Diario di Giulia – Parte seconda

Capitolo II - La mia nuova vita, parte prima 174 d.C.

Rallentati dalla tempesta e da altri due brevi periodi di brutto tempo, non raggiungemmo l’Italia prima dell’autunno. L’autunno a Roma è bello ed è sempre stata la mia stagione preferita. Ma presto fui talmente assorbita dalle mie paure e dal dolore che a mala pena mi accorsi delle tonalità d’oro e rame delle foglie o del modo in cui il sole splendeva sulle ultime messi.

Marco Aurelio aveva ordinato alle legioni di andare in fretta a Roma, ma per una legione andare a Roma non significava entrare nella città murata, bensì accamparsi nella più vicina base militare ad Ostia. Era un accordo tra gli imperatori e i comandanti d’esercito in vigore da un secolo. Allo stesso modo in cui le lettere SPQR venivano disegnate come stemma in ogni aquila e monumento pubblico e perfino tatuate con l’inchiostro nei bicipiti sinistri di ogni uomo dell’esercito, i generali tenevano le loro armate fuori della capitale. Perché allo stesso modo quelle quattro lettere ricordavano agli uomini che combattevano per e servivano il Senatus PopulusQue Romanus, il Senato ed il Popolo Romano, e non le personali ambizioni degli imperatori, l’interdire alle legioni di entrare nel perimetro della capitale era anche un modo per ricordare ai governanti la fragilità della loro posizione e quanto essi dipendessero dalla lealtà dei loro eserciti.

Così ci dirigemmo alla base militare di Ostia, vicino al porto dove le navi provenienti dall’Egitto e dalla Grecia e da molte altre province facevano arrivare il loro prezioso carico, e arrivammo là in un assolato pomeriggio d’autunno allestendo l’accampamento per l’ultima volta.
Da quella nostra conversazione nella mia tenda durante la tempesta, Cornelio Crasso mi aveva fatto visita regolarmente per adempiere i suoi ordini, ma invece di darmi istruzioni sulla mia libertà acquisita di recente o sulla discrezione richiesta dal mio nuovo stato sociale, per la maggior parte del tempo mi interrogò su dove aveva abitato il generale Cassio, la posizione della sua villa e il numero di schiave adulte e ragazze che vi vivevano. Mi chiese ancora educatamente se avevo bisogno o volevo qualcosa ma mai, mai riparlò di poesia o della sua giovinezza o dell’affascinante uomo che chiamava Apollinario e mi scoprii più delusa di quanto mi curassi mostrare.

Eravamo ad Ostia da quattro giorni quando Cornelio Crasso comparve alla mia tenda e mi trovò ancora una volta a lottare con un papiro, come avevo fatto ogni notte da quando mi aveva parlato della poesia e del suo amore per Ovidio. Io ero mortificata per essere stata sorpresa per la seconda volta nel pieno della mia inadeguatezza, ma Cornelio Crasso agì come se fosse la cosa più naturale del mondo trovare un’ex-schiava e prostituta appena letterata intenta a cercare di decifrare poesie.

- Accetta le mie scuse per averti interrotto, domina, - disse con la sua voce quieta e colta, - ma sono venuto ad informarti che domani ti trasferirò da questo accampamento. Andremo all’accampamento pretoriano ai confini della città, dove ho affari da sbrigare. Poi ti porterò a Roma.

Pur disagevole com’era, la vita d’accampamento era stata buona cosa per me, dacché la quotidianità militare mi aveva aiutato ad acquietare i miei sensi per la durata del viaggio. Era stato una sorta di conforto l’essere obbligata ad alzarmi all’alba ogni giorno, prendere le mie cose, montare a cavallo e cavalcare per ore ed ore solo per fermarsi, vedere alzare la mia tenda e disfare i bagagli per la notte, poi riempirmi lo stomaco con cibo preparato da altri e finalmente cadere addormentata sulla mia branda per una notte di sonno esausto e senza sogni. Ma adesso era finita, come era finita la cura e protezione di Massimo quando ero stata congedata da lui e dall’imperatore e il momento temuto di essere gettata nel mondo per provvedere da sola a me stessa era più vicino che mai.

- Partiremo di mattina presto e rimarremo là per la notte. Il giorno dopo porterò te e la tua cameriera a casa di mia sorella.

Arcuai le sopracciglia con aria interrogativa.

- Ci vorrà del tempo prima che riesca a farti stabilire in Roma come l’imperatore ha ordinato, domina. Dovrò lasciarti sola mentre eseguo le commissioni dell’imperatore e tu non puoi alloggiare da sola in una locanda perché non è rispettabile. - Sollevò una mano per fermarmi prima che potessi parlare. - Voglio che tu rimanga in un luogo dove sarai al sicuro e curata mentre io sarò occupato a preparare gli atti legali di Cesare. Ti porterei a casa della mia famiglia, ma mio fratello sta prestando servizio in Siria e la moglie è con lui e noi non possiamo alloggiare sotto lo stesso tetto senza la loro presenza.

