono del nome del cane che echeggiava per tutto l'accampamento dietro di loro mentre centinaia di soldati cercavano l'animale.

 

Al crepuscolo il cane non era ancora stato trovato e la preoccupazione di Massimo divenne disperazione mentre sedeva sul suo letto con la testa tra le mani. Quinto entrò nella tenda e si schiarì la gola per annunciare la sua presenza.
- Massimo, Ercole non è stato trovato ed è troppo buio per cercarlo ancora, per oggi. Ricominceremo all'alba, te lo prometto.

- E' stata perlustrata la foresta?

- Tre coorti di uomini sono state là fuori tutto il giorno. Non l'hanno trovato.

Massimo alzò lo sguardo su Quinto e sorrise in modo poco convincente.
- Devi pensare che sono uno sciocco ad essere così sconvolto per un cane.

- No, no. - Accennò alla branda accanto a Massimo e chiese: - Posso? - Il generale annuì e Quinto si sedette. - So quello che tu credi sia accaduto al cane, Massimo, ma sono certo che ti sbagli. Non riesco a figurarmi Commodo che fa qualcosa di così perfido ora che è adulto.

Massimo rise con amarezza e scosse la testa.
- Quinto, Quinto… tu non lo conosci come lo conosco io. Non puoi fidarti di lui. Guarda quello che ha fatto nel poco tempo che è stato qui… l'inganno, le uccisioni ingiustificate, l'attentato alla mia vita… perché non riesci a capirlo?

- Massimo, è solo troppo zelante, ecco tutto. Sta cercando di mettere alla prova se stesso.

- Mettere alla prova se stesso? Provare che cosa a chi?

Quinto scosse le spalle e si studiò le mani.
- Provare la sua abilità e il suo valore, suppongo. Provare la sua capacità di prendere il comando ed emanare ordini che vengono obbediti. Provare che sarà un buon imperatore.

- A chi, Quinto? Ai soldati? A suo padre?

- A tutti, credo. Forse a se stesso più di tutti.

- Bene, io non ho avuto la sensazione che i soldati fossero impressionati, per niente, e le sue azioni faranno ribrezzo a suo padre. - Massimo sbirciò il suo legato con uno sguardo obliquo. - Tu sei l'unico che sembra impressionato, Quinto. - Ci fu una lunga pausa prima che chiedesse: - Perché?

Il legato sospirò.
- Sarà imperatore un giorno, Massimo. Credo sia saggio coltivare un buon rapporto con un futuro imperatore, tutto qui.

- Potrebbe non diventare imperatore, Quinto.

- Certo che lo diventerà. E' il figlio dell'imperatore.

- Marco Aurelio può nominare chiunque desideri. Non deve essere per forza suo figlio e Commodo lo sa. Io credo che egli sia spaventato e la sua paura lo sta spingendo ad atti irrazionali. - Massimo sospirò gravemente. - Potresti davvero servire un tal uomo?

- Tu no?

Massimo sorrise fiaccamente.
- Te l'ho chiesto prima io.

- Io servirò Roma, come te, Massimo, - disse Quinto con serietà. - E quando Commodo diverrà imperatore… sì, io lo servirò. E' un suo diritto di nascita.

- Anche se sai che le sue decisioni sono guidate da una mente squilibrata?

- E' solo giovane…

- E dunque, quando ti aspetti di vederlo cambiare, Quinto? E' un uomo, adesso, ma non è diverso da quando era un ragazzo. La sua personalità non cambierà.

- Potrebbe. - Quinto aggiunse pacatamente. - La tua di sicuro lo ha fatto.

Massimo si raddrizzò, preso del tutto alla sprovvista.
- Non è vero, - protestò.

- Sì, è così. Una volta tu eri spericolato e impetuoso. - Quinto si toccò la fronte brevemente e sorrise. - Avevi anche un bel caratterino… e io ne porto le cicatrici che lo provano.

- Stai dicendo che io ero come Commodo? - Lo stupore di Massimo era pervaso d'irritazione.

- No, non sto dicendo questo. Sto solo dicendo che le persone possono cambiare.

Massimo arricciò le labbra e intrecciò insieme le dita.
- E adesso come sono?

- Molto più calmo… introspettivo. - Quinto urtò la spalla del suo generale con la propria e sorrise, cercando di smussare la punta alle sue parole successive. - Alquanto remoto.

Remoto. Lo sguardo di Massimo cadde verso il pavimento e così fece la sua mascella.

- Alcune cose non sono cambiate, però. Sei ancora più testardo che mai, valoroso…

- Remoto, - echeggiò Massimo. La parola gli bruciava.

