Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo VII - Gli anni ad Ostia, 175-176 d.C. - Prima parte

Il carro fece un giro largo e Mario Servilio sollevò brevemente lo sguardo dalla tavoletta di dettatura che stava correggendo.
- Ci siamo quasi, - disse e cominciò a metter via gli strumenti di scrittura. Eravamo partiti da Ostia due giorni dopo la cerimonia nuziale. Io viaggiavo accanto a mio marito nel suo carro spazioso e confortevole. Egli vi aveva fatto incorporare uno scrittoio allo scopo di occupare con la corrispondenza e altri documenti le tediose ore che ogni viaggio richiede. Come aveva detto, non gli piaceva sprecare tempo. E in quanto a me, ero stata troppo occupata a dedicarmi ad una Rubia molto inquieta per essere in grado di leggere più di qualche paragrafo dei rotoli che avevo scelto. Era ormai una gatta completamente adulta, un grosso felino con un vivace pelo lucente
e circospetti, enigmatici occhi verdi. Fin da quando erano cominciati i preparativi per le mie nozze ed il trasloco ad Ostia, Rubia era stata chiaramente nervosa, un’altra prova che i gatti sono molto più sensibili degli esseri umani. Essi apprezzano i vantaggi di una vita quieta e non si tuffano imprudentemente in avventure impulsive. E, se vogliono vendetta, semplicemente usano i loro artigli.

Mario Servilio non aveva fatto commenti sulla presenza della mia compagna a quattro zampe dai tre colori. Aveva semplicemente offerto a Rubia e a me uno sguardo divertito prima di tenersi occupato con qualunque cosa occorresse per condurre un commercio.

 

Viaggiammo lungo la Via Ostiense, una delle viae romanae tra le più grandi, pavimentate e meglio tenute, così il viaggio fu più semplice e rapido di quanto mi aspettassi. Apollinario, Nicia, e Atenodoro - quest’ultimo stava per prendere il posto dell’attendente della villa dato che a quell’uomo anziano era stato offerto il pensionamento - e i segretari di Mario Servilio ci seguivano in un altro carro. Il convoglio dei bagagli era stato spedito il giorno prima per permettere ai servi di occuparsene in anticipo. Il mio bagaglio personale era stato accresciuto in modo imbarazzante da numerosi bauli colmi della seta, del lino, della lana e del cotone egiziano migliori che denaro potesse comprare, per non menzionare sandali e scarpe, scialli e mantelli, profumi e cosmetici al di là dei più sfrenati sogni di qualunque donna. I gioielli che si accordavano al mio nuovo guardaroba viaggiavano con me in due scrigni laccati. Quando cercai di protestare, Mario Servilio semplicemente alzò le spalle e disse che era solo un saggio di quello che potevo aspettarmi quando certe navi attraccavano ad Ostia. Poi mi ricordò realisticamente che adesso ero la moglie di un uomo agiato e che ci si aspettava che anche la mia immagine esprimesse questo nuovo status.

 

Otrepassammo le enormi colonne che segnavano l’ingresso alla proprietà, e imboccammo un curvo sentiero a ciottoli orlato da alta vegetazione rigogliosa color verde scuro. Ad intervalli regolari, c’erano supporti di ferro per le torce. Mentre il carro avanzava senza sbalzi e senza rumore io non fui sorpresa di udire il rumore della risacca o di sentire un odore leggermente salmastro. Nicia mi aveva già detto che la villa si apriva sul mare. Il carro aggirò un’ultima curva e si fermò…
Trattenni il respiro. Sotto l’ultima luce del sole, la magnifica villa splendeva di sfumature di rosa e oro, tuttavia non v’era dubbio alcuno che fosse d’un bianco immacolato sia alla luce del sole che della luna perché era ricoperta di lucido marmo di Carrara. Era alta due piani e si incurvava gentilmente con un portico continuo lungo la facciata anteriore per ombreggiare le stanze dal sole cocente. Il portico era sostenuto da colonne di marmo bianco e in mezzo ad ogni coppia di esse c’era una statua di marmo a grandezza naturale di una dea con veste leggiadramente drappeggiata. Un’ampia terrazza si apriva da una stanza ad angolo del piano superiore. Nel centro della costruzione c’era una cupola perfetta. All’ingresso c’era un giardino lussureggiante anche se non fantasioso, adornato da una vasca riflettente e fontane gorgoglianti, contornato da un colonnato decorativo e panche di marmo. C’era un grosso pesce rosso nella vasca e la fontana più grande esibiva la familiare nave di marmo. Le altre erano adornate o da delicate ma sensuali sirene o da muscolosi, egualmente sensuali tritoni.

