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Quando ripenso a quei primi mesi della mia vita
che divisi con Apollinario non posso che sorridere. Ricordo una ragazza dagli
occhi azzurri e dai capelli rosso oro che poteva a
malapena contenere la propria eccitazione mentre aspettava la visita quotidiana
del suo istitutore appena assunto. Un’ex prostituta schiava che si incupiva sopra un papiro che stava
cercando di studiare a fondo mentre pensosamente
rosicchiava l’estremità del suo stilo.
Una donna affrancata che facilmente dimenticava di mangiare osservando
famelicamente un rotolo dopo l’altro, nutrendo la mente e l’anima e dimenticandosi di nutrire il corpo.
Apollinario era tutto quello che Cornelio Crasso mi aveva raccontato di lui: uno studioso che amava la
conoscenza, ma si teneva perfettamente in contatto con la vita, un insegnante
nato, un uomo acuto, sensibile che non aveva bisogno di un’aula per motivare le sue lezioni, perché la sua
scuola era la vita stessa.
Prese un appartamento al Quirinale, vicino ai
limiti della città e ogni giorno veniva a piedi fino al mio per farmi lezione.
Leggere e scrivere erano prioritari. Poi, a poco a poco, aggiunse calcolo,
storia, geografia, arte, filosofia e greco. A dire il
vero, egli voleva procedere a piccoli passi, ma io lo incalzavo con tale
impazienza che egli non poteva fare a meno di ridere. Mi permise di trovare un
mio ritmo e quando scoprii che la matematica non era facile come avevo creduto,
non mi diede l’occhiata da “te l’avevo detto”, ma
pazientemente mi rispiegò le lezioni; e quando io fui sull’orlo della
disperazione, mi diede le prime nozioni di geometria e scoprii che con questa
me la cavavo facilmente. Così, insieme, riuscimmo ad aggirare l’aritmetica.
Quando mi lamentavo che non stavo imparando abbastanza in fretta, che c’era talmente tanto da leggere che non sarei mai
riuscita a farlo, egli non mi trattò con condiscendenza né mi assecondò. Al
contrario, elencò tutto quello che avevo già appreso prima di incontrare lui:
il mio perfetto latino della classe superiore, le mie
maniere, il mio buon gusto e la mia naturale capacità ad organizzare e condurre
le cose in modo metodico.
- Per non dire del tuo buon senso, Giulia,
- aggiunse dalla sua posizione di fronte al mio tavolo. - E il buon senso non lo si può imparare o
comprare al Mercato di Traiano. Non lo si
può ereditare né si può imporlo assieme al nome e
alla bulla: o ce l’hai
o non ce l’hai. - Questo servì poco a confortarmi
per le mie difficoltà con le declinazioni greche, ma non potei far
altro che ammettere che aveva ragione: il latino di Silvia Cornelia non era
migliore del mio e il suo gusto e le sue maniere erano decisamente
peggio, per tacer di come gestiva… o non riusciva a gestire… i suoi dipendenti, pigri e male addestrati. E lei non
aveva buon senso alcuno.
Apollinario non limitò il suo insegnamento
ai libri. Mi portò nelle vie, ai mercati, alle biblioteche, al Foro, a teatro.
Mi portò in taverne pulite e rispettabili e mentre mangiavamo mi raccontò storie sui suoi viaggi. Il suo
consiglio era gentile e i suoi
suggerimenti sottili e acuti. Una parola qua e una là mi aiutarono
a scoprire come volevo arredare la mia casa, come volevo vestirmi per una
serata fuori, come volevo che fosse la mia vita. Egli mi incoraggiò
ad osare fare quelle cose che avrei sempre voluto fare e mi scoraggiò a seguire
il sentiero verso cui odio e risentimento minacciavano di spingermi. Sotto la
sua tutela e mentre la mia istruzione progrediva, anche lasciarmi il passato
alle spalle sembrava possibile.
Un giorno arrivò al mio appartamento, e mi trovò accigliata
sullo scrigno nel quale avevo gettato sia i gioielli usati per adornare le
schiave di piacere che quelli datimi da alcuni degli uomini che avevo servito.