- Massimo, sei stato molto sulle tue durante gli anni scorsi. Trascorri le sere da solo. Una volta eri molto diverso. Sei così preso nel tuo proprio mondo, ora. Una volta sapevo esattamente come ti sentivi, sia che tu fossi scontento o soddisfatto di qualcosa. Adesso riesco appena a capirci qualcosa, a meno che tu sia proprio molto adirato, e allora è fin troppo comprensibile.

- Sostengo un pesante fardello, Quinto. Sto con gli uomini tutto il giorno, ma la sera, quando loro socializzano, io ho rapporti da compilare, corrispondenza da sbrigare con i generali delle altre legioni e con Marco Aurelio, decisioni da prendere, un bilancio da tenere in considerazione, approvvigionamenti di cui tenere il conto… e ho bisogno di tempo per pensare alla mia famiglia… per stare con loro...

- Lo so che porti un pesante fardello, Massimo, e vorrei che ti facessi aiutare di più da me.

- Io ti ho chiesto di aiutarmi… di rappresentarmi. - I due uomini rimasero in silenzio per un lungo momento, fissando le fiamme fumose che diffondevano nella tenda una fievole luce arancione. - Quando lo feci, le tue decisioni… mi confusero alquanto… e turbarono.

- Massimo, tu mi desti l'autorità di agire in tua assenza, ma onestamente io non ero sicuro che tu fossi soddisfatto di quella decisione e che ti fidassi di me. Mi rendevo conto che se avessi preso una decisione importante e che se questa non fosse stata una decisione che tu avresti preso, allora mi avresti giudicato incompetente o peggio.

Massimo guardò Quinto.
- E' per questo che non attaccasti la fortezza mentre io ero in Ispania?

La risposta di Quinto fu una scrollata di spalle.

- Mi spiace, amico mio. Non sapevo di trasmettere sentimenti opposti a quanto dicevo. Io avevo davvero fiducia in te. Diversamente non ti avrei designato.

- Sei un uomo difficile con cui vivere, sai.

Massimo si passò le mani tra i corti capelli, poi le riportò sulle ginocchia.
- I nostri modi di affrontare qualsiasi situazione data e le soluzioni che troviamo, tendono spesso a essere opposti.

- Sì, ma questo significa forse che io ho torto perché avrei fatto qualcosa di diverso da te? Qualche volta tu mi fai sentire così. E anche i soldati mi fanno sentire così… esitano ad obbedire a qualunque ordine, a meno che sappiano che provengono da te. - Quinto si alzò e andò su e giù per la tenda prima di girarsi a guardare Massimo. - Io sono bravo quanto qualunque altro comandante dell'esercito, Massimo. Soltanto, è mia sventura essere costantemente messo a confronto direttamente con te. - Quinto fissò il soffitto della tenda. - E' sempre stato così. - Tornò a guardare Massimo, che stava studiando il tappeto sotto i suoi piedi. - E ora noi siamo in disaccordo su Commodo e le sue motivazioni e, di nuovo, tu pensi di aver ragione e io torto.

- Ma io lo conosco molto meglio di te, Quinto. Non è che io abbia necessariamente ragione… ho solo una più vasta base d'esperienza dalla quale formare la mia opinione, in questo caso.

- Questa volta penso che tu stia facendo un grosso errore… un errore nel modo in cui tratti con Commodo. Tu sei obbligato ad essere leale all'imperatore, non importa che uomo egli sia. E' il tuo destino di generale dell'esercito romano.

Massimo rimase zitto.

Quinto lo osservò con molta attenzione.
- Puoi sul serio dirmi che non servirai Commodo quando diverrà imperatore?

- La mia speranza è che non diventi imperatore.

- E se lo diventerà?

- Il mio compito è servire Roma, come tu hai detto, nel miglior modo che conosca.

Quinto premeva per avere una risposta.
- Commodo sarà Roma.

Massimo si alzò con un unico rapido movimento e andò a mettersi vicino al suo legato, guardandolo dritto negli occhi.
- Quinto, non capisci quanto siamo potenti? Noi diamo ordini e migliaia di uomini… decine di migliaia… obbediscono. E se quegli ordini sono basati su una logica inaffidabile o sono veramente ingiusti? Li trasmettiamo comunque?

- Sì. Non è compito nostro giudicare.

Massimo scosse la testa.

- Non hai ancora risposto alla mia domanda, - lo sfidò Quinto. - Servirai Commodo quando diverrà imperatore?

- Quando raggiungerà quel livello di comando, Quinto, dovremo usare il discernimento e la saggezza che abbiamo acquisito nei nostri molti anni d'esperienza, quando valuteremo le decisioni… perfino quelle dell'imperatore. Non è sufficiente seguire semplicemente i suoi ordini. E' compito tuo aiutare a guidare le sue decisioni, essere di consiglio all'imperatore.

