Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo IV – Interludio, 180 d.C.

Rubia si era addormentata durante le mie riflessioni ed improvvisamente il suo peso divenne fastidioso. Mi spostai nella sedia per meglio accomodare il grosso animale sul mio grembo ed i suoi artigli uscirono come reazione immediata. Trasalii quando le unghie come aghi penetrarono la seta e la mia carne. Allo stesso tempo, un cauto occhio verde si aprì e mi guardò diffidente. Non potei fare a meno di sorridere e strofinai le orecchie della gatta per farla rilassare. Rassicurata dalle coccole e dalla sua ferma presa su di me, Rubia sospirò e tornò a dormire.

 

Sembrava stranamente appropriato che la mia gatta preferita avesse usato i suoi artigli su di me proprio mentre ricordavo come io avevo usato i miei su Silvia Cornelia. Ma il fato e gli dei sono noti per avere un gusto per l’ironia. Non avevo pensato a quell’episodio per anni. Non mi sentivo orgogliosa del mio comportamento, anche se non ero incline ad ammetterlo. Ero stata maligna con una donna la cui colpa era essere più stupida della maggior parte della gente. Anche se non amo la stupidità, di solito non sono una persona maligna. Non ne ho la necessità.

 

Poco dopo essere diventata una donna affrancata imparai che c’è un modo di gran lunga più efficace e civilizzato per affrontare le persone e la loro stupidità, ed è quello di tenerle a distanza di un braccio. E’ lì che voglio che stiano le persone ed è lì che le tengo: abbastanza vicine da osservarle e scambiare anche innocue facezie, ma non tanto vicine da permettere loro di toccarmi o invadere la mia vita privata.

 

Solo due persone possono venirmi più vicine. Solo due persone hanno un posto nel mio cuore e nella mia vita. Solo due persone possono toccarmi e aspettarsi che il loro tocco non sia respinto, ma caldamente accettato. Solo due persone.

 

E, naturalmente, Massimo.

 

Vi fu un educato bussare alla porta del mio appartamento. Non mi voltai né risposi. Conoscevo troppo bene quel tocco. Apollinario entrò nel salotto e si fermò di colpo quando mi vide immobile, a piedi nudi e con indosso la vestaglia di seta, quando si supponeva che fossi pronta a scendere in qualunque momento.
- Che cosa c’è, amico mio? - chiesi.

 

Egli si avvicinò, camminando svelto, un chiaro segno di cruccio nei suoi modi solitamente rilassati. Si sedette sulla sedia di fronte a me, probabilmente per forzare la sua presenza nella mia visuale, dal momento che non sembravo disposta a guardarlo.

 

- Proximo è tornato a Roma, ma ha lasciato qui le sue guardie per… aiutarmi… a controllarlo

 

Sollevai la testa e guardai direttamente nei suoi preoccupati occhi nocciola.
- Sapevamo che sarebbe accaduto. Egli è troppo pregiato… e troppo pericoloso.

 

- E’ quello che ha detto il capo delle guardie.

 

- Sei riuscito a parlargli?

 

Apollinario sospirò tristemente e scosse la testa in segno negativo.
- Ho cercato… era troppo pericoloso. Egli… è troppo… troppo… confuso… per prestare attenzione… e per… lasciarsi… guidare...

 

Arcuai un sopracciglio. Di certo “confuso” non era la parola che aveva inteso usare.
- Come sta? - chiesi.

 

Apollinario alzò le spalle e sospirò di nuovo.
- Confuso, - ripeté. - Angosciato. Avvilito. Sconvolto. - Il mio ex-tutore aveva un’aria depressa. - E’ atterrito, Giulia, - aggiunse. - Atterrito come non mai.

 

Mi sentii come se mi avesse schiaffeggiata. Atterrito.

 

Continuò a parlare.
- Quando Proximo stava per andarsene e lui ha capito cosa stava accadendo, lui… lui lo ha implorato di non lasciarlo qui!

 

Strinsi le labbra rifiutandomi di accettare quello che stava dicendo, rifiutando di accettare il dolore che avevo inflitto a Massimo perché, se l’avessi fatto, sapevo che la mia sanità mentale si sarebbe infranta.

 

- Lui ha implorato, Giulia! - ripeté in un tono che non lasciava alcun dubbio. Non potevo sopportarlo.

 

- E’ una finzione, Apollinario! Una finzione necessaria! E’ forte. Gli spiegheremo tutto e lui capirà. - Il mio ex-tutore aveva l’aria addolorata. Gli presi la mano. - Lo stiamo salvando! Gli stiamo restituendo la sua libertà!

 

- Ma gli abbiamo strappato il suo orgoglio, Giulia! Non lo dimenticherà mai! Non ce lo perdonerà mai!

 

- Sei anni fa, recitai una farsa per la sua salvezza! Sei anni fa io uccisi un uomo per impedire che questi uccidesse lui! Ho ucciso per lui, Apollinario! E lo rifarei ancora! Non c’è niente che non farei per aiutarlo! Anche se questo significasse umiliarlo! - Apollinario chinò la testa. Strinsi le labbra e gli diedi un colpetto sulla mano. - Mi dispiace, amico mio.