Nella mia fretta di stabilirmi al mio posto e, più
tardi, nella frenesia d’istruzione, avevo
dimenticato di andare alla cloaca più vicina e gettarli nell’immondizia alla
quale appartenevano insieme con il mio sporco passato. Quella mattina, egli non
mi fece lezione. Invece, ci sedemmo e mi ascoltò
mentre gli raccontavo di Cassio e della mia infanzia alla villa, delle schiave
speciali, del senatore e dei miei anni di servizio nel suo bordello privato.
Gli raccontai del mio viaggio in Moesia e di come l’imperatore mi aveva liberata e perché… ma non di Massimo o di come mi ero
innamorata di lui. Non dissi mai ad Apollinario che le mie ore quotidiane con
lui erano le uniche in cui ero libera dalla presenza
di Massimo. Che quando mi augurava la buona sera e
tornava a casa sua, io rimanevo alzata fino a tardi e non sempre perché stavo
leggendo o studiando ma più spesso perché stavo ripensando ai giorni con
Massimo all’accampamento. Se Apollinario sospettasse
che c’era qualcos’altro nel mio racconto, non me lo chiese
e io gli fui grata. Fu la prima di molte volte in cui sarei
stata grata per la sua discrezione, e sentii ancor
di più un’ondata d’affetto per lui.
Quando finii il mio racconto, egli prese lo
scrigno dalle mie mani con le nocche ormai sbiancate e
disse:
- Lascialo a me, Giulia. - Io non obiettai perché improvvisamente ero troppo
esausta per farlo. Egli
lo prese con sé e quando tornò il giorno successivo non ne parlammo. Ma tre giorni dopo venne da me seguito da due facchini che
portarono dentro la mia casa due casse piene di preziosi manoscritti.
- C-che cos’è
questo, Apollinario? - chiesi quando ritrovai la voce.
- La tua biblioteca, mia cara, - rispose
mentre pagava gli uomini e li congedava. - Marco Antonio diede a Cleopatra
duecentomila libri dalla Biblioteca di Pergamo per confortarla della perdita di
quella di Alessandria… io non posso competere con un
tal uomo, ma posso aiutarti ad avviare la tua…
Il mio sguardo si offuscò. Mi morsicai il
labbro inferiore.
- N-non avresti dovuto, - riuscii a farfugliare. - T-ti ripagherò…
- Non c’è bisogno, Giulia, - disse nel suo
solito tono gentile. - Ho un buon amico che è gioielliere ed era più che felice
di metter le mani su quello scrigno… - Sorrise e, come al
solito, non potei fare a meno di sorridergli in risposta. - E
adesso in classe! Sapevi che la regina Cleopatra parlava tredici lingue? Tredici
lingue, signora! Sono certo che non ha mai protestato che il greco è difficile
da imparare! - Le mie labbra tremarono, incerta com’ero
tra le lacrime e le risa. Era un gioco consueto tra di
noi.
- Certo che non l’ha mai fatto! - risposi
secca. - Lo imparò nella culla!
- Ragazza acuta! - disse Apollinario
allegramente mentre prendeva la grammatica greca una volta di più.
A tempo debito, padroneggiai la madre
lingua di Cleopatra.
Fu Apollinario a portare Nicia. Egli
insisteva che avrei dovuto avere una governante a prendersi
cura dell’appartamento, i pasti e i miei abiti.
Litigammo. Io rifiutavo di comprare una schiava, di essere
complice del sistema che aveva fatto di una ragazzina dodicenne una prostituta. Egli era pienamente
d’accordo e mi disse che disprezzava i liberti e le
liberte che ponevano rimedio al loro
passato riempiendo di merce umana le loro tenute. Ma fu risoluto riguardo la
governante. Risposi secca che non volevo che qualcuno vivesse nel rifugio della mia casa, invadendo la mia vita privata e spiando nella mia
vita. Quando la sua sola risposta fu un largo sorriso, seppi che mi aveva intrappolata. Capii che aveva
trovato una donna discreta che non aveva bisogno di alloggiare con me per svolgere
i suoi compiti.
- Chi è? - chiesi bruscamente dal tavolo che usavamo per le lezioni.
- La moglie dell’intendente del tuo vicino,
- rispose Apollinario lisciando le pieghe della
sua elegante toga.
- Vicino?
Il mio tutore sospirò.