- Un imperatore ha tutti i poteri. Non si cura di ciò che pensano i suoi generali.

Massimo lanciò un'occhiata al busto di marmo bianco dell'imperatore, appoggiato su di un piedistallo nell'angolo.
- Marco Aurelio lo fa. Egli apprezza il mio giudizio, e quello degli altri suoi generali.

- Massimo, tu ti accolli fin troppe responsabilità. Quando il nemico ci sfida noi lo uccidiamo. Quando la gloria di Roma viene minacciata noi ci comportiamo di conseguenza. Tutto qua. Non devi essere tu a decidere, perciò la notte puoi dormire con la coscienza pulita.

- Quinto, puoi passare l'ordine di bruciare vivi centinaia d'uomini e dormire tranquillo la notte?

- Sì. Non è stata una mia decisione.

- Be', allora noi due siamo molto diversi, amico mio, perché io non potrei.

Quinto si stava arrabbiando.
- Che differenza c'è, Massimo, dal mandare legioni armate di tutto punto a combattere dei barbari che non hanno altro che armi primitive e quasi nessun addestramento?

- Quegli uomini erano chiusi in trappola, in quella torre. Non avevano alcuna possibilità di difendersi in alcun modo.

- E questo è molto diverso dal mandare legioni in territorio nemico e trucidare migliaia di persone solo perché Roma possa spingere i suoi confini ancora più lontano? E rendere schiavi quelli che non vengono uccisi?

- Noi siamo qui per difendere i confini di Roma, Quinto, e cercare di fare pace con le tribù, non di ottenere nuovi territori.

- Be', forse è quello che stiamo facendo ora, ma per centinaia d'anni Roma è stata l'aggressore… in cerca di nuovi territori e nuovi schiavi. Puoi ingannare te stesso nel pensare altrimenti, se vuoi, Massimo. - Quinto allungò una mano esitante verso Massimo, come se cercasse fisicamente di fargli capire, e la sua voce mantenne un tono supplichevole. - Commodo mi avrebbe eliminato se non avessi trasmesso quell'ordine, poi semplicemente avrebbe fatto scorrere la lista di ufficiali finché ne avesse trovato uno che lo faceva.

- Ti terresti la vita, Quinto, ma perderesti il tuo onore?

- Io ho agito con onore, Massimo. Mi è stato dato un ordine da un superiore e io vi ho obbedito. Nell'esercito questo è onore. - Quinto incrociò le braccia, si appoggiò contro un solido tavolo e si studiò i piedi. - Veniamo da ambienti molto diversi, Massimo, e penso che il tuo personale senso dell'onore è in qualche modo diverso dal mio. Non migliore, solo diverso. I tuoi genitori erano contadini. La tua ascesa ad una posizione di straordinario potere nell'esercito fu inattesa e, sono sicuro, una fonte di orgoglio per la tua famiglia. - Quinto ricordò all'improvviso che i genitori di Massimo erano morti. - O per lo meno… lo sarebbe stata, - bisbigliò. Inspirò a fondo. - Con me, è completamente diverso. Perfino adesso ricevo lettere da mio padre che mi interroga sul perché io non sono ancora un generale quando tu, un ragazzo delle province, lo sei.

- Sia tu che la tua famiglia dovreste essere molto orgogliosi delle tue imprese.

- Dovremmo esserlo.

- Perché non prendi attentamente in considerazione la mia offerta di partire, Quinto? Le grandi nevicate non sono ancora iniziate e faresti ancora in tempo ad attraversare le Alpi senza correre rischi. Vai a casa, Quinto. Mostra alla tua famiglia quanto vali. Non sei più stato a casa da… quanti anni? Dieci?

- Almeno.

- E' troppo tempo. - Massimo sorrise. - Tu mi ritieni remoto, ma Cicero scoprì un uomo molto diverso, Quinto, quando mi fece visita in Ispania. Più rilassato. Avevo ritrovato il mio senso dell'umorismo. - Massimo sorrise e scosse la testa, poi accennò alla porta. - E' questo posto. La costante minaccia d'attacco. Il freddo. Il buio. Se io non andassi a casa ogni tanto sarei più che remoto… Sarei… pazzo. Mi manca, la mia famiglia, e il cameratismo degli uomini di quest'accampamento non può porvi riparo. Quinto… Darei quasi qualunque cosa per avere un fratello. Tu non senti la mancanza dei tuoi?

Quinto si limitò a fissare la porta.

- Sta' a sentire… Facciamo un patto. Io prometto di essere meno "remoto" e di avere più fiducia in te… come ero solito… se tu mi prometti che ti prenderai una pausa di almeno tre mesi. Così potrai tornare qui in tempo per la campagna di primavera. Tutto quel che ti sarai perso sarà un bel po' di noia, e addestramenti, ed equipaggiamenti da riparare… le solite cose del periodo invernale.

