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Ci sposammo un mese dopo. Poiché eravamo
entrambi adulti e senza famiglia, il nostro fu un matrimonio semplice. La
cerimonia fu celebrata nell’appartamento di Mario Servilio, di fronte agli
indispensabili testimoni ed ai suoi domestici. C’era Apollinario, naturalmente.
La notizia l’aveva molto sorpreso.
- Non posso credere che tu lo stia facendo, Giulia! - disse. - Perché? Perché
per l’Ade stai per sposarti con un uomo che nemmeno conosci? Non per il denaro,
sono certo. Allora, perché? PERCHE’?
- Perché sono stanca, Apollinario. Perché
all’improvviso ho scoperto che sono molto stanca e voglio sapere se posso
appartenere a qualcosa…
- Ci dev’essere dell’altro, Giulia! Ci
deve…
Si fermò nel mezzo della frase e mi guardò
sconcertato, poi rattristandosi. Aveva capito. Capiva sempre tutto.
- E’ colpa mia, - sussurrò.
Andai da lui, cercai di prendergli il volto
tra le mani. Egli mi evitò.
- Apollinario, no...
- E’ colpa mia, - sussurrò con voce
strozzata. - Se avessi insistito affinché conoscessi più gente e socializzassi
di più, invece di tenerti egoisticamente tutta per me, avresti trovato un uomo
che ti avrebbe amata come meriti di essere amata…
- No! - Non volevo sentir parlare d’amore e
d’essere amata. Non potevo. Non ora.
- Se fossi stato un vero uomo e non quello
che sono…
- NO!
Gli afferrai le spalle e lo scossi forte.
- No! - ripetei. - Non è colpa tua
se sono nata schiava e costretta a diventare una prostituta! Non è colpa tua se non puoi amarmi come un uomo ama una
donna! Non è colpa tua se mi tormento e sono
amara e sempre lo sarò! Sono giunta ad
accettarlo, Apollinario! Sono giunta ad accettare che nel profondo mi
tormenterò sempre e sarò amara, sola e triste! Egli me l’ha dimostrato e
sposarlo è il mio modo di venire a patti con questa cosa!
Apollinario chinò la testa finché la sua
fronte toccò la mia. Rimanemmo così per un lungo istante.
- Avrò bisogno di te più che mai. Verrai ad Ostia e continuerai ad insegnarmi?
- sussurrai. Egli fece un breve sorriso triste.
- Certo che verrò. Non ti perderò di vista,
- disse. Fu il mio turno di sorridere. Poi, feci scivolare le mie braccia
attorno al suo collo e gli seppellii il viso nella spalla. Le sue braccia mi
cinsero la vita ed egli mi premette contro il suo corpo snello. Chiusi gli
occhi e sospirai. Ogni giorno ed ogni notte dalla Moesia avevo desiderato le braccia forti e muscolose di Massimo. Avevo desiderato il
suo abbraccio appassionato. Il calore e la forza del suo corpo simile a quello
di un dio. Eppure, in quel momento, non volevo l’abbraccio di nessuno che non
fosse quello amoroso ma senza passione di Apollinario.
Per la cerimonia di nozze mi vestii nel mio
appartamento, la prima vera casa che avevo mai avuto e che presto mi sarei
lasciata alle spalle. Nicia mi trovò un’accocciantrice e la donna spazzolò i
miei capelli lunghi fino alla vita, poi li raccolse con arte, come si confaceva
alla donna sposata che presto sarei divenuta. Elogiò la mia capigliatura e
cercò di farmi chiacchierare, ma io risposi solo a monosillabi mentre il mio
sguardo rimaneva fisso nello specchio lucido ed ella fu presta ridotta al
silenzio. La donna voleva applicare del trucco al mio viso, ma io rifiutai.
Nicia mi aiutò ad indossare la veste nuziale di seta gialla, le scarpe nuziali
color zafferano e il completo di gioielli che Mario Servilio mi aveva mandato
il giorno prima. Quando fui pronta, lei e la pettinatrice mi sistemarono sulla
testa il velo da sposa di seta color zafferano.
Discesi le scale scortata dalla mia
governante, che per l’occasione aveva indossato i suoi abiti migliori. Un
servitore attendeva alla porta di Mario Servilio e la aprì per condurci
all’interno. Una volta dentro, fui ricevuta da Atenodoro, marito di Nicia e
attendente di Mario Servilio, che mi guidò nel giardino interno e annunciò con
voce squillante:
- La sposa! La sposa!
Gli invitati radunati in giardino si
voltarono e mi guardarono, e videro una donna alta e misteriosa che nessuno di
loro aveva mai incontrato, nascosta dietro uno spesso velo color zafferano.