 

- Va tutto bene, cara. Va tutto bene. Siamo tutt’e due stanchi e tesi

 

Restammo in silenzio per un lungo, increscioso momento.
- Che cosa ne pensi di lui?

 

- Oh, sapevo che doveva essere speciale, per attrarre una donna come te, ma… - Apollinario arrossì penosamente mentre si sforzava di continuare. - Ma lui… lui…

 

- E’ magnifico, - dissi recisamente. Apollinario arrossì ancor  più profondamente e io non potei fare a meno di sorridere alla prova evidente che, generale o schiavo, Massimo era sempre Massimo, e al devastante effetto che aveva sulle persone. Un effetto che lui nemmeno notava… rendendolo così ancor più devastante.

 

- Farei meglio a tornare. Ho lasciato quei bastardi in cucina ben provvisti di vino e cibo, ma si insospettiranno se non ritorno presto. Ce l’hai?

 

Presi la piccola fila di vetro dalla tasca della mia veste e la porsi ad Apollinario. Egli esaminò il liquido color verde all’interno. Era il più costoso oppio che denaro potesse comprare. Lo stesso usato anche dai chirurghi militari e imperiali.

 

- Funzionerà? - chiese. Sembrava scettico.

 

- Non preoccuparti, - dissi. - Funzionerà. - Sei anni prima, avevo conosciuto l’oppio nel modo più spiacevole, quando un chirurgo della legione romana mi aveva drogata con una generosa dose di esso seguendo gli ordini di Massimo.

 

- Lo speziale ha detto che qualche goccia in ciascuna coppa di vino sarà sufficiente. Che quando si sveglieranno, si sentiranno come se avessero i postumi di una brutta sbornia…

 

- Probabilmente la peggiore che quei bastardi sperimenteranno mai, - convenni. - E la più costosa. - Oppio di prima classe e Falerno ben invecchiato non erano trattamenti d’ogni giorno per degli stupidi sgherri come quelli assunti da Proximo.

 

Apollinario esitava ancora.

 

- Vai! - lo spronai. - Vai a metter la droga nel loro vino. Stai attento a non berlo tu stesso e fammi sapere quando sarà sicuro per me scendere.

 

Il mio ex-tutore entrò in azione e di nuovo non potei far a meno di sorridere. Caro Apollinario! Era il miglior aiuto che si potesse chiedere, sia che si avesse a che fare con un banchetto particolarmente complesso che con un piano per salvare un generale romano divenuto gladiatore. Ma non si sentiva a suo agio nel comandare. Nella nostra strana alleanza, era compito mio dare ordini. Lo sarebbe sempre stato. A ventiquattro anni, dopo schiavitù, prostituzione, innamoramento e rifiuto, dopo la solitudine, un matrimonio senza amore, la vedovanza e l’esser divenuta una donna d’affari, il comandare era per me naturale come respirare. Talvolta anche di più.

 

Apollinario chiuse la porta dietro di sé e io tornai a volgere lo sguardo sul mio riflesso nello specchio. Avrei dovuto vestirmi, prepararmi per scendere al momento dell’annuncio. Tuttavia, riuscivo soltanto a restare lì, accarezzare una gatta dai tre colori addormentata, guardarmi nello specchio e ricordare…

 

La sola ragione per cui io ero stata a Roma in quel fatidico giorno era Apollinario. Ero vedova da più di due anni e, dalla morte di mio marito, il mio vecchio tutore mi era stato sempre più vicino. Sapeva che la morte di Mario Servilio mi aveva colpita più di quanto mi curassi mostrare, ma egli non sapeva perché e io non gli diedi chiarimenti. Come sempre, egli non fece domande. Invece, mi aiutò ad occuparmi del suo funerale e del suo testamento e quando presi il controllo del commercio marittimo che avevo ereditato, egli pazientemente imparò il modo migliore per aiutarmi a dirigerlo. Sia che fosse spiegarmi un capitolo della legge che io non riuscivo ad afferrare completamente o condividere silenziosamente la mia cena, Apollinario era sempre al mio fianco.

 

Quel giorno fatidico io non volevo essere a Roma.

 

Non era soltanto la calura della tarda primavera, ma il fatto che nell’Urbe io sempre mi sentivo assalita, non importa quanto appartato fosse il mio appartamento al Quirinale. Volevo tornare alla villa, ma Apollinario insisté che rimanessimo a Roma. Litigammo ed egli disse che ero troppo giovane per isolarmi in quel modo, che avrei dovuto accettare qualcuno dei molti inviti a cena dei conoscenti d’affari di mio marito, che ora erano i miei  conoscenti d’affari, inviatimi con regolarità. Gli dissi che avevo avuto tanti di quei banchetti e ghirlande profumate e di quelli che i romani intendevano per sontuosi intrattenimenti, da essermi sufficienti per un paio di vite. Apollinario non insisté perché sapeva che stavo parlando non solo di banchetti che avevo organizzato per il mio defunto marito, ma anche delle orge a cui ero stata costretta ad intervenire quando ero soltanto una bambina spaventata.