- E tu? Credevo che sperassi di tornare in Ispania per la nascita del tuo secondo figlio. Non possiamo star via entrambi.

- Mio figlio non nascerà fino a primavera e Marco Aurelio ha già dato istruzioni che tutte le licenze vengano revocate, quando il clima tornerà mite. Credo che si aspetti un'estate molto intensa. Apparentemente le tribù barbare stanno formando alleanze e Marco pensa che stiano progettando una serie di attacchi strategici. Non vorrei andarmene comunque.

- Che cosa ne pensa tua moglie?

- Non gliel'ho ancora detto. Non sarà contenta, ma capirà.

- Come sta tua moglie?

- Sta bene quanto ci si può aspettare. Mi dice che ha superato le nausee e che il suo ventre si sta ingrossando.

- E tuo figlio?

- Sta bene e cresce molto in fretta. - Massimo andò alla sua scrivania riccamente intagliata. Rovistò per un momento prima di tirar fuori qualche rotolo di pergamena avvolto in lini. Mentre ne srotolava uno con attenzione, fece un gran sorriso a Quinto. - Mia moglie ha molto talento nello scolpire e nel disegnare, Quinto, e mi invia immagini di mio figlio e della mia fattoria. - Afferrò gli estremi di un rotolo e lo tenne alzato alla luce tremula, di fronte a Quinto. - Guarda. Questo è mio figlio. Mi è arrivato la settimana scorsa.

Quinto studiò il disegno a carboncino. Mostrava un bimbo dagli occhi scuri e dal sorriso birichino seduto a fianco di un grosso cane che somigliava ad Ercole. Il bambino indossava una semplice tunica e dei sandali, ma il dettaglio nel disegno era straordinario. Olivia aveva catturato l'espressione del suo viso, ogni piega della tunica, la stringa slacciata di un sandalo, perfino le sue ginocchia sbucciate.

Massimo si compiacque della reazione di Quinto. Riavvolse con cura il rotolo e ne aprì un altro.
- E questa è la mia fattoria vista dalla strada. Non è molto lussuosa, ma soddisfa tutti i nostri bisogni. - Mentre Massimo con cautela arrotolava il disegno, aggiunse. - Olivia si è messa in testa di dipingere un affresco sulle pareti della camera di mio figlio. Mostrerà un qualche generale che cavalca il suo grande stallone nero. Le dissi che avrebbe dovuto aspettare il mio ritorno a casa, in modo che potessi farle da modello, così mi ha mandato questo. - Massimo srotolò l'ultimo rotolo e Quinto restò senza fiato.

- E' esattamente come te.

- Lo è, vero? Mia moglie voleva provarmi che ricorda ancora che aspetto ho. Disegna immagini di me per Marco, perché lui non sapeva chi ero quando andai a casa l'ultima volta.

- T'invidio.

- Non invidiarmi, Quinto, fai qualcosa invece. Va' a casa e trovati una moglie.

Quinto guardò con calore l'amico di lunga data.
- Sono contento che tu sia riuscito a venire fuori da quella fortezza. Ero devastato al pensiero che tu fossi morto in quel modo, anche se non sembrava. - Diede a Massimo un'affettuosa pacca sulla spalla. - Come vanno le tue ginocchia?

- Quasi guarite. In questo momento, però, non vorrei proprio dover pulire un pavimento sfregandolo, - sogghignò Massimo.

- Tornerai a Vindobona?

- Sì… presto. Prima che comincino davvero le nevi alte. Non voglio obbligare gli uomini a trascorrere il resto dell'inverno in un luogo come questo. Ti puoi unire a noi quando tornerai da Roma.

Quinto osservò il suo compagno mentre riavvolgeva con attenzione i disegni e li riponeva nella scrivania. Massimo era un fratello, per lui, più del suo vero fratello, nonostante le loro origini molto diverse. Ne avevano passate tante, insieme.
- Troveremo Ercole, Massimo. Quel cane è più che altro un lupo e ce ne vuole per ucciderlo… proprio come il suo padrone.

 

Capitolo 65 - Il soccorso

Massimo rotolò sulla schiena, gli occhi ancora chiusi, la mente ancora annebbiata dal sonno. La sua mano si sporse oltre il lato del letto per afferrare la pelliccia folta e calda del cane lì disteso e dargli il suo buffetto mattutino. Quando le sue dita toccarono invece il vuoto tappeto, egli balzò a sedere, pienamente consapevole degli eventi del giorno prima. Le candele che illuminavano la tenda erano bruciate molto lentamente e nessun raggio di luce filtrava dagli orli dell'apertura di pesante tela di canapa. Cicero non era ancora comparso. Doveva essere prestissimo.