- Vicino: persona che vive accanto. E’
consueto scambiare saluti e cordialità con quelle persone. Ci si riferisce
usualmente a questo genere di scambi come a “buone maniere”! - Sospirò di
nuovo. - Parlando seriamente, Giulia, hai bisogno di rilassarti, di cominciare
a vedere gente, di parlare a persone diverse da me e da coloro che ti ho
presentato.
- Non riesco a capire come una governante
possa aiutarmi a “rilassarmi”, - dissi spazientita.
Non volevo una governante. Volevo tornare alle mie lezioni.
- Nicia è un gioiello, - continuò
Apollinario. - E’ rispettabile, pulita ed efficiente. E
vive ad appena una rampa di scale da te! Può svolgere le
faccende di casa e scendere per la notte…
dopo averti preparato la cena!… senza intromettersi nella tua vita…
Io feci una smorfia.
- E’ greca? - chiesi e Apollinario rise.
- Naturalmente che lo è! - disse. - Lei e
suo marito sono nati a Micene. Lui era uno dei soprintendenti del tuo vicino, ma rimase ferito al cantiere navalee
il suo padrone lo indennizzò nominandolo
attendente della sua casa romana. Siccome
quell’uomo trascorre lontano
la maggior parte del tempo, generalmente essi non hanno niente da fare…
- Com’è che sai
tante cose del mio vicino? - chiesi. Ero solita ammirare il giardino
dell’appartamento al piano terra e la sua insolita fontana, ma
solo adesso mi rendevo conto che il luogo era disabitato, fatta eccezione
per chi se ne occupava.
- Perché io non me
ne vado in giro col naso incollato ad un
papiro, - rispose lui. - Io scambio parole con la gente che vedo con regolarità. Nicia
mi udì canticchiare una vecchia melodia greca e cominciammo a chiacchierare. Si
annoia. I suoi sei figli si sono già
sposati e, con il loro datore di lavorolontano da oltre un anno, suo marito non ha
bisogno di altro aiuto. Pensava che potresti assumerla come tua governante. Fra parentesi, ha notato
che non hai una governante…
- E tu e lei avete già deciso che dovrei averne una!
- Giulia, non essere così ostinata! Non
puoi continuare a svolgere le faccende domestiche, comprare
il cibo, portare i tuoi abiti a lavare, mangiare poco o
dimenticare di mangiare e portare avanti i tuoi studi allo stesso tempo!
- Non ho bisogno di una governante! - insistei.
- Pensala così: se assumi Nicia
avresti modo di dedicare più tempo ai tuoi studi… e saresti in grado di fare
alcune cose che richiedono che tu sia accompagnata da un’altra donna. Per
esempio, viaggiare!
- Viaggiare? Non ho intenzione di andare da
nessuna parte!
- Oh. - Apollinario si zittì e si morsicò
il labbro inferiore come un bambino ferito. Poi disse: - Pensavo che ti sarebbe
piaciuto visitare la mia fattoria in Campania…
Restai a bocca aperta.
- La tua fattoria? Mi stai invitando alla tua fattoria?
- Ne avevo
intenzione… ma suppongo che dovrò andarvi da solo…
Il mio cuore mancò un battito.
- Stai per tornare in Campania? - chiesi sgomenta.
- Trascorro sempre il
mio compleanno nella mia
fattoria.
Adesso ero senza parole. Compleanno? Era nato schiavo e gli schiavi non
hanno né infanzia né giocattoli e naturalmente nessun compleanno. Nessuno tiene
nota della data e dei prodigi del nostro ingresso in questo mondo. Si limitano a
contarci e schedarci come maschi o femmine insieme
al bestiame nell’annuale
foglio di bilancio dei nostri padroni. Ma Apollinario dichiarava di celebrare il suo compleanno…
- Quando mi
portarono via da mia madre, ella mi corse vicino e mi abbracciò un’ultima
volta, - disse Apollinario a voce bassa. - Prima che la trascinassero via, mi
sussurrò nell’orecchio “Non dimenticare mai la data in
cui sei nato! Il 13 novembre!” Io non ricordo il viso di mia madre, Giulia,
solo le sue parole… Da quando l’ex console mi salvò dal bordello, ho
sempre celebrato il mio compleanno. Due settimane da oggi, avrò quarantadue
anni.-
Restammo in silenzio per un lungo momento. Improvvisamente mi chiesi
quando sarebbe stato il compleanno di Massimo. Non lo sapevo, ed ora non c’era
modo di imparare la data, un altro buco nelle scarse informazioni che già avevo sull’uomo che disperatamente
amavo e desideravo.