Erano i conoscenti d’affari di Mario Servilio con le loro mogli. C’erano anche
i servi, vestiti per l’occasione, e coronati con fragranti ghirlande di
verbena. C’erano anche il sacerdote ed il suo assistente, e c’erano fiori
intorno al collo del maialino che necessariamente doveva essere sacrificato
agli dei. In piedi vicino al sacerdote c’era Mario Servilio, un’alta figura
elegante che indossava una toga immacolata degna d’un console.
Gli ospiti mi guardarono in silenzio per un
lungo momento. Poi, qualcuno cominciò a cantare l’antico inno nuziale: “Io, hymen, hymenaeus…”
Apollinario si staccò dal gruppo e venne da
me. Prese la mia mano nella sua e la strinse in modo rassicurante. Poi, agendo
come padre della sposa, mi guidò verso Mario Servilio. Era una cosa piuttosto
anomala, tuttavia non v’era nulla di regolare in un matrimonio di una sposa che
era stata una prostituta e la cui dote era stata considerata inutile dal suo
sposo.
Il sacerdote intonò le preghiere e accettò
il coltello dal suo assistente. Era esperto e, misericordiosamente, il
sacrificiò fu presto fatto. Egli affondò le mani nelle interiora fumanti del
maialino e dichiarò che gli auspici erano favorevoli. Mario Servilio mi offrì
un sopracciglio arcuato e un ironico sorriso obliquo. Poi egli si girò verso il
sacerdote e recitò i suoi voti.
- Ubi tu Gaia, ego Gaius[1]. Dove io sono signore, tu sarai signora… -
disse con voce chiara e calma. Poi fu il mio turno e la mia voce fu egualmente
chiara e calma.
- Ubi tu Gaius, ego Gaia[2]. Dove tu sei signore, io sarò signora...
Finì presto.
Mario Servilio estrasse gli anelli nuziali e ne fece scivolare uno nel dito
medio della mia mano sinistra. Era un pesante anello d’oro profusamente
cesellato. Io ne feci scivolare il compagno
nel dito di lui magro e pallido. All’improvviso, vidi nella mia mente un’altra
mano e un altro anello. Una grande mano forte, abbronzata e incallita dalla
spada, adorna d’un semplice anello d’argento. Un anello che proclamava che il
rude, affascinante generale romano dagli occhi azzurri che amavo era di
un’altra donna…
Qualcuno mi
sollevò il velo: Nicia, agendo come la madre che non avevo mai conosciuto e che
avevo tanto desiderato. Un’altra singolarità in un matrimonio celebrato per
ragioni importanti eccetto che quelle normali, previste usualmente. La foschia
color zafferano che mi aveva circondata e celata fu sostituita dal sole
luminoso degli inizi di primavera. Udii un mormorio collettivo quando gli
ospiti videro finalmente il mio viso, il viso di una bella diciannovenne che
non aveva avuto un’infanzia e aveva desiderato una bambola. Il viso di una
prostituta solitaria e triste che si struggeva per la sua innocenza rubata. Il
viso di una donna disperatamente innamorata che desiderava un uomo che l’aveva
respinta. Il viso di una donna che aveva sposato un altro uomo per vendicarsi
di tutte quelle cose.
Guardai gli
ospiti ad uno ad uno e vidi nei loro volti quello che vedevo sempre nei volti
della gente. Quello che sapevo avrei trovato. Aperta ammirazione e lussuria
celata a malapena in quelli degli uomini. Perplessità e gelosia celata a
malapena in quelli delle donne. Certe cose non cambiano mai. Nemmeno con il
matrimonio.
Mario Servilio
si chinò e mi baciò con formalità su entrambe le guance. Qualcuno cominciò di
nuovo a cantare. “Io, hymen, hymenaeus…”
Eravamo marito e moglie.
Dopo la cerimonia ci fu l’atteso banchetto.
Fu formale e sottotono, non il turbolento evento in cui si trasformano le feste
di nozze. C’era cibo eccellente, ed egualmente eccellente vino, servito da
efficienti servi silenziosi, e musica discreta suonata da egualmente silenziosi
e abili musici. Le chiacchiere erano prevalentemente di affari e politica e non
c’erano gli usuali dispetti e rozzi scherzi. Io sedetti accanto a Mario
Servilio e accettai gli auguri degli ospiti che vennero da me ad uno ad uno per
fare conoscenza. Mangiai poco e bevvi meno mentre attentamente evitavo sia gli
occhi scrutatori di Mario Servilio che quelli preoccupati di Apollinario.
I servitori
accesero le lampade prima di distribuire i dolci, e poco dopo gli ospiti si
alzarono e si prepararono ad andarsene. Poiché ci eravamo sposati a casa dello
sposo, non ci sarebbe stata una processione della sposa, ma fummo inondati da
chicchi di grano e uva passa per assicurare la benedizione degli dei e la
fertilità della nostra unione. Accettai gli auguri e i saluti con volto
imperscrutabile e silenziosamente baciai la guancia morbida di Apollinario con
labbra fredde e insensibili. Nicia gentilmente mi toccò il braccio, poi mi
guidò alla mia camera da letto.