Rabbrividendo nel rigore del mattino, Massimo si vestì in fretta, indossando sotto la corazza biancheria intima, due tuniche e brache, tutte di lana. Aggiunse il mantello pesante prima di chinarsi ad allacciarsi gli stivali. Da ultimo si avvolse le dita in strisce di cuoio, sperando di proteggerle dal congelamento.

Un Cicero dallo sguardo assonnato apparve sulla soglia.
- Mi sembrava di averti sentito muovere. Va tutto bene?

- Sai che ore sono?

- Manca circa un'ora all'alba, credo.

- Torna a letto, Cicero, e stai al caldo.

- Stai per uscire?

- Sì.

- Lascia che ti prepari la colazione, prima.

- Torna a letto; mangerò al mio ritorno.

- Posso chiedere dove stai andando, signore?

- Alla fortezza, - disse Massimo afferrando la spada e uscì nell'aria tagliente della notte. Una luna piena guidò il suo cammino fino alla stalla, dove egli lentamente aprì la spessa porta di legno sperando di minimizzare lo scricchiolio. Avendo fattolo centinaia di volte, non ebbe bisogno di luce per andare direttamente agli stalli dei suoi stalloni e gettare una coperta ed una sella su uno sbigottito Scarto. - Spiacente di disturbare il tuo sonno, - bisbigliò al cavallo mentre stringeva lo straccale, - ma ho bisogno del tuo aiuto, oggi.

- Ehi, che cosa stai facendo! - urlò il ragazzo di stalla emergendo dai suoi quartieri sul solaio, la torcia che proiettava sul muro un'enorme ombra ingigantita dell'uomo e del cavallo. - Oh… scusami, generale. Non sapevo che fossi tu, - farfugliò il ragazzo superando lo spavento.

- E' bello vederti al lavoro così presto, Attico. Prepara razioni extra per Scarto perché ne avrà bisogno quando torneremo. - Il ragazzo si limitò ad annuire poi saltò fuori portata quando Massimo balzò a cavallo con un volteggio e uscì in fretta dalla stalla. Non aveva ancora oltrepassato la porta che spronò Scarto al galoppo e le guardie sbigottite scattarono ad aprire il cancello mentre l'animale sbuffante si precipitava su di loro. Le spade afflosciate nelle mani, rimasero lì con gli sguardi fissi, mentre lo scuro cavallo con il loro generale armato svaniva nell'oscurità del primo mattino.

Una volta sul sentiero per la fortezza, Massimo mise Scarto al passo, non desiderando rischiare la sicurezza di un animale per salvarne un altro. Prestissimo quel mattino, nelle tenebre tra il sonno e la consapevolezza, la mente di Massimo si era focalizzata sul problema che per tutta la notte aveva disturbato il suo riposo. Il cane non era nell'accampamento e neppure nei boschi. Era nella fortezza. Il perverso senso dell'umorismo di Commodo lo avrebbe trovato molto spiritoso… il cane intrappolato e morente dove si era supposto che fosse perito il suo padrone.

Quando l'imponente muro di pietra si profilò di fronte a Massimo, l'alba stava sorgendo ed egli riusciva a distinguere gli alberi dal cielo, e i banchi di neve dalla roccia. Quando raggiunse il muro settentrionale della fortezza, poteva distinguere abbastanza dettagli da procedere con il suo piano. Massimo fu sollevato di trovare la galleria ancora sgombra dalla neve, e, quando si accovacciò, riuscì a vedere la luce dall'altra parte del buio passaggio. Si mise cautamente sulle ginocchia, che immediatamente protestarono, così si stese sul ventre, scegliendo di scivolare attraverso la galleria piuttosto che rischiare la collera di Marciano. Concentrandosi sulla luce davanti a sé, fu presto fuori, e di nuovo in piedi. Il suo sguardo percorse rapidamente le familiari strutture demolite, poi Massimo si diresse istintivamente verso l'unico luogo all'interno delle mura che gli aveva offerto un po' di conforto.
- Ercole? - chiamò camminando. - Ercole, dove sei, bello? - Si fermava ogni pochi metri ad ascoltare, ma non udì alcun abbaiare di risposta.

La porta della capanna di Helga era aperta e la neve era entrata all'interno spinta dal vento, creando piccoli cumuli increspati dove lui aveva dormito. La capanna era vuota, eccetto che per la neve, un mucchio di carboni di legna che era ciò che rimaneva del fuoco da campo… e un piccolo tumulo di terra rivoltata di recente. Massimo s'inginocchiò lì e la sua mano sfiorò con delicatezza il suolo.
- Mi dispiace tanto, - sussurrò.