Mi schiarii la gola.
- Vuoi che venga in Campania per il tuo compleanno?
- Non v’è altra persona che amerei di più avere
accanto a me quel giorno… ma tu non puoi alloggiare sotto il mio stesso tetto
senza una governante personale…
- Se portassi
questa Nicia, potrei venire in Campania con te?
Apollinario sollevò la testa e fece un
largo sorriso.
- Certo che potresti!
- D’accordo! Assumila! Adesso possiamo
continuare a leggere?
Apollinario ridacchiò.
- Scendo a prendere Nicia! Ma tu, mia cara, tu
l’assumerai! - Cominciai a protestare, ma lui mi bloccò.
- Tu l’assumerai, giovine signora!
Considerala un’altra lezione!
Nicia si
dimostrò il gioiello che Apollinario aveva elogiato. Dopo un
goffo inizio da parte mia… non avevo mai assunto un servo o dato ordini ad una persona libera… e una volta che lei
controllò la sua tendenza a farmi da madre, giungemmo ad una tregua e le cose andarono bene. Come
Apollinario aveva predetto, ora che c’era quella donna vivace, avevo
più tempo da dedicare ai miei studi. Noi tre andammo in Campania
ed il viaggio fu eccitante
anche se l’inverno era vicino. Restammo alla fattoria per una settimana, ci
godemmo la pace, lunghe passeggiate nella campagna e una bella festa per celebrare il compleanno del mio tutore. Poi tornammo
a Roma prima che arrivasse il freddo vero. Quando
arrivammo alla palazzina dove io abitavo, scoprimmo un
gruppo di facchini che vi portavano del bagaglio. Era un corteo impressionante
e sulla porta c’era il marito di Nicia, a dirigere gli uomini
nell’appartamento al piano terreno.
Il mio misterioso vicino era tornato a casa.
Si chiamava Mario Servilio Tibullo e lo incontrai qualche giorno dopo, quando stavo andando al
mercato con Nicia. Egli stava entrando, seguito da due
uomini che, avrei saputo più tardi, erano
i suoi segretari, un uomo alto sulla cinquantina, ordinatamente
sbarbato, perfettamente pettinato ed
elegantemente vestito. Era affascinante in un modo un po’ antiquato, con capelli
d’argento tirati indietro sulla fronte alta e pelle leggermente abbronzata.
Nicia ci presentò e scambiammo educati cenni del capo e
saluti. Poi, egli parlò ancora un po’ con Nicia, ma il suo sguardo
non mi lasciò mai. Tuttavia il suo non fu uno sguardo di lussuria. Ma duro, calcolatore, indagatore. In qualche modo, la cosa
non mi disturbò. Questo non era un uomo preda della lussuria, ma di idee molto chiare. Io potevo capire un uomo come questo.
Potevo trattare con un uomo come questo. Egli notò che non vacillavo sotto il suo scrutinio e sembrò trovarlo
divertente perché un leggero sorriso guizzò sulle sue
labbra sottili.
Ma il sorriso non sfiorò mai i suoi grigi occhi
d’argento.
Il ritorno di Mario Servilio Tibullo alterò sottilmente il mio rapporto con
Nicia. Cominciò immediatamente dopo il nostro primo
incontro, quando la mia governante mi disse che egli
l’aveva interrogata su di me. Egli era stato conciso come sempre ma anche minuzioso.
Congedai il commento, ma Nicia era troppo eccitata e siccome
Apollinario non sarebbe venuto per
un’altra mezz’ora, io l’ascoltai mentre ella mi declamava il ritratto dell’uomo:
anche se Mario Servilio Tibullo preferiva un modo semplice di vivere, egli era estremamente ricco. Era un
costruttore di navi e un mercante che dedicava agli affari ogni singolo momento ed ogni singola oncia della
sua forza. Vedovo senza figli, era un padrone duro, ma giusto. Non era noto che avesse una famiglia e, secondo
Nicia, egli non aveva mai mostrato interesse per una
donna che essi conoscessero. Ed essi lo conoscevano da
oltre vent’anni.