Era una stanza
grande, aperta sul giardino interno, arredata con costosi pezzi di mobilio e
tappeti orientali e profusamente adorna di fiori. Legna fragrante bruciava nel
braciere, tenendo a bada il freddo notturno. Una leggerissima camicia da notte
ed una vestaglia di seta erano pronte sul divano, e petali di rosa erano stati
cosparsi sulle coperte rivoltate del letto. La serratura d’acciaio promessa era
al suo posto.
Nicia mi aiutò
a togliere gli ornamenti nuziali ed i gioielli, poi mi vestì per la notte. Con
mani abili, mi sciolse i capelli e li spazzolò,
mi strofinò un po’ del mio profumo preferito… mirra… sul collo e le braccia,
poi prese forcine e pettini, il mio abito ed il velo e augurandomi la buona
notte lasciò la stanza.
A poco a poco
il grande appartamento cadde nel silenzio. Le torce nel cortile finirono di
bruciare. Io rimasi seduta nella sedia dove Nicia mi aveva lasciata, con le
mani ordinatamente ripiegate in grembo, lo stesso contegno con cui ero rimasta
seduta nella tenda di Cassio quando Massimo mi ci aveva lasciata con tre uomini
morti, quello che ormai sembrava una vita fa. A quel tempo, avevo guardato a
lungo, molto a lungo, il viso del mio padrone e tormentatore morto. Adesso, i
miei occhi erano fissi sulla serratura d’acciaio, tuttavia io non mi alzai a
chiudere la porta. Non ve n’era bisogno. Sapevo che Mario Servilio avrebbe
onorato la sua promessa. E sapevo anche che se mi avesse voluta, in tutto
l’impero non ci sarebbe stata una serratura abbastanza forte da tenerlo
lontano.
Avevo sposato
un uomo che non mi amava né mi desiderava. Ero stata il giocattolo di molti
uomini che mi concupiscevano, mi usavano e mi gettavano via senza pensarci due
volte. Mi ero innamorata di un uomo a cui piacevo, che mi aveva desiderata, che
avrebbe persino potuto amarmi… tuttavia mi aveva respinta. Avevo sposato Mario
Servilio per vendicarmi di tutti loro. Un cerchio perfetto. D’acciaio. Un
cerchio che all’improvviso sembrava freddo e vuoto come la mia notte di nozze.
Rabbrividendo,
chiusi gli occhi mentre mi abbracciavo strettamente. Con una facilità nata da
lunga pratica, lasciai sprofondare la mia mente sempre più dentro di me. Quando
ero una bambina che cresceva nella villa di Cassio e la solitudine diventava
insopportabile, chiudevo gli occhi, mi abbracciavo forte e lasciavo che la mia
mente si immergesse nel mio intimo. Andavo in un luogo dove non ero sola. Dove
non ero triste o impaurita. Dove avevo una madre sorridente ed affettuosa che
si preoccupava di me, giocava con me, mi confortava, mi stringeva al suo petto
profumato. In quel luogo io non ero una schiava, ma una bambina curata
teneramente, viziata, amata.
Quando crebbi
e la bruttura della prostituzione diventava insopportabile, chiudevo gli occhi,
mi abbracciavo e scendevo ancora più in profondità nell’intimità della mia
mente. Andavo in un luogo dove gli uomini non potevano palpeggiarmi e usarmi e
respingermi. Un luogo dove ero libera. Dove ero rispettata. Dove ero
orgogliosa, potente, inaccessibile. Un luogo dove ero la donna che ero divenuta
nel momento in cui avevo sposato Mario Servilio.
Quella notte
andai ancora più in profondità. Andai in un luogo dove non ero sola e non avevo
freddo. A poco a poco, l’oscurità fu sostituita dalla luce, così come il freddo
fu sostituito dal calore. Ero in una camera da letto. Non lussuosa come quella
che mi era stata assegnata, ma intima, rurale, vivace. La mobilia era
confortevole, solida e semplice, il genere usato nelle ville di campagna e
nelle ricche fattorie. I muri di pietra erano imbiancati a calce invece che
essere coperti da elaborati murali. Il pavimento era di legno incerato, coperto
di tappeti intrecciati per avere calore invece che lusso. Le lampade inondavano
la camera d’una tenue luce dorata. Non c’erano bracieri ardenti perché la notte
primaverile ispanica era dolce, e invece dei petali di rosa c’erano quelli di
gelsomino sulle coperte dell’enorme letto
matrimoniale.