- Massimo? Massimo!

Massimo andò alla porta della capanna e guardò verso la galleria.
- Sono qui, Quinto!

Il legato discese il sentiero di corsa, sforzandosi di mantenere l'equilibrio sulla neve.
- Che stai facendo qui?

- Come facevi a sapere che ero qui?

- Mi hanno svegliato le sentinelle, preoccupate per te che cavalcavi tutto solo fuori nella notte. Non riuscivo a pensare ad un altro posto dove potevi essere andato.

- Ercole è qui da qualche parte.

- Come lo sai?

- Istinto.

- Bene, hai provato a chiamarlo?

- Naturalmente, - rispose Massimo con una punta d'impazienza.

- Non ti ha risposto, - disse Quinto, evidentemente scettico che il cane fosse nella fortezza.

- Lo farebbe, se potesse.

- D'accordo, dividiamoci la fortezza…

- No. La perlustrerò da solo per intero. E' l'unico modo in cui mi riterrò soddisfatto, Quinto. - Cercò di ammorbidire il suo tono, aggiungendo: - Sarei lieto che tu mi aiutassi, comunque.

Quinto arricciò il naso:
- Spero che quella grossa bestiaccia puzzolente ne valga la pena, amico mio.

- Non è puzzolente, - protestò Massimo.

Quinto alzò le mani con finta costernazione.
- Non ti ricordi quella volta in cui catturò quella moffetta e la trascinò per tutto l'accampamento?

Massimo si strinse nelle spalle.
- Fu solo un momentaneo errore di giudizio.

Quinto sorrise.
- Vieni, Massimo, troviamolo, così potremo tornare all'accampamento e fare colazione.

 

Mezzogiorno era passato da molto e i loro stomaci stavano brontolando per la fame, quando si fermarono per riposare. Spazzarono la neve dalla sommità di un basso muro di pietra e vi si sedettero.

- Non è rimasto molto da controllare, - osservò Quinto mentre lanciava uno sguardo circolare alle rovine.

- Se non lo troveremo, lo cercheremo ancora. - La voce profonda di Massimo era leggermente rauca a furia di gridare il nome del cane più e più volte.

- Hai preso in considerazione l'idea che Commodo possa aver portato il cane con sé?

- No. Non si sarebbe scomodato a farlo. Ercole è qui da qualche parte, vivo o morto, e io intendo trovarlo, in un modo o nell'altro.

Udirono una voce in lontananza.
- Generale! Generale, dove sei?

- Cicero, siamo qui! - Massimo saltò sul basso muro e fece cenno di avvicinarsi al suo servitore, il quale stava portando degli involti in una tovaglia. - Spero che sia cibo, Cicero!

- Lo è infatti, signore, - rispose lui avvicinandosi ai due uomini affamati. - Nessuna fortuna?

- Non ancora. Che cosa ci hai portato?

- Ah… - Cicero aprì i lembi della tovaglia e sbirciò all'interno, come se cercasse di ricordarne il contenuto. - Pollo e carne di cervo, pane, formaggio e vino, che era caldo quando sono uscito. E ho del coniglio per il cane quando lo troverete. Mi pare di ricordare che sia il suo cibo preferito.

- Bravo, - disse Massimo sommessamente, sinceramente grato per la sua premura. Mangiò in fretta, ansioso di tornare al suo compito.

Assorti nel loro pasto, ci volle un minuto a Quinto e Cicero per rendersi conto che Massimo non era più con loro.

- Dove…? - cominciò Quinto, ma Cicero gli afferrò la manica e puntò l'indice. Massimo stava camminando lentamente verso un basso muro curvo, il cibo dimenticato nella mano. Quando capì che cos'era quella struttura, lasciò cadere la carne di cervo nella neve e usò il braccio per spazzare via la superficie di un pesante coperchio di legno che copriva un pozzo.

- Aiutatemi a toglierlo, - chiese, e i suoi due compagni corsero rapidamente al suo fianco, anche il loro cibo dimenticato. - Insieme, - ordinò Massimo, e subito il coperchio ruzzolò a lato del pozzo per atterrare sul bordo, poi rotolò a breve distanza prima di cadere nella neve. Massimo scrutò nella caverna. - Ercole? - chiese incerto, la voce un'eco cupa. La risposta fu un uggiolio che terminò in un lamento.

- Ercole! - gridò Massimo. Si voltò verso Quinto e Cicero, sollievo e preoccupazione impressi sul suo viso. - Lo abbiamo trovato, ma qualcosa non va, altrimenti avrebbe abbaiato.

- Quant'è profondo?

- Non lo so. E' troppo buio per vedere qualcosa, - rispose Massimo. - Resisti, Ercole. Ti faremo uscire, bello.