 

Ma lui non fece cadere l’argomento e cercò di convincermi ad andare a teatro o a far compere e mi ricordò che il mio periodo di lutto ufficiale era finito da mesi. Io rispondevo che col clima caldo non mi piaceva il teatro e che non avevo bisogno di far compere perché la maggior parte delle ricche merci che potevo trovare nei mercati romani era portata in Italia dalla mia flotta e l’avevo prima presa da una delle mie navi, sia che fosse vetreria, tessuti sontuosi o cavalli di razza pura.

 

Vedendo che non stava concludendo nulla provò un ultimo trucco per tenermi in città: calò sul mio scrittoio una pila impressionante di rotoli e documenti.
- Siccome rifiuti di svagarti, mia cara, usiamo il tuo tempo per qualcosa di utile. Tutto questo richiede la tua personale attenzione.

 

Lanciai un’occhiata veloce alla pila e gemetti. Rapporti da agenti commerciali in Cappadocia, Lugdunum[1], Antiochia, Cesarea e molti altri luoghi. Contratti di navigazione che richiedevano la mia approvazione. Lettere da clienti. Proposte d’affari. Gli infiniti reclami dei soprintendenti dei cantieri navali. Ci sarebbero voluti almeno un paio di giorni per occuparmi adeguatamente di tutti.

 

Guardai Apollinario con astio ed egli ridacchiò.
- Ora ti lascio, ma se cambi idea riguardo il teatro mi troverai a leggere nel cortile, - disse, e lasciò la biblioteca canticchiando una vivace aria greca a proposito di una graziosa ma triste sirena che si era innamorata di un bel marinaio dai capelli scuri.

 

Quando la porta si chiuse dietro di lui, sospirai e non riuscii a trattenere le risa. Apollinario mi conosceva troppo bene. Anche se ero stata riluttante quando mio marito aveva insistito che imparassi come dirigere i suoi affari, presto la cosa aveva cominciato a piacermi. Era un duro lavoro e richiedeva più tempo di quanto fossi pronta a concedere volontariamente, ma c’era in esso un meraviglioso eccitamento. Richiedeva intuito, concentrazione, pianificazione, un approccio metodico e, soprattutto, era una sfida. Significava aver a che fare col clima e con cantieri navali e tabelle di orari e slealtà, ma soprattutto significava aver a che fare con uomini che non volevano aver a che fare con una donna potente. E quella era la parte che mi piaceva di più. Inutile dirlo, non c’erano molte donne in affari, anche se alcune mogli di quegli uomini avevano sei volte il loro cervello. Per quanto riguardava la marina mercantile, c’ero solo io. E la mia flotta era seconda solo a quella imperiale di trasporto del grano. Con un sorrisino contorto aprii il primo rotolo.

 

Circa due ore dopo, udii bussare alla porta. La punta d’insistenza nel suono indicava che chiunque stesse bussando lo stava facendo da un po’ di tempo.
- Avanti! - dissi con un pizzico d’impazienza per l’interruzione.

 

Una donna vivace, bassa e grassoccia sui cinquantacinque anni entrò nella biblioteca. I suoi capelli erano grigi, ma i vividi occhi neri davano l’idea di una donna molto più giovane. Nicia, la mia domestica. Era greca, come suo marito che era stato mio attendente.
- Scusami per l’averti interrotta, domina…

 

Lasciai lo stilo e mi appoggiai indietro nella sedia. Ecco qualcosa di assai inusuale e chiaramente personale. Avendo cresciuto sei figli, Nicia non mi consultava mai sulle faccende domestiche: era troppo abituata a risolvere in anticipo i problemi.

 

- Domina, ti dispiacerebbe se… ci piacerebbe prenderci un pomeriggio libero domani…

 

Arcuai le sopracciglia con aria interrogativa. Di solito Nicia parlava senza esitazioni.

 

- Atenodoro ed io. E… Lollia, Sofrona, Arminilla e Porcia.

 

Al che io fui francamente intrigata.
- Che succede? - chiesi. - Perché all’improvviso metà dei miei dipendenti vogliono tutti insieme un giorno libero?

 

- Ci piacerebbe andare ai giochi.

 

I giochi. Mi accigliai. Per cinque anni, la saggezza e la compassione di Marco Aurelio avevano liberato Roma da essi. Anche se nelle province continuavano e abbondavano le voci di contese gladiatorie private, il Colosseo[2] era rimasto chiuso, i suoi sotterranei, gabbie e celle vuoti tranne che di polvere e di gatti randagi che cacciavano i ratti. Ma Marco Aurelio era morto e i giochi erano tornati, mano nella mano con il suo erede. Il mio cipiglio s’incupì mentre pensavo al nuovo imperatore. Non avevo bisogno che il mio defunto marito mi insegnasse l’importanza dell’informazione: ero stata una prostituta. I miei informatori erano ben collocati e anche ben pagati. Avevo pianto la morte di Marco Aurelio, ma non sprecai tempo a raccogliere informazioni su suo figlio.