Udii un debole scatto quando la porta si aprì alle mie spalle. Lentamente mi
voltai per guardare in viso l’uomo che avevo sposato appena poche ore prima.
L’uomo che amavo come si ama soltanto una volta. L’uomo che ero ansiosa di
udire rivendicarmi come sua moglie.
Stava là in
piedi, con una veste di fine lana color vino, guardandomi silenziosamente senza
profferir parola, io slacciai la mia vestaglia e la lasciai cadere. La bianca
seta frusciò e sensualmente mi accarezzò il corpo nudo scivolando a terra. Lo
udii trattenere il respiro alla vista del mio corpo nudo ed egli rispecchiò il
mio movimento, slacciando la sua veste e lasciandola cadere… Era il mio turno
di trattenere il respiro alla vista gloriosa della sua bellezza virile. I miei
occhi divorarono le sue larghe spalle forti, la bronzea distesa del suo petto
poderoso cosparso di peluria di una tonalità più chiara di quella della sua
barba. Gioii alla vista delle sue gambe e braccia dai muscoli robusti e
rabbrividii per l’anticipazione alla vista della sua orgogliosa virilità
eretta.
Muovendoci all’unisono, ci venimmo incontro l’un l’altra. Muovendoci
all’unisono, cademmo uno nelle braccia dell’altra. All’unisono trattenemmo il
respiro quando i nostri corpi nudi si toccarono per la prima volta. Non ci fu
esitazione, solo fame e bisogno. Le nostre bocche s’incontrarono mentre ci
premevamo e arcuavamo uno contro l’altra finché ogni cavità ed ogni curva si
adattò perfettamente contro quella dell’altro e fummo vicini quanto lo possono
essere un uomo e una donna senza congiungersi. Gemevamo l’uno nella bocca
dell’altra, le nostre lingue s’intrecciavano in una calda danza sensuale.
Fremevamo. Bruciavamo. Presto toccarsi e accarezzarsi non fu abbastanza.
Cademmo sul letto, schiacciando i petali di gelsomino, intensificando con il
calore dei nostri corpi il loro dolce, sensuale profumo. La barba di Massimo
solleticò la mia pelle ardente e sensibile come in preda alla febbre, mentre egli usava le labbra e la lingua su di me e io
gemetti in modo incontrollabile. E quando usò le dita per capire se ero pronta,
sapevo che ero intatta. Pura. Una vergine. Non una schiava. Non una prostituta,
la mia verginità intatta e pronta per essere donata a mio marito. Una donna
degna di essere sua moglie. Una donna che gli avrebbe dato figli e figlie per
perpetuare il suo nome orgoglioso. Una donna che non aveva conosciuto altro
uomo all’infuori di lui. Univira[3], come deve essere una rispettabile donna
romana.
Egli stava palpitando contro il mio ventre, il respiro ansimante, il suo
bisogno rabbioso quanto il mio, tuttavia esitava, riluttante a soggiogarmi per
saziare la sua fame. I suoi occhi verdazzurri bruciavano di passione e bisogno,
la sua bella bocca dolce e sensuale era indurita per lo sforzo di controllare
il suo corpo.
- Giulia… - disse e la sua voce profonda, roca e vibrante, accarezzandomi le
orecchie, mi fece venire la pelle d’oca in tutto il corpo. Toccai il suo bel
viso ruvido, abbronzato e barbuto. Feci scivolare le mani tra i suoi corti capelli scuri.
- Sì, marito! - alitai arcuandomi contro di lui. - Oh, sì…
Marito...
Mi fece sua.
Gridai al breve, pungente dolore ed egli divorò il mio grido come un uomo
affamato divora il vitto, mentre il suo corpo impostava il ritmo virile ed il
mio istintivamente si arcuava per aiutarlo ad andare più in profondità. Per
accoglierlo più in profondità. Per far sì che diventassimo un solo essere…
I miei occhi si spalancarono. I suoni
provenienti dalla mia bocca non erano i gemiti felici e convulsi della donna
sotto il corpo di Massimo, ma i secchi, angosciati singhiozzi della donna sola
che in realtà ero. Non venivano soffocati dalla sua calda bocca esigente, ma
dalle mani fredde e umide che premevo contro la mia. Il mio respiro irregolare
non era la conseguenza del febbrile congiungimento con l’unico uomo che avessi
mai amato, ma del mio sforzo disperato di riprendere il controllo.
Alla fine ci
riuscii. E quando accadde, seppellii il volto nelle mani come avevo fatto
quando Massimo mi aveva lasciata sola nell’alcova dopo avermi mostrato che
cos’è la passione, la vera passione. Ma a differenza di quella notte in Moesia,
questa volta non piansi. Semplicemente rimasi lì. Immobile. Fredda. Vuota.
Sola.