Quinto e Cicero si guardarono. Come avrebbero fatto?

- Una corda. Ci vuole una corda, - disse Massimo. - Scenderò là. - I due uomini si limitarono a fissare il loro generale. - Trovate una corda! - gridò Massimo facendoli scappare di corsa. Quando tornarono, con una corda in mano, Massimo si era sporto così tanto sul muro del pozzo che Cicero gli afferrò il fondo della corazza, atterrito all'idea che cadesse a testa in giù.

Il viso di Massimo era rosso.
- I lati del pozzo sembrano di solido ghiaccio. Sospetto che lo sia anche il fondo. Non riesco a vedere tutto il percorso giù, ma credo che possa essere profondo forse sette, otto metri ed è piuttosto stretto, come potete vedere. - Massimo guardò nel pozzo, poi di nuovo i suoi amici. - Dovrete calarmi lentamente e io cercherò un appiglio contro i muri…

- Che cosa? Non scenderai laggiù, - disse Quinto inflessibile.

- Sì.

- No.

- . - replicò Massimo, conscio che sembravano una coppia di bambini litigiosi.

- Signori, signori, - interloquì Cicero. - Mi trovo qui, davanti al più importante comandante di tutto l'esercito romano e al suo secondo in comando. Non sono che un semplice servitore. Ora, ditemi voi chi di noi dovrebbe scendere laggiù.

- Non potrei mai chiedertelo, Cicero. E' il mio cane.

- Non lo stai chiedendo. Sono io che mi offro. Inoltre, mi sono molto affezionato a quella bestia durante il nostro viaggio in Ispania.

- Lascia che lo faccia lui, Massimo. Non me la sento di dover spiegare a Marco Aurelio che il suo generale preferito si è spaccato la testa in due cadendo da un pozzo mentre cercava di soccorrere un cane.

- E' il mio cane. - replicò Massimo ostinato.

- Massimo, - Quinto si schiarì la gola. - Io rifiuto di obbedire al tuo ordine di aiutarti a calarti in quel pozzo perché non è basato su saldo raziocinio, ma soltanto sull'emozione. - C'era una traccia di compiacimento nella voce di Quinto. - Un generale che io ammiro grandemente una volta mi disse che dovrei mettere in discussione…

Massimo alzò le mani in segno di resa, facendo tacere Quinto.
- Che sia Cicero.

- Ehiii, laggiù! - Tre tribuni stavano in cima al muro orientale agitando le mani. - Lo hai trovato, generale?

- Sì, è in fondo a questo pozzo, - gridò Massimo in risposta.

- E' vivo?

- Sì, ma sono sicuro che è ferito!

- Non muoverti, generale! Veniamo lì ad aiutare. - Corsero lungo il muro verso il lato meridionale poi scomparvero.

Massimo continuava a parlare ad Ercole con tono rassicurante mentre aspettavano che arrivassero gli aiuti. Ercole riuscì solo a uggiolare in risposta.

Nel giro di mezz'ora i tre uomini nella fortezza erano stati raggiunti da almeno un'altra dozzina, tutti portavano corde e aste di legno, e uno un'imbracatura di canapa.

Un colpetto sulla spalla fece voltare Massimo ed egli si trovò a faccia a faccia con Giovino.
- Fatti da parte, generale. Sono io l'ingegnere, qui, e farò tirar su il tuo cagnetto in un batter d'occhio. Ti ricordi di mio figlio, vero? Il ragazzo che ha scalato l'albero?

- Certamente. - Massimo sorrise e strinse la mano dell'alto giovinetto smilzo.

- E' proprio quel che ci vuole per scendere in quel pozzo, non certo un uomo ben piantato come te, signore. Va' a sederti là sopra, se non ti spiace, e lasciaci fare il nostro lavoro. - Giovino diede a Massimo una leggera spinta per toglierselo dai piedi, inducendo dozzine di sopracciglia a sollevarsi di colpo verso il cielo. Massimo, tuttavia, sapeva bene quando combattere e quando ritirarsi e ritornò al muretto per sedersi.

In breve tempo, Giovino aveva fatto misurare il pozzo e formulato un piano. I suoi uomini costruirono in fretta sopra il pozzo un marchingegno che avrebbe sorretto una solida imbracatura e calato lentamente il giovane Giovino nella cavità. Giovino avrebbe messo il cane nell'imbracatura e l'animale sarebbe stato tratto in superficie da una squadra di soldati vigorosi, poi anche il ragazzo sarebbe stato tirato su.

Massimo sedeva sul muro vicino rosicchiandosi nervosamente l'unghia del pollice, mentre osservava gli avvenimenti, osservati anche da centinaia di soldati che ora si erano allineati lungo le mura. Sapevano che se si fossero trovati nei guai il loro generale sarebbe ricorso a misure straordinarie anche per salvare loro. Ecco che uomo era.