 

Molti servi ci stavano aspettando all’ingresso della casa, uomini e donne dai vestiti puliti e ben curati, una macchia confusa di facce, vesti, colori e lineamenti. Tutte le teste si chinarono rispettosamente quando Mario Servilio scese dal carro. Egli mi offrì la mano e mi aiutò a scendere e, mentre lo faceva, all’improvviso mi resi conto che era la prima volta che lo toccavo. La consapevolezza dovette essere palese sul mio viso perché il suo manifestò un leggero divertimento. Poi egli mise la mia mano sul suo avambraccio e s’incamminò verso i servi con me al suo fianco, una sorta di prova, la mia prima apparizione pubblica come sua moglie.
- Ecco la vostra padrona Giulia, - disse in tono casuale rivolto ai servi. - E’ mia moglie e quindi la signora di questa casa. La sua parola sarà legge che la governerà d’ora in poi. E’ alla sua generosità che dovete la vostra recente libertà. Mi avete servito bene e lealmente. Servite lei come avete servito me e io sarò doppiamente contento.

I servi alzarono gli occhi, guardandomi con un misto di curiosità e timore reverenziale. Probabilmente si erano aspettati una vecchia matrona, qualcuna più vicina all’età del loro padrone. O forse una creatura ottusa che non aveva il senso della proprietà e aveva chiesto al marito che liberasse i suoi schiavi invece di aggiungere quelli di lei alle loro file, perché gli schiavi di casa avevano le loro regole e quando il fato li pone in ricche tenute alcuni possono essere perfino più boriosi dei loro padroni. Invece si dovevano confrontare con una giovane diciannovenne dai capelli rosso oro che non molto tempo prima era stata una serva come loro, anche se d’un genere differente. Io non sapevo che cosa fare o se ci si aspettava che facessi qualcosa, così non feci nulla, ma annuii appena verso di loro. Tutte le teste si chinarono di nuovo e ancor più profondamente. Mario Servilio s’incamminò verso le doppie porte anteriori della villa e anche se non mi guardò seppi che era compiaciuto della mia dignitosa interpretazione.

Io invece mi sentivo una perfetta idiota.

All’interno, l’edificio era magnifico quanto l’esterno. Entrammo in un enorme atrio a due piani dalla forma ottagonale, sormontato da una cupola completa con un’apertura al centro per permettere alla luce di entrare nello spazio imponente. I raggi del sole morente inondavano l’elaborato mosaico bianco e nero del pavimento a moduli geometrici. La cupola era supportata da colonne di marmo bianco più sottili, che formavano un largo cerchio nella sezione centrale dell’atrio. Torce e lanterne erano pronte contro i muri al di là del colonnato, dove si aprivano porte di quercia scolpita. Tra le porte c’erano alcove contenenti altre statue di marmo a grandezza naturale. L’atrio si apriva da un lato su un cortile pieno di cespugli fioriti dove potevo vedere ulteriori fontane. Dall’altra parte, era visibile un’altra ala della villa.

Mario Servilio si fermò.
- Ti saranno mostrati i tuoi appartamenti, domina, - disse lasciando andare la mia mano. - Confido che li troverai abbastanza confortevoli. Molte cose reclamano la mia attenzione e tu sei stanca. Ti vedrò domani a colazione al peristilio se il tempo è bello. Se no, ci vedremo nel mio studio. - Detto questo, s’inchinò, si voltò e se ne andò, seguito dai suoi segretari.

Due governanti apparvero dal nulla e guidarono Nicia e me verso una delle porte di quercia scolpita, l’aprirono e si fecero da parte per permetterci di entrare nel vasto corridoio che finiva in una gradinata di marmo leggermente ricurva. Prima di salirla, non riuscii a fare a meno di voltarmi verso Apollinario in cerca di aiuto davanti a quella casa enorme, delle dimensioni di un tempio. Ma il mio precettore, che stava reggendo Rubia, si era fermato ad ammirare una statua ad altezza naturale di squisita fattura. Nicia gentilmente gli tirò la toga per riportarlo alla realtà ed egli arrossì come un ragazzo colto ad ammirare un affresco erotico.