 

Lucio Elio Commodo Aurelio Antonino era l’unico figlio maschio sopravvissuto dell’imperatore e da quel che si diceva era stato il preferito della sua defunta moglie. Faustina aveva dato al suo imperiale marito dodici o tredici bambini, ma solo Commodo e quattro sorelle erano sopravvissuti riuscendo a diventare adulti. Egli era il primo imperatore ad ereditare dal padre la corona d’alloro d’oro, da quando Tito aveva ereditato la sua da Vespasiano più di un secolo prima. Ma anche se era imperatore da pochi mesi era chiaro che Commodo non era Tito. In verità, il Senato temeva che fosse più simile al fratello minore di quest’ultimo, Domiziano.

 

Dicerie avvolgevano il giovane imperatore. Era tornato da una visita ufficiale a suo padre in Germania portando notizia della sua prematura morte, un nuovo comandante pretoriano e la sua onnipresente sorella, l’Augusta Lucilla. Nella sua fretta di instaurare il suo governo, aveva abbandonato il cadavere del padre perché venisse cremato da altri. Il suo trionfale ingresso in Roma era stato guastato dalla diffidenza del popolo e dallo scherno del  Senato. Era entrato in città come un conquistatore pur non essendo mai stato in battaglia. Il giovane Commodo era riuscito presto a contrariare i senatori che avevano rispettato suo padre, elevando un certo Falco ad un incarico preminente ben al di sopra dei suoi meriti. Si diceva che quel Falco manipolasse l’imperatore, che mi era stato descritto come arrogante e pigro. C’erano anche voci sulla sua innaturale attrazione verso la sorella preferita.

 

E poi vennero i giochi.

 

Centocinquanta giorni di sangue per celebrare il suo defunto padre… per celebrare la gloria di un uomo che aveva disprezzato sia le guerre che era stato costretto a combattere durante i suoi venti anni di regno sia l’insensato spargimento di sangue delle contese gladiatorie. Ma Commodo amava lo spargimento di sangue… se non implicava quello del suo. Mi era stato detto che egli aveva ereditato la perversa inclinazione della madre per i gladiatori ed era comune diceria in Roma che fosse probabile che Faustina lo avesse concepito non sotto il baldacchino porpora del suo imperiale letto nuziale, ma nei sordidi sotterranei del Colosseo, dove, come facevano molte rispettabili matrone romane, ella godeva in un’arena diversa delle capacità dei più coraggiosi campioni. Qualcuno suggeriva perfino che Marco Aurelio non aveva chiuso i giochi mosso dalla compassione, ma per risparmiarsi ulteriori umiliazioni.

 

Anche se trascorrevo molto tempo lontano da Roma e quando ero là me ne stavo per lo più ritirata, non avevo potuto fare a meno di sentire del ripristino dei giochi. Erano stati organizzati in fretta, ma Commodo aveva ordinato che fossero non solo i più lunghi nella storia di Roma ma anche i più splendidi, da superare perfino l’inaugurazione del Colosseo un centinaio d’anni prima. Nessuna spesa sarebbe stata risparmiata e il tesoro pubblico ne avrebbe sofferto moltissimo. A tempo debito, anche le persone a cui i giochi piacevano. Ma loro non sapevano e non se ne curavano. Erano solo interessate al loro pane e al loro vino e al sangue sparso per loro divertimento.

 

A disagio per il mio silenzio, Nicia continuò a parlare.
- Presto torneremo ad Ostia e ci piacerebbe vederli almeno una volta…

 

- Non ho mai sospettato che ti piacessero i giochi, Nicia.

 

- Oh, ci sono stata un paio di volte prima che il Colosseo chiudesse. Atenodoro era solito andare coi ragazzi e scommettere qualche moneta… Una volta vinse, perfino, - disse in un tono che suggeriva che lei avrebbe avuto più buonsenso nel puntare su chi più probabilmente avrebbe vinto. - Tu non hai intenzione di andarci, domina?

 

- No.

 

Il mio tono era abbastanza secco da scoraggiare perfino la curiosità implacabile di Nicia. La mia flotta trasportava qualunque merce, basta che fosse legale ed il trasporto fosse pagato. Qualunque carico legale, tranne schiavi e animali per i giochi. Non appena avevo ereditato la compagnia di navigazione, imposi il divieto a tutti i miei agenti commerciali informandoli nel contempo che cosa aspettasse coloro che avessero osato disobbedire. Ci fu una sollevazione e un uomo a Cipro decise di ignorare il divieto e trarre del profitto contrabbandando cinquanta schiavi africani in una delle mie navi. Al suo arrivo in Ostia, il carico umano era stato liberato e l’uomo licenziato e lasciato a badare a se stesso quando l’infuriato commerciante di schiavi lo cercò chiedendogli indennizzo. Non vi erano stati altri incidenti.

 

- Non sono solo i giochi, domina. E’ IL GLADIATORE…

 

Qualcosa nel tono di Nicia suggeriva le lettere maiuscole.

 

- Il gladiatore? - chiesi per pura educazione. Non sono mai stata ai giochi, ma sono stata  faccia a faccia con dei gladiatori quando venivano alla villa di Cassio per fare da stalloni. Me ne infischiavo se non ne avessi mai più visto uno.