Io non prestavo alle parole di Nicia maggiore attenzione che
ai pettegolezzi che si ascoltano ai bagni
o ai mercati, tuttavia quando la prima anfora di vino Cecubo apparve sulla mia
tavola arcuai le sopracciglia con aria interrogativa.
Essa fu seguita da un sacchetto dei migliori datteri
che denaro possa comprare e più avanti da una scatola di dolci esotici. Nicia
mi disse che Mario Servilio Tibullo importava la
maggior parte della merce di lusso che si poteva trovare a Roma. Tuttavia i
suoi regali non furono mai compromettenti.
Tre mesi e qualche anfora e scatola di dolci più tardi,
un servo consegnò un piccolo rotolo di papiro. Conteneva soltanto una riga
scritta con una calligrafia chiara, tagliente: “Ti farò
visita poco prima dell’imbrunire”. Egli aveva
firmato e sigillato la lettera con la stessa incisività ed
efficienza con cui l’aveva scritta. Il suo anello a
sigillo rappresentava un paio di ancore intrecciate.
Mario Servilio Tibullo non chiedeva il permesso e così evitava di venir respinto. Era un segno di audacia o di arroganza. O di entrambe. Comunque, la sua visita prometteva di essere estremamente insolita.
- Sono certo che Nicia ti abbia racccontato abbastanza di me da
risparmiarci di perdere tempo…
Eravamo seduti
nella mia sala da pranzo perché sembrava la cosa più conveniente
quando si riceve un uomo che era un virtuale sconosciuto. Mario Servilio
Tibullo aveva accettato un calice del suo vino ed era andato al
punto, risparmiandomi le bizzarrie e facezie
dettate dalle buone maniere. Per questo ero grata.
- Io odio perdere tempo, domina.
Sono un uomo d’affari e credo nel vantaggio dell’essere
diretto: voglio che tu diventi mia moglie. Sono
ricco abbastanza da offrirti una vita che molte aristocratiche invidierebbero.
Voglio sposarmi appena possibile perché devo ritornare ai miei cantieri, che ho trascurato durante gli ultimi
tre mesi. Vivremo nella mia villa in Ostia per la maggior parte del tempo.
Sapevo che mi aveva corteggiata
con la sua rudezza da uomo
d’affarie io avevo intuito la natura personale della sua visita.
Credevo che volesse comprare i miei favori ed ero
pronta a respingerlo in un modo che non
lasciasse dubbi. Ma niente mi aveva preparata ad una
proposta di matrimonio. Specialmente così
brusca e diretta. In qualche modo, riuscii a ricomporre il mio
viso.
- Grazie, domine. La tua
offerta è generosa ma io non voglio sposarti…
- Domina, sono un
uomo d’affari da quando avevo sedici anni. Sono molto bravo e ho fatto più
denaro di quanto riesca perfino a ricordare. La ragione per cui sono così bravo è perché sono diretto e non accetto mai il
no come risposta… - Il suo tono era perfettamente ragionevole. Un uomo a suo
agio nel discutere un contratto.
- Tuttavia c’è sempre una prima volta per
tutto. Non voglio essere tua moglie. Niente di personale. Soltanto non voglio
sposarmi. Ora, se hai detto quello che avevi da dire,
non perdiamo entrambi
il nostro tempo. Buona giornata, domine.
Mi alzai per sottolineare
e mie parole. Egli non si mosse.
- Mi era stato detto
che non soltanto sei squisitamente bella, ma anche
intelligente. Sono pronto a negoziare, domina.
Rimanendo in piedi
mentre lui restava seduto ero
in chiaro svantaggio. Ma se mi fossi seduta di
nuovo, avrei riconosciuto che lui aveva la mano migliore. Rimasi in piedi.
- Tu puoi essere pronto a negoziare, ma io no, domine. Poiché sembra che realmente tu voglia sposarti,
spero che gli dei ti guidino alla donna giusta… - Mi voltai per
lasciare la stanza, ma le sue successive
parole mi bloccarono di colpo.
- Tu non credi negli dei più di quanto non
ci creda io, domina. Come vedi, abbiamo qualcosa in
comune. E io non voglio altra moglie all’infuori di
te.
- No, domine. Tu non mi vuoi come tua
moglie: sono nata schiava. Sono stata affrancata da appena un anno. Ora, se mi
scusi…
Ancora, egli non si mosse, limitandosi ad alzare le spalle.