In cima alla scalinata c’era un’altra porta e, oltre questa, l’appartamento privato che doveva diventare il mio rifugio. C’era un grande salotto elegantemente arredato che si apriva sulla terrazza che avevo visto dal giardino. Attorno alla stanza c’erano altre tre porte di quercia. Una si apriva su una grande camera da letto confortevole, lussuosamente arredata con un enorme letto a baldacchino, e il suo adiacente bagno completo. Un’altra, su una camera più piccola che si apriva anch’essa sulla terrazza, nella quale trovai uno scrittoio, qualche sedia, un divano da lettura e vari armadi e bauli. La governante più anziana spiegò che, in origine, era stata una stanza da cucito e tessitura per la signora della casa, ma il padrone aveva ordinato di farla riarredare come uno studio privato dove avrei potuto leggere e scrivere. La terza porta si apriva su una seconda stanza da letto più piccola, senza finestre. I muri erano rivestiti di affreschi pastorali ed il soffitto era dipinto come il cielo. Anch’essa aveva adiacente una stanza da bagno completa. Non avevo bisogno che la governante mi dicesse che era una stanza per un neonato e la sua balia.
Una stanza destinata a rimanere vuota come il mio grembo.

Ci fu una piccola confusione sulla terrazza. Dalla seconda stanza da letto udii un rumore di un vaso di fiori che cadeva e si rompeva e l’ansito di Apollinario. Grata di una scusa per lasciare quella stanza infelicemente predestinata, mi affrettai ad uscire all’aria aperta. Quando attraversai l’arcata che separava il salotto dalla terrazza, vidi la ragione del comportamento poco dignitoso del mio tutore… e non potei che ansimare anch’io: la terrazza si apriva sul mare, un nastro di sabbia dorata chiaramente visibile oltre gli alberi e al di là della sabbia… l’infinito blu del Tirreno, così profondo sotto la luce del crepuscolo, da sembrare indaco. Con timore reverenziale andai verso la balaustra di marmo scolpito e silenziosamente mi misi accanto ad Apollinario.
- Thalasa[1], - disse con voce così bassa che stentai ad udire la parola.

- Hai sentito la mancanza del mare. - Non era una domanda. Egli sorrise debolmente.

- Fino a questo momento, non mi ero mai reso conto quanto, - disse, e poi aggiunse. - Grazie, Giulia. Grazie per avermi ricondotto al mare.

Non avevo bisogno di vedere i suoi occhi per sapere che erano colmi di lacrime.

 

La mattina seguente, l’alba era nuvolosa e ventosa, così incontrai Mario Servilio nel suo studio al piano terra. Anche se ero sposata da qualche giorno, già conoscevo le sue abitudini. Mio marito si alzava presto e gli piaceva cominciare a lavorare prima della sua stessa servitù. Sbrigava la corrispondenza quando era ancora buio, poi faceva il suo bagno quotidiano. La colazione era già stata preparata quando veniva fuori vestito per il giorno e non appena finiva di mangiarla, i suoi segretari venivano ammessi nello studio. Lavoravano insieme per un paio d’ore. Poi tutti e tre uscivano per le loro quotidiane commissioni. Non rientrava mai a pranzo. Tornava sempre prima del crepuscolo. Ci vedevamo a cena e facevamo una breve chiacchierata. Poi mi augurava la buona notte e ritornava nel suo studio. Anche se io spegnevo tardi le mie lampade dopo aver letto per un’ora o due, era anche molto più tardi quando udivo i suoi passi mentre ritornava alle sue stanze.

Il suo studio alla villa era grande e confortevole dacché si addiceva al luogo dove trascorreva la maggior parte del suo tempo. C’erano divani e sedie, un massiccio scrittoio, sgabelli per i suoi segretari, scaffali per i documenti e anche una robusta cassetta. Bei murali decoravano le pareti, tutti con scene marittime. Parecchi modelli di navi erano posti sugli scaffali. Ce n’era uno anche in cima al suo scrittoio, un modello squisitamente dettagliato di un vascello che immediatamente riconobbi: era lo stesso che abbelliva la fontana nella casa di Roma e quelle del giardino della villa.

La colazione era stata approntata su un tavolino accanto al divano nel quale mio marito era seduto con gli onnipresenti stilo e tavolette da dettatura. Li mise da parte quando mi vide. Io restai a guardare la nave sul suo scrittoio.
- Questo è il Poseidon, la nave che ha dato inizio alla flotta, - disse Mario Servilio. - La feci costruire quando avevo sedici anni.

- Credevo che fosse stato tuo nonno ad iniziare il commercio, - dissi dirigendomi verso la sedia vicina al tavolino della colazione.