 

- E’ nuovo a Roma. Lo chiamano l’Ispanico. La sua fama lo precede. Viene da qualche posto nelle province africane…

 

- Un ispanico dall’Africa? - Risi.

 

Nicia non vi fece caso, eccitata com’era dalla storia dell’uomo. I gladiatori facilmente diventano soggetto di leggende.
- Nel suo primo combattimento comandava un pugno di provinciali contro alcune delle più eccellenti squadre gladiatorie dell’impero e le ha sbaragliate! E poi, ha sfidato l’imperatore! Gli uomini dicono che è il miglior gladiatore che sia mai esistito… - Nicia abbassò la voce come una cospiratrice. - E le donne dicono che è bello come un dio… Tutta Roma è pazza di lui.

 

Avrei dovuto saperlo. La sete di sangue dei romani può essere paragonata solo alla loro fame di sesso. In latino, ci sono più di trenta parole per prostitute e variazioni del loro commercio. La seconda professione più popolare quando si tratta di linguistica è quella dei gladiatori. Ed entrambi i commerci sono in qualche modo legati, al di là della condivisa infamia che pone le prostitute e i gladiatori fuori della società insieme a becchini ed attori. Perché ricchi aristocratici di entrambi i sessi noleggiano i gladiatori più belli a scopo sessuale e le prostitute a buon mercato vengono regolarmente affittate per servire quelli non favoriti dalle ricchezze. Assistendo ai giochi con il marito di Nicia, le mie domestiche sarebbero state certe di gettare un’occhiata più ravvicinata che non se avessero dovuto sedersi sulle gradinate più alte, dove le donne sole venivano relegate in nome del pubblico decoro.

 

- Domina?

 

- Mhhh? - Perduta nelle mie riflessioni avevo dimenticato Nicia. - Oh, sì, potete andare.

 

- Grazie, domina! Saremo di ritorno per l’imbrunire.

 

Feci un vago gesto con la mano ad indicare che la conversazione era finita. Quando la mia domestica chiuse la porta dietro di sé, ritornai al mio compito, ma non fu di alcuna utilità. La breve chiacchierata mi aveva turbata. Centocinquanta giorni di giochi. Non erano un bene per gli affari. Non erano un bene per Roma. C’era qualcosa di inquietante nella cosa. Forse Apollinario aveva ragione. Forse dovevo divertirmi. All’improvviso, andare a teatro sembrava una buona idea.

 

- ... Massimo ...

 

Mi fermai di colpo mentre andavo in biblioteca.

 

Massimo. Un nome insolito imposto ai neonati maschi romani insieme alle loro bulla come se i loro padri fossero intimoriti dal mettere troppo fardello sulle loro tenere spalle. Massimo. Un nome talvolta aggiunto a quelli ricevuti alla nascita come premio per straordinari conseguimenti. Ma in qualche modo un oscuro contadino ispanico aveva dato quel nome a suo figlio, come se nello stesso momento in cui lo aveva tenuto tra le braccia dichiarandolo suo, fosse stato sopraffatto dalla grandezza del suo stesso bambino.

 

- ... Massimo ...

 

La voce femminile era quella di una delle mie domestiche. Svanì, seguita da nervose risatine femminili. Io mi voltai e mi diressi verso il suono. Erano in un angolo, chiacchierando così animatamente che non si accorsero di me finché io fui loro accanto. Quando lo fecero, ci fu molto trambusto e strilli acuti e rossori e scuse borbottate mentre quattro teste femminili si chinavano rispettosamente.

 

- Di che cosa state parlando? - chiesi sorprendendo me stessa per l’asprezza del mio tono. Le teste si chinarono perfino di più.

 

- Noi… Lollia ci stava raccontando di… di Massimo…

 

- Massimo?

 

- L’I… l’Ispanico, domina… Il gladiatore di cui tutta Roma parla…

 

Non riuscii a dare un nome alla ragazza che stava parlando. Distrattamente, mi dissi che se non ero in grado di ricordare i nomi e i visi delle mie domestiche, era ovvio che la mia proprietà di città doveva essere troppo grande.
- L’Ispanico? - mi accigliai. Riuscivo a sentire il mio cuore battere all’impazzata… Massimo…

 

- Sì, domina. Il nome dell’Ispanico è Massimo…

 

- …ha comandato un pugno di provinciali… sbaragliato… bello come un dio…

 

- Dov’è Nicia? - mi informai. Le domestiche sollevarono le teste e mi guardarono turbate. Fu allora che mi resi conto di stare urlando. Il mio sguardo doveva essere selvaggio. Non m’importava. - Dov’è? - ripetei.

 

- L’ultima volta che l’ho vista, stava andando nella stanza del cucito, domina…

 

- Cercala e falla andare in biblioteca! Subito! - Senza aspettare risposta, mi girai e corsi verso il mio santuario.

 

- Descrivimi il gladiatore. - Nicia aveva a malapena avuto il tempo di chiudere la porta della biblioteca quando io scagliai la domanda.