- Se vuoi dissuadermi, domina, dovrai fare di meglio.
Mio nonno era un liberto. Cominciò lui il commercio che ora possiedo.
Non cerco il sangue blu, domina.
Lascio questo agli allevatori di cavalli. Adesso, ti dispiace dirmi che cosa vuoi da me, in modo da fissare
la data di nozze?
Non era questo il modo in cui si supponeva
che funzionassero le cose. Dovevo porre fine al tutto.
Ritornai alla mia sedia, mi sedetti e guardai direttamente nei suoi occhi
grigio argento.
- Domine, tu non vuoi
sposare me: io ero una schiava e una prostituta. Da quando
avevo dodici anni e per i successivi sei non ho conosciuto altra vita che
quella di fare il mio dovere per il mio padrone… nel letto
di chiunque egli decideva che lo dovessi fare.
Il suo viso non tradì alcuna
emozione, ma io vidi una scintilla
nei suoi occhi. Avevo voluto fargli ripulsa, rovinare il suo interesse. Invece,
ero riuscita a suscitare il suo rispetto.
- Gli uomini d’affari gretti credono
nell’inganno, ma quelli bravi apprezzano la
sincerità. Apprezzo profondamente la tua, domina. Ma
questo non mi fa cambiare idea: contrariamente a molti uomini della mia età,
non bramo la verginità. Se
avessi voluto una vergine, avevo abbastanza
denaro da comprarmene un centinaio. Tuttavia io
non voglio una ragazza inesperta. Voglio una donna intelligente, bella,
indipendente. Voglio sposare te.
- Domine, stai rendendo la cosa inutilmente
difficile… Io non voglio sposare né te né qualsiasi altro uomo. Non voglio…
venire a letto con te… o con chiunque altro… Tu vorrai avere degli eredi ed è un tuo diritto, ma io
non voglio essere colei che ti darà dei figli. Scusami, domine, ma non sono io la donna di cui hai
bisogno…
Mario Servilio Tibullo si appoggiò indietro
nella sedia e mi studiò con i suoi occhi chiari implacabili. Per la prima volta il suo bel viso
imperscrutabile tradì un’emozione. Partecipazione. E, per qualche ragione, essa non mi ferì.
- Domina, ho cinquantadue anni. La mia
gioventù è passata da un pezzo. Mi sono sposato una volta. Mia moglie morì di
parto. Ebbe un’emorragia e i medici la tagliarono per salvare mio figlio, ma era troppo
tardi. Anch’egli era morto. Non ho mai più voluto
figli…
La conversazione stava prendendo una piega
personale che non mi piaceva. Cercai di interromperlo, ma
egli mi bloccò con un cenno della mano.
- Domina, non importa quanto ti sembro in salute, io sono
malato. Una malattia del midollo spinale.
I medici non possono far nulla in proposito, nemmeno dirmi quanto tempo mi
rimane. Giorno per giorno, divento sempre più debole.
Non ho forze da sprecare nel letto di una donna. Ho bisogno del mio tempo…
qualunque tempo mi sia concesso… per portare a termine cose
più importanti della soddisfazione fisica… - Fece un istante di pausa e io lo studiai attentamente. Dietro la sua
abbronzatura, c’era un pallore malato, e ombre sotto i
suoi occhi. Le sue mani erano troppo scarne.
- Tra le cose che voglio portare a
compimento prima di morire, c’è il godere di certi aspetti della mia vita
che ho trascurato, occupato com’ero con le mie
navi. Voglio una casa che non sia disabitata, un
tocco femminile intorno a me. Voglio aprire la mia villa a visitatori e godere
dei giardini che non ho mai avuto il tempo di
riprogettare. Voglio ascoltare musica e andare a teatro e mangiare pasti che
non siano scelti dal mio attendente. Domina, quello che ti sto offrendo è un
lavoro. Non certo un lavoro leggero. Ti verrà
richiesto di gestire una grossa tenuta, ricevere ospiti, rinnovare
intere ali della mia villa, ridisegnare i giardini, accompagnarmi a cene e a
teatro e assistermi quando ne avrò bisogno. Ad oggi
per lo più non accuso problemi per la mia malattia, ma i
medici mi hanno spiegato che cosa mi aspetta. Non mi
accontento facilmente e tu dovrai lavorare duro. In cambio, ti sarà concesso ogni lusso che tu voglia o abbia bisogno. Avrai denaro, gioielli e abiti
che si adattino al tuo nuovo stato. E, quando morirò, avrai i miei affari. Tutti.