- Egli iniziò il commercio d’importazione e andò bene. Mio padre lo ereditò e sviluppò ma io volevo andare oltre. Volevo che avessimo le nostre navi, - disse Mario Servilio. Fece un attimo di pausa, poi continuò. - Cercai di convincerlo ad entrare nel commercio navale ma egli diceva che era troppo rischioso e costoso e, soprattutto, esigeva tempo che egli non aveva. Così gli dissi che avrei supervisionato io la costruzione. Mio padre fu impressionato. Ero appena uscito dalla mia toga praetexta e anche se fosse stato accettato che stavo per entrare in affari e mi fossi fatto valere, costruire una nave era qualcosa di completamente diverso. - Mentre parlavo, Mario Servilio prese un po’ di formaggio e del pane. - Io insistei. Oh, quanto volevo avere una nave! Una nave leggera, veloce. Così finalmente mio padre accettò, mi affidò la responsabilità del progetto e si preparò ad affrontare le perdite... La misi in acqua un mese prima del tempo previsto e subito dopo portai ad Ostia il mio primo carico navale d’olio d’oliva. Arrivai prima di altri importatori e guadagnai il mio primo denaro. Una piccola fortuna, a proposito.

Mio marito mi offrì un sorriso, non quel suo solito sorriso freddo, ma un sorriso spontaneo.

- Mio padre mi prese come socio e nessuno mi trattò più come un ragazzo.

- Il Poseidon è ancora in flotta? Voglio dire… - non sapevo nulla di navi a parte il fatto che esse viaggiavano sull’acqua e che questo mi terrorizzava.

- Sì, domina. Esiste ancora. E’ stato più fortunato di altre navi che ho costruito o comprato. Ma è stato ritirato perché è troppo vecchio per continuare a navigare.

- Lo tieni qui, in Ostia?

- Sì, in un bacino di carenaggio. Se fosse rimasto in acqua, sarebbe finito mangiato dai tarli. Né i mari né le tempeste potevano umiliarlo così io non ho voluto che il mio vecchio ragazzo facesse una fine così insignificante. Inoltre, il Poseidon deve ancora svolgere un altro servizio per me…

- Hai in mente di rimetterlo in opera? - chiesi. La conversazione era stranamente interessante. Mario Servilio sorrise di nuovo, ma questa volta fu un sorriso amaro.

- No, domina. Non lo voglio rimettere in opera, ma ha ancora un viaggio da fare…

Arcuai le sopracciglia con fare interrogativo.

- Quando morirò, voglio essere cremato sulla spiaggia. Il Poseidon fornirà il legno per la pira funebre. Sarà più che sufficiente…

Sbiancai.
- Domine… - Egli fece un gesto per bloccarmi.

- Tu dovrai occuparti del funerale, quindi devi conoscere le mie volontà. Voglio essere cremato. Non sono d’accordo con questa terribile nuova moda romana delle sepolture. Non voglio essere mangiato dai vermi. Né una nave né un uomo meritano un tale fato.

Ci fu un lungo silenzio. Aveva mangiato pochissimo, soprattutto giocherellato con il cibo.

- Domina, quando risiedo ad Ostia sono anche più occupato di quando sto a Roma. Non ti vedrò usualmente per colazione perché sono solito andare al porto, ai magazzini e ai cantieri molto presto al mattino. - Si voltò e prese un papiro che aveva lasciato sul divano. - La notizia che ho preso moglie si è già sparsa ed i miei associati ed altri conoscenti commerciali sono ansiosi di conoscerti. Sarà più facile se li invitiamo a gruppi per cena che non se cominciano a chiamare loro. - Mi porse il papiro. Era una lista. Rapidamente contai quattrodici nomi. - Questi sono gli ospiti che dovremmo ricevere per primi. Ho messo la data entro una settimana. Dovrai curarti del ricevimento.

Egli aveva già chiarito che si aspettava che io gestissi la proprietà familiare e la tenuta agricola e mi curassi dei suoi ricevimenti. Ma non mi ero aspettatata di doverlo fare così presto. Non so come, riuscii a mantenere ferma la voce.
- E quali sono le tue istruzioni per il ricevimento, domine?

Egli agitò la mano sottile congedando la domanda.
- Sono certo che qualsiasi cosa sceglierai andrà bene. Mi fido di te completamente.

- Perché io? - chiesi a voce bassa ed entrambi sapevamo che non stavo parlando del ricevimento ma del nostro matrimonio. Mario Servilio si distese sul divano.