 

Era confusa.
- Il gladiatore?

 

- L’uomo che chiamano l’Ispanico! Descrivimelo!

 

- L’ho visto soltanto da lontano, nell’arena… c’era talmente tanta gente attorno alle celle di esposizione che non sono riuscita ad avvicinarmi… - Nicia esitò e mi guardò cercando di capire qualcosa. Non trovò nulla. - Domina, che succede?

 

- Smetti di farmi perdere tempo e descrivimelo! - dissi con voce tagliente e gelida. Nicia sobbalzò.

 

- E’… alto ma non troppo… è grosso… un uomo ben piantato… muscoloso… spalle larghe… gambe robuste… capelli scuri, tagliati come quelli di un soldato…

 

- I suoi occhi? - Non poteva essere. Era un generale. Era in Germania.

 

- Non ho visto i suoi occhi, domina… ma le donne dicono che sono i più begli occhi color verdazzurro che abbiano mai visto. 

 

Chiusi i miei per il terrore. Massimo. Il sangue mi rombò nelle orecchie.

 

- Ma l’ho udito parlare mentre lasciava l’arena… quando apertamente ha schernito l’imperatore… non dimenticherò mai la sua voce, domina. Era profonda e tonante.

 

I miei occhi si spalancarono. La sua voce… la profonda voce tonante che mi aveva confortata e incoraggiata e fatta addormentare sei anni prima.  La voce che desideravo sentir chiamare il mio nome… Mi coprii la bocca per soffocare un grido.

 

- Domina, che succede? - Nicia sembrava genuinamente preoccupata. La ignorai.

 

- Sei andata ai giochi due giorni fa. Quando è in programma che combatta di nuovo?

 

- Ecco, oggi è giorno di giochi così lui ci sarà. La gente è pazza di lui per cui lo inseriscono ogni giorno. - Assolutamente inusuale. I gladiatori più popolari talvolta non combattevano che una o due volte l’anno. Avevamo appena finito il pasto di mezzogiorno. I gladiatori combattevano nel pomeriggio. Avrei fatto bene ad affrettarmi. Andai alla porta.

 

- Domina, che succede? Dove stai andando?

 

- Ai giochi, - bofonchiai mentre mi precipitavo nella mia camera da letto.

 

 

 

Quasi corsi per tutto il tragitto dalla via Nomentana verso il Foro ed il Colosseo. Nicia voleva venire con me, ma io afferrai un mantello blu con cappuccio e le sbattei la porta in faccia. A qualche isolato da casa mia, fui presa dalla folla che fluiva verso il massiccio anfiteatro oltre il Foro. Ovunque si sentiva parlare dei giochi e molto prima di arrivare al Colosseo udii il suo nome un centinaio di volte, pronunciato con reverenza e soggezione, in una miriade di accenti e spesso seguito da un’oscenità.

 

Massimo. Massimo. Massimo. Il suo nome mi martellava nel cervello ad ogni passo che facevo e ad ogni battito del mio cuore impazzito. Massimo. Massimo. Massimo. Ogni passo e battito mi avvicinava al Colosseo e ad una temuta rivelazione. Se avessi creduto nella misericordia degli dei, avrei pregato di sbagliarmi, di non aver indovinato chi fosse davvero l’Ispanico. Tuttavia gli dei non sono che pezzi di marmo e la pietra è troppo vicina all’eternità per farsi incomodare dalla misericordia.

 

 

 

Sapevo abbastanza della prassi dei giochi per ricordare che i gladiatori vengono messi in mostra in celle esterne per la pubblica ispezione prima che venga  il loro momento di dare spettacolo. Una volta arrivata nel Foro, dovetti soltanto lasciare che la folla mi spingesse verso l’ingresso nord-occidentale dell’edificio massiccio che torreggiava sopra Roma, svettando verso il cielo, solido e intimidente.

C’è qualcosa di estremamente inquietante nei giochi. Sono l’unico evento che mette insieme i romani, che facciano parte della massa senza volto o di pochi privilegiati. A differenza dei vecchi ateniesi, i romani non si riuniscono per il teatro perché la massa può capire a malapena il linguaggio colto delle tragedie preferite dei patrizi, e se gli aristocratici vogliono la loro dose di rozzo divertimento non si curano delle commedie predilette dalle classi inferiori perché tengono i loro bassi piaceri a portata di mano nei quartieri degli schiavi. Ma i giochi attirano ricchi e poveri dalle loro case e lontano dai loro doveri, come se fossero una forza potente del male a cui non possono resistere, egualmente ansiosi di avere la loro dose di divertimento, testimoniando la distruzione insensata di uomini e donne, giovani e vecchi, umani e animali, vita e bellezza inscenati per il loro divertimento. Perfino le più riverite donne in Roma, le Vergini Vestali, e la famiglia imperiale convergevano al Colosseo, quasi  fosse un massiccio tempio dove il sangue veniva offerto per placare la potente e spietata Dea Roma.