Ero sbigottita. Non
solo dall’offerta di rendermi sua erede, ma per la freddezza del suo
discorso. Come poteva parlare con tale indifferenza
della sua stessa morte?
- Domine, - provai ancora una volta, - mi dispiace per la tua salute, ma penso ancora che tu abbia torto su
di me… ciò di cui hai bisogno è adottare un erede maschio, qualcuno che possa
apprezzare la tua offerta e aiutarti con il tuo fardello.
Per la prima volta, Mario Servilio Tibullo
rise e la sua risata fu tagliente come la sua
calligrafia. E, come il suo sorriso, essa non
raggiunse gli occhi.
- Un erede? Quale genere suggerisci,
domina? Un giovane che dilapiderebbe il mio denaro alle corse delle bighe? O un
adulto che troverebbe difficile attendere che la morte mi reclami e potrebbe decidere
di accelerare la mia dipartita? No, grazie, domina. Preferisco una donna come te che, una volta preso l’impegno, onorerà il patto…
Mi alzai di nuovo e camminai per la stanza
come usava fare Rubia quando era inquieta.
- Domine, tu sei un uomo orgoglioso e io ho fatto la prostituta in
alti ciircoli. Come credi che ti sentirai quando una delle tue conoscenze maschili mi
riconoscerà?
Mario Servilio Tibullo rise di nuovo e la
sua risata fu ancora più sarcastica.
- Domina, io non socializzo con gli aristocratici. Si
considerano al di sopra dei mercanti e la sola cosa che mi interessa
di loro è la misura dei loro debiti. E quando si fanno prestare denaro, uso i miei agenti per trattare con loro.
Io disprezzo gli aristocratici, domina. L’unico che rispetto è Giulio Cesare,
perché egli portò i miei antenati dalla
Gallia come prigionieri di guerra. Se non lo avesse
fatto, sarei nato in una capanna di fango invece che in una linda casa romana.
Il suo commento spassionato sulla schia.
- Molti. Alla mia villa e nei miei cantieri navali.
- Non vivrò mai in un luogo in cui vengono tenuti degli schiavi!
- Sono un padrone giusto
e ogni anno libero coloro che sono intelligenti, leali e lavorano sodo. Non
credo nell’abuso o nel maltrattamento. I miei schiavi sanno che possono
ottenere la libertà se lavorano duro, così fanno
del loro meglio per essere nella lista annuale. E
molti di loro rimangono al mio servizio anche una volta liberati…
Rimasi in silenzio, fissandolo. Egli scosse
le spalle.
- D’accordo, - disse. - Libererò tutti gli schiavi della
villa come dono di nozze a te. Ma terrò quelli nei
cantieri navali. Io non ti dirò come gestire la tenuta familiare e tu non mi
dirai come gestire i cantieri navali. Ora, possiamo fissare la data?
Gli voltai la schiena, abbracciandomi
nervosamente.
- Domine, è inutile! La mia libertà è recente. Desidero soltanto un’istruzione…
- No, domina. Tu desideri un’altra cosa. Tu desideri vendetta.
Trasalii, ma non mi voltai per guardarlo in
viso. Egli continuò a parlare.
- Non è la vendetta ciò che tutti gli uomini e le donne trattati ingiustamente desiderano, domina?
- Giulia, troverai qualcuno, un
giorno. Qualcuno molto speciale.
Le parole di Massimo echeggiarono nella mia
mente. Aveva avuto ragione. E qualcuno speciale c’era,
mi stava chiedendo di diventare sua moglie per buone ragioni, ma non quelle che ci si attendevano.
Vendetta.
Udii ancora il rumore nauseante che il mio pugnale aveva prodotto quando lo avevo affondato nel collo di
Cassio. La rivoltante vibrazione percorse tutto il mio
braccio ancora una volta. Sentii il caldo flusso di sangue vischioso che dalla ferita mi
schizzava la mano. Udii la testa di Cassio cadere sullo scrittoio con un tonfo
soffocato.
Vendetta.
Vendicarmi di Cassio. Di Marcello. Del
senatore. Degli innumerevoli uomini le cui facce non riuscivo
a distinguere e che uttavia mi perseguitavano. Gli
innumerevoli uomini che mi avevano insozzata. Usata.