Massimo si alzò in piedi quando il ragazzo scomparve lentamente nel pozzo, e si chiese perché stesse permettendo al giovane di rischiare la vita per salvare un cane. Fece qualche passo verso il pozzo, ma fu fermato da una voce familiare.

- Non ti rendi conto di che cosa sta succedendo qui, Massimo? - chiese Marciano che era stato in piedi dietro di lui per un po', senza farsi notare.

Massimo era perplesso.
- Che cosa vuoi dire?

Marciano si avvicinò all'amico e disse a bassa voce.
- L'intera legione si sente terribilmente in colpa per non aver sfidato Commodo e averti tratto in salvo da questa fortezza, perciò permetti loro di salvare almeno il tuo cane per te, invece, d'accordo? - Accennò alle mura. - Guarda lassù. - Massimo lo fece e vide che ogni centimetro di spazio del muro intorno alla fortezza era occupato da un soldato. - Siediti di nuovo e lascia che siano gli uomini a far questo per te. E' il loro modo di chiedere scusa.

Mentre Massimo tornava al muretto, Marciano disse con una voce che coprì una bella distanza:
- Ho con me le mie dotazioni mediche, pronte per aiutare Ercole quando sarà portato su… e se non smetti di rosicchiarti quell'unghia, generale, potrei doverti amputare il pollice.

Spezzatasi la tensione, i soldati nelle vicinanze risero e, leggermente imbarazzato, Massimo nascose la mano tra le ginocchia, lo sguardo sul pozzo e sugli uomini che vi lavoravano.

All'improvviso un acuto lamento dalle profondità del pozzo fece balzare in piedi Massimo, subito tirato di nuovo giù da Quinto, che gli aveva afferrato le cinghie posteriori della corazza.
- Massimo, resta seduto finché Ercole verrà portato in superficie. Per favore. Non c'è niente che tu possa fare.

- Posso parlargli. - Massimo era di nuovo in piedi e stava andando al pozzo, la determinazione evidente in ogni passo. Nessuno osò fermarlo, questa volta. Si fece strada con forza fino alle spalle di Giovino e guardò oltre il bordo appena in tempo per vedere l'imbracatura emergere dalle ombre con il suo carico di pelliccia. Un unico ansito salì da dozzine di gole.

Il cane era appena cosciente, ma le sue orecchie si mossero al suono della voce rassicurante di Massimo. Cominciò ad agitarsi, ma le sue zampe anteriori e posteriori erano fermamente legate insieme con una corda che era penetrata con forza nella pelliccia e nella carne. Una corda identica gli imbavagliava il muso e gli chiudeva saldamente le mascelle. Bava sanguinante colava attraverso i labbri.

Massimo lottò contro l'ira nel suo cuore, mentre sommessamente cantava ad Ercole parole d'incoraggiamento. Non notò nemmeno Marciano che con attenzione tagliava la corda che bloccava le mascelle del cane, finché le sue mani vennero inumidite da una lunga lingua calda. Massimo tenne fermo l'animale quando il medico tagliò la corda che gli legava le zampe e rapidamente le bendò. Debole per la fame e la sete, Ercole sembrava contentarsi di rimanere nell'imbracatura con Massimo al suo fianco.

- Ebbene? - chiese Massimo a Marciano.

- Dovrò dargli un'occhiata più da vicino, ma potrebbe avere una zampa rotta e forse qualche costola rotta. Con il muso legato non è stato nemmeno in grado di bere, perciò si è disidratato.

Non riuscendo a vedere esattamente che cosa stava succedendo, un soldato sul muro gridò giù:
- Il cane è salvo, adesso, signore?

Massimo rispose agitando la mano, ed un'enorme acclamazione echeggiò su ogni superficie all'interno della fortezza. La gioia rapidamente diminuì, tuttavia, mentre la notizia delle condizioni dell'animale circolava attorno alle mura, e il nome "Commodo" stillò come veleno da centinaia di lingue.

I soldati sul muro meridionale avevano attrezzato un montacarichi per issare il cane e Massimo andò in quella direzione. Quinto si mise al fianco del suo generale, ma Massimo gli sibilò:
- Che ne pensi del figlio dell'imperatore adesso, Quinto? - Il legato rimase indietro di qualche passo, scosso dall'ira di Massimo e dalla propria scarsità di giudizio sulle motivazioni di Commodo. Forse era proprio il momento di una licenza, pensò Quinto. Forse qualche tempo lontano dalla legione lo avrebbe aiutato a mettere ogni cosa in prospettiva. Avrebbe fatto i bagagli quella notte stessa.