 

Per arrivare alle celle ci volle un’eternità. Ero circondata dall’umanità che si faceva strada premendo verso quella zona, spingendo e avanzando per vedere l’uomo che aveva sfidato l’imperatore. Mentre io avanzavo a passo di lumaca ero esposta ad acute gomitate e piedi che mi calpestavano, linguaggio osceno, rumore assordante e odori opprimenti. Udii anche ogni sorta di chiacchiera sul debutto romano dell’Ispanico e di come aveva condotto i suoi compagni gladiatori in un contrattacco senza speranza eppur vittorioso contro i guerrieri professionisti che impersonavano gli invincibili legionari di Scipione l’Africano… come un generale romano che comanda le sue truppe.

 

"Massimo! Massimo! Massimo!"

 

Adesso le urla della folla erano assordanti. Io ero vicina, molto vicina. Vicina alla verità. Vicina al dolore. Più vicina che mai al mio stesso fato… Fui presa dal panico. Volevo correre. Nascondermi. Chiudere gli occhi e coprirmi le orecchie ed escludere le facce e le urla e la verità. Non c’era modo di riuscire a districarmi dalla folla, nessun luogo dove andare. E poi la folla si divise un pochino e io lo vidi. Lo vidi per la prima volta in sei anni… L’uomo di cui mi ero innamorata quando ne avevo diciotto. L’uomo che la folla chiamava l’Ispanico. L’uomo che io conoscevo come il generale Massimo Decimo Meridio. L’uomo che nei miei sogni chiamavo “amore”.

 

Sedeva nell’ombra, sul retro della cella, ma in nessun modo potevo perdermi il suo viso rudemente bello, i morbidi capelli neri tagliati in stile militare, la barba accuratamente tagliata che gli incorniciava una bocca che sembrava ingannevolmente dolce e morbida come quella di una donna… ma nella passione era tutta virile durezza e audace esigenza.

 

Qualcosa scattò dentro di me. Scalciando e sgomitando di lato chi mi stava intorno, riuscii ad avvicinarmi di più. Il mio mantello s’impigliò e io lo tirai strappandolo nello sforzo di liberarmi. Spinsi. Artigliai. Calpestai donne, uomini, bambini. Arrivai in prima fila.

 

Egli rimase indifferente e dignitoso, il viso imperscrutabile, gli occhi… che potevano bruciare di passione o gelare in azzurre polle di ghiaccio… persi nel vuoto. Il suo atteggiamento passivo non faceva nulla per diminuire la sua forza, il suo potere, la sua dignità. Vestito della ruvida tunica azzurra da gladiatore e dell’armatura di cuoio, ogni centimetro rivelava il generale che era. La sua pelle era abbronzata in una tonalità più scura di quanto ricordassi. Le sue braccia e gambe nude sembravano più poderosamente costruite… Era stupendo.

 

Afferrai le sbarre di ferro, in un vano tentativo di avvicinarmi di più, ma anche di impedirmi di cadere, dal momento che la testa mi girava e le gambe mi tremavano.
- Massimo! - formulai il suo nome ma pur se assordata dalla folla ruggente, sapevo che nessun suono era uscito dalla mia gola contratta.

C’erano altri uomini nella cella. Uomini grossi, corpulenti, minacciosi. Tutti indossavano l’obbligatoria tunica azzurra, ma i loro lineamenti e capelli parlavano di razze e culture diverse. Distrattamente notai un enorme germanico con gambe come alberi e braccia da orso, un essere fiero con lunghe trecce nere e lunghi baffi e uno splendido africano dalla pelle color ebano. I suoi compagni gladiatori. Le sue truppe. Dimostravano rispetto e lealtà al loro comandante cercando di fargli scudo con i loro corpi dalle indesiderate attenzioni sia degli uomini nell’ottenere il meglio dal loro denaro sia dalle donne che cercavano di persuaderlo ad avvicinarsi o con fiori e dolci oppure offrendogli apertamente i loro corpi. Egli non vi fece caso.

 

In qualche modo ritrovai la voce.
- Massimo! - Urlai più e più volte il suo nome. Ancora una volta inutilmente. Le mie grida  gli andarono perdute…. Perdute come tutte le altre. Una volta si voltò verso di me e io  credetti di stare per morire…. Tuttavia il suo sguardo rimase lontano mentre mi superava. Strinsi la presa sulle sbarre di ferro arrugginite. Mi premetti contro di esse fino a che mi fecero male i seni. Gridai e gridai…

 

La porta interna della cella si aprì e un gruppo di guardie armate entrò, pronto a scortare i gladiatori nelle viscere del Colosseo dove si sarebbero preparati per i combattimenti del giorno. Massimo si alzò in piedi con un movimento felino armonioso e fluido. I suoi compagni mostrarono la loro deferenza all’uomo che era divenuto il loro comandante lasciandolo andare per primo. Camminò verso la porta e l’oscurità lo avvolse. Poi i corpi dei  gladiatori nascosero la porta alla mia vista. Pochi passi ed era uscito. Uscito dalla mia vista… ma rientrato nella mia vita.