Ferita. Umiliata.
Vendicarmi della mia schiavitù. Della
prostituzione. Della disperazione. Del rifiuto.
- Non v’è nulla di sbagliato in questo,
domina, - continuò lui. - Sposami e avrai la tua vendetta. Farò di
te una donna potente, così potente che anche se incontrerai di nuovo uno di
quegli uomini, sarà troppo spaventato per ammettere di
conoscerti, e ancor più per vantarsene. Desideri un’istruzione, perciò guarda al nostro matrimonio
come ad una sorta di istruzione...
un’istruzione al potere. Quando me ne sarò andato, tu sarai libera di fare ciò
che vorrai della tua vita e della tua eredità.
E della tua
vendetta.
Rabbrividii.
- Sei giovane, intelligente e bella, domina. Meriti di essere ammirata. Di essere protetta. Di essere viziata,
- disse con voce bassa e seduttiva. - Meriti di essere felice. Di essere amata, anche se io non sono
colui che hai scelto di amare e di renderti felice.
Ma, soprattutto, meriti di essere vendicata…
Non avevo bisogno di voltarmi per sapere
che stava sorridendo. Mi aveva in pugno. E lo sapeva.
- Solo l’imperatore può darti di più, domina. Ma lui non può
sposarti… - Non stava vantandosi del suo trionfo,
perché il vanto è al di sotto di un uomo così
sicuro di sé. - Prendimi cone marito, Giulia, e avrai
la tua vendetta…
Mi voltai e mantenni fermi i miei occhi nei suoi,
imperscrutabili. Lentamente tornai alla mia sedia e sedetti. Egli continuò a
parlare con tono casuale.
- Vivremo principalmente in Ostia. Credo che troverai la villa piuttosto
confortevole, ciò nondimeno sarai
la benvenuta nell’introdurre i cambiamenti che riterrai necessari. Manterremo
appartamenti separati e ordinerò che nel tuo siano apposte serrature
d’acciaio. Non saranno necessarie, ma ti faranno sentire più tranquilla.
Potrai continuare a studiare quanto vuoi, basta che lo studio non interferisca con i tuoi
doveri verso di me. Il tuo precettore greco
sarà invitato a vivere nella villa, se volesse trasferirsi ad
Ostia, e tu potrai assumere qualunque altro
insegnante vorrai. Ti verrà
fornito tutto quanto vorrai o di cui avrai
bisogno. Le mie navi portano in Italia tutti i generi
di mercanzia e io ho la prima scelta su ogni
carico e anche tu l’avrai. Avrai anche accesso ai miei banchieri e gestirai i conti di casa. Libererò tutti gli schiavi della casa a nome tuo così ti serviranno
lealmente.
Mentre egli continuava ad elencare i punti di
quello che stava per diventare il nostro personale accordo,
mi sentivo come se il tempo avesse cessato di esistere. Senza dire una parola avevo acconsentito a legarmi
con un virtuale estraneo. Avevo acconsentito a diventare la moglie di qualcuno.
Avevo acconsentito a che la mia vita cambiasse di nuovo. Cambiasse per sempre.
- Accetto la tua parola sul non essere interessata al momento
in un uomo, ma sei giovane e presto o tardi cambierai idea.
Io non obietterò, basta che non prendi
un amante tra le mie conoscenze d’affari e che tu sia discreta. Nel caso tu
rimanessi incinta, riconoscerò il
bambino come mio.
Un amante? C’era un solo uomo nel cui letto
sarei stata disposta ad andare.
Tuttavia non v’era posto, nel
suo letto, per me. E io
volevo vendicarmi anche di quello.
- Il contratto di matrimonio ti sarà
inviato domani per la tua approvazione…
Mi alzai. All’improvviso, avevo bisogno di
uscire dalla stanza. Per essere me stessa. Annuii all’uomo che presto avrei chiamato
“marito” e mi voltai per uscire.
- Ancora una cosa, domina.
La voce di Mario Servilio
mi bloccò sulla soglia.
- Che nome deve
essere scritto nel documento? Conosco il tuo nome, ma non il patronimico.
Mi voltai lentamente.
- Giulia Antonina, domine, - dissi con voce piatta. - Come
l’imperatore.