- Perché tu hai alcune rare virtù. Per esempio, sai come ascoltare e come imparare. Perché hai buon senso e non ti manca il coraggio. Perché sei intelligente ed indipendente. E perché vuoi vendetta. - Mi guardò con il suo sguardo gelido e continuò. - Quando ero ragazzo, prima di provare a me stesso di essere un uomo d’affari, mio padre voleva che fossi un uomo istruito. Aveva persino contemplato l’idea di comprare per me un avanzamento sociale. Avrebbe potuto facilmente comprare per sé un posto nel rango equestre, tuttavia era un uomo timido e riservato, malgrado tutto il suo denaro. Pensava che il figlio di un ex schiavo fosse troppo vicino al blocco dell’asta per aver diritto ad ascendere la scala sociale romana e conservò quell’onore per me, - disse mio marito nel suo usuale tono realistico. - Ma io non volevo un avanzamento sociale, né un posto nelle fila di un gruppo di uomini che non volevano tra di loro il nipote di uno schiavo. Volevo aver successo, ma non il successo puro e semplice: lo volevo alle mie condizioni e con le mie regole. Tu vuoi lo stesso, domina. Ecco perché.

Non c’era nulla da dire. Nulla da aggiungere. Aveva ragione. Volevo aver successo e volevo vendetta. Ma, soprattutto, volevo Massimo. E non potevo averlo. Così anche di più volevo vendetta.

- Come ti ho detto, domina, sposando me ti sei procurata un lavoro. Ben pagato, ma anche molto duro. Tuttavia confido che ti piacerà anche se non sarà facile. Sei quel genere di donna, - aggiunse prendendo lo stilo e le tavolette di cera. - Ci vorrà un po’ di tempo perché impari come gestire convenientemente la tenuta e la proprietà e in futuro parleremo di alcune cose che voglio tu faccia per me, come riprogettare i giardini. Volevo farlo da anni ma non ho mai avuto il tempo. Voglio che siano magnifici. Quando sei in affari, la tua casa non è che un’estensione di essi e l’intrattenimento fa parte del lavoro.

Annuii e in silenzio arrotolai il papiro contenente la lista degli ospiti.

- Una volta che avrai gestito la tenuta e la proprietà, ti insegnerò i miei affari.

Io ero stupefatta.
- Cosa? - riuscii a farfugliare.

- Domina, tu sarai mia erede e io non so quanto tempo mi rimane. Non abbastanza, di sicuro. Non puoi aspettarti che ti cada in grembo un commercio di queste dimensioni senza saperne nulla.

- Io… credevo che ci sarebbero stati degli agenti e altre persone a gestirlo…

- Ci sono e ci saranno, ma se tu non ne prenderai parte attiva, non potrai aspettarti altro che essere imbrogliata o truffata.

- Le navi mi fanno paura, - sbottai. - L’acqua mi fa paura! Non so nuotare!

- Domina, si suppone che tratterai di navi dalla sicurezza di uno scrittoio, non dal ponte. Ma si possono facilmente predisporre delle lezioni di nuoto. C’è una grossa vasca nella proprietà e anche un laghetto appartato se vuoi maggiore riservatezza.

- No! - Circa un anno prima un rude e affascinante generale romano aveva promesso alla schiava prostituta dai rossi capelli dorati, spaventata e sotto l’effetto della droga, di insegnarle a nuotare. Tuttavia egli l’aveva semplicemente assecondata e l’aveva abbandonata mentre nel sonno ella cercava di obliare la propria infelicità. La donna libera ricca e istruita che ero diventata voleva vendetta anche per questo. - Non so nulla di affari… - protestai.

- Imparerai e ti piacerà, perché significherà trattare con uomini che non vogliono trattare con una donna. Perciò tu dovrai imporre le tue regole e attenerti ad esse. Ecco perché sei tu e nessun’altra.

Con nervosismo mi rigirai l’anello nuziale intorno al medio. Mario Servilio lanciò una rapida occhiata all’orologio ad acqua su un tavolo vicino.
- Adesso, domina, se vuoi scusarmi, ho un appuntamento. Ti vedrò a cena.

Mi alzai e annuii di nuovo, poi mi voltai per andarmene. Fu allora che lo vidi. Il busto di marmo a grandezza naturale di una giovane donna, posto su una colonna semplice ma squisita. Il suo viso era tondo e placido, i capelli raccolti in una semplice crocchia, la bocca piena e dolce. Aveva l’aria serena e felice, qualcosa di inusuale in una statua. Il busto era circondato da petali di rosa, una rispettosa offerta funebre per una persona amata.
- E’ Pollia Sabina Marcia, - disse Mario Servilio alle mie spalle. - Era mia moglie. - Non aggiunse che l’aveva amata e che ancora l’amava. Non era necessario. Non avrebbe dovuto importarmi. Stranamente, lo fece.



[1] In greco antico, il mare (N.d.A.).