 

Rimasi radicata al mio posto, con le mani che ancora stringevano forte le sbarre della cella, gli occhi che guardavano lo spazio vuoto dove lui era stato. A poco a poco la folla attorno a me si diradò e si mosse a fatica verso l’ingresso del Colosseo, ansiosa di entrare nell’arena per godersi l’esibizione dell’Ispanico. A poco a poco il ruggito della folla morì intorno a me, sostituito da quello distante degli spettatori all’interno dell’anfiteatro. E il coro ricominciò.
- Massimo! Massimo! Massimo!

 

Lasciai andare le sbarre e sorprendentemente non mi afflosciai. Ma rimanevo ancora lì, incapace di muovermi.

 

- Mia signora?

 

Con un ansito mi voltai verso l’uomo che mi aveva parlato. Per un breve istante, fissai i miei occhi su di lui. Aveva pelle scura, capelli neri, era di altezza media e vestiva una toga pristina. Un equestre o un patrizio. Nessuno che conoscessi. Nessuno che mi interessasse conoscere. Massimo… Con un basso gemito di disperazione, distolsi il viso e fuggii.

 

Non andai lontana. La nausea mi afferrò e a malapena raggiunsi un viale laterale prima di cadere in ginocchio e vomitare l’anima. Diedi di stomaco finché non ebbi più nulla da rigettare e poi rimasi in ginocchio in mezzo a polvere, sudiciume ed il mio stesso vomito, rabbrividendo e sudando, il mondo che mi vorticava intorno, gli occhi chiusi, le orecchie rimbombanti, il respiro affannoso. Non ricordo per quanto rimasi nel viale o come radunai abbastanza forza per alzarmi e ritornare al Quirinale. Ricordo soltanto di essermi fermata ad una fontanella pubblica per lavarmi il viso e sciacquarmi la bocca. Da qualche parte sulla via del ritorno mi cadde il mantello blu strappato e insudiciato. Due mendicanti immediatamente cominciarono a contenderselo.

 

Il portinaio che mi fece entrare nella mia stessa casa fu disorientato quando mi vide. I miei capelli erano per metà sciolti, la mia tunica lurida, la borsa perduta. Lo spinsi da parte e andai verso la mia camera da letto ignorando le domande ansiose che fioccavano intorno a me da parte delle domestiche e sbattei loro la porta in faccia.

 

Una volta all’interno rimasi zitta per un lungo istante. Poi, caddi di nuovo in ginocchio ed emisi un ululato. L’ululato angosciato, doloroso, straziato che non avevo mai fatto. L’ululato di un animale ferito. L’ululato che era uscito dalle labbra di Eugenia quando le avevano portato via il suo piccino. L’ululato che avevo soppresso quando Marco Aurelio mi aveva detto che Massimo aveva chiesto di andarsene in Ispania da sua moglie, mentre a me mi mandava a Roma perché badassi a me stessa.

Piansi. Urlai. Mi alzai, presi un vaso da fiori di pesante alabastro e lo fracassai contro il muro. Imprecai. Usai ogni parolaccia che conoscevo e qualcuna che nemmeno ricordavo di conoscere. Maledii il fato. Maledii la vita. Maledii gli dei. Ma soprattutto maledii Massimo.

 

Lo maledii per essere quello che era. Per essere come era. Per essere forte e bello e virtuoso. Per essere l’unico uomo che avevo amato e che avrei mai amato. Per avermi desiderata e respinta. Per avermi lasciata sola ed essere tornato dalla moglie. Per avermi negato il suo corpo da dio. Per essere troppo buono per essere un mortale. Per essere troppo umano per essere un dio. Caddi a faccia in giù sul mio letto imprecando e piangendo. Presi a pugni  cuscini e guanciali. Urlai ancora in un parossismo di angoscia e disperazione mentre le mura che avevo eretto per proteggermi dalla mia infelicità crollavano e precipitavano e le mie ferite si riaprivano e riprendevano a sanguinare. Un’intera vita di dolore e paura e solitudine esplose in un incendio di collera. Volevo uccidere. Volevo morire…

 

All’improvviso la porta della mia camera si spalancò sbattendo con violenza. Udii voci preoccupate e passi affrettati. Qualcuno mi afferrò per le ascelle, mi tirò in piedi e mi fece voltare. Un uomo.
- Giulia! Giulia!

 

Stavo soffocando nei miei stessi singhiozzi. L’uomo mi scosse, poi mi prese tra le sue braccia e mi schiacciò contro il suo petto. Seppellii il volto nella sua spalla, respirando il familiare profumo di limone e spezie che egli usava sempre e sentendomi vagamente confortata da quella fragranza pulita e fresca. Le sue non erano le braccia abbronzate, nude, muscolose che bramavo. Ma c’era una sorta di forza in esse e, soprattutto, c’era calore. Calore di cui avevano assoluto bisogno il mio corpo tremante, sudato e gelido ed il mio cuore calpestato. Lo afferrai come un uomo che sta per annegare afferra un pezzo di legno.

- Apollinario...

 

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[1] L’attuale Lione (N.d.T.).

[2] In realtà, il nome Colosseo cominciò ad essere usato nell’alto medioevo (N.d.T.).