- Che ne sarà delle donne?

- Verranno con noi all’accampamento pretoriano dove rimarranno mentre i pretori tratteranno il loro affrancamento e la loro sistemazione. I tuoi sono già stati risolti dall’editto imperiale e io non devo far altro che farlo iscrivere nei pubblici registri. I pretori si prenderanno anche cura delle schiave alla villa…

Lo stomaco mi si contrasse dolorosamente.

- Sei… stato alla…

- Tutto fatto. Abbiamo liberato diciassette donne. Tre di loro sono incinte.

Rabbrividii.

- Stanno bene e saranno liberate e riceveranno un’indennità. Non devi preoccuparti.

- E le bambine? Le neonate?

- Abbiamo trovato otto bambine e tre neonate. Cesare ha dato ordine di provvedere a loro. Le neonate rimarranno con le loro madri e le bambine saranno sistemate nello stesso modo delle altre. L’imperatore è un uomo compassionevole.

Un dolore sordo mi colmò. Strinsi forte le labbra per controllare le mie agitate emozioni.

- Verrò da te all’alba. Per favore, sii pronta a partire.

Annuii in silenzio, non fidandomi della mia voce. Poi mi voltai, ansiosa come sempre di essere lasciata da sola. Non avevo fatto che due passi quando la voce di Cornelio Crasso mi raggiunse di nuovo.

- E, domina, ti prego di riconsiderare le mie parole. Non ti sto giudicando. Ma ti è stata data l’opportunità di ricominciare da zero. Per favore, fai a te stessa il favore di osservare qualche convenzione. Raccogliti i capelli.

 

Fu nei castra praetoria che trovai Rubia. Ho sempre amato i gatti. Sono belli, eleganti, intelligenti, pieni di dignità e fieramente indipendenti. Sono silenziosi ed osservatori, saggi e riservati, eleganti e sicuri di sé. E perfino quando consentono di condividere le loro vite con noi, guardano gli umani con un misto di divertimento ed esasperazione che non manca mai di stupirmi. E’ come se per loro noi fossimo creature curiose ed un pochino ottuse. E riescono sempre a stabilire chi ha la mano migliore e ad andarsene con l’ultima parola. Ciononostante, non sono insensibili come molti credono. Semplicemente si rifiutano di permetterci di coinvolgerli nella meschinità delle nostre vite perché essa è al di sotto di loro. Ma quando le nostre tristezze sono genuine e non nate dalla nostra stupidità, possiamo esser certi che ci porteranno conforto nel loro silenzioso modo misterioso.
Inutile dire che nella stessa misura in cui non avevo mai avuto una bambola, non avevo mai neanche avuto un gatto perché non c’era posto alla villa di Cassio per animali che non fossero segugi da caccia. Ma in un modo o nell’altro, io riuscivo a sfamare i randagi che venivano sia alla villa che all’accampamento in Moesia e a passare con loro momenti benedetti di silenzioso conforto.

Rubia era solo una micina e io fui richiamata al suo nascondiglio sotto un carro dal suo insistente miagolio, un lamento esigente che la diceva lunga sul carattere della pelosa creatura. Aveva circa un mese, era di tre colori e aveva grandi occhi verdi. Era ovvio che si era persa ed aveva fame, tuttavia sibilò e soffiò come una tigre in miniatura quando cercai di prenderla. Ci volle molta pazienza e una ciotola di latte di capra per farla uscire e nel frattempo mi sporcai la tunica e le mani e riuscii ad attrarre molta attenzione da parte degli uomini dai mantelli neri che non sembravano capaci di decidersi tra il divertimento e l’esasperazione. Dimentica di tutto e di tutti continuai ad attirare la gattina e la trassi da sotto il carro. Finalmente, quando ebbe bevuto a sazietà, fece le fusa soddisfatta, permettendomi di prenderla e portarla alla mia tenda.

Quando vi giunsi, Rufa stava dormendo e io la sconcertai ordinandole di aiutarmi a preparare un posticino per la gattina e circondando di premure l’animale come non mi aveva mai vista fare. E quando all’imbrunire arrivò Cornelio Crasso, mi trovò a cullare l’ancor addormentata micina che avevo già chiamato Rubia, perché tra i suoi colori l’arancio-ramato era quello dominante e quel colore acceso s’intonava perfettamente alla personalità della gattina.

Cornelio Crasso guardò me e la gattina con qualcosa di prossimo all’incredulità e io lo guardai arcigna, sfidando silenziosamente il questore ad osare essere in disaccordo con l’adozione. Il suo sguardo divenne divertito. Era chiaro che aveva saputo dai pretoriani della mia avventura.

- Vedo che ti sei trovata un animale da compagnia, domina, - disse togliendosi l’elmo. - E’ un bene che ti sia trovata un’amica, ma dovrai essere molto cauta quando la porterai in città perché potrebbe perdersi facilmente.

Serrai la mia stretta sulla gattina e lo guardai offesa come se avesse messo in dubbio la mia idoneità alla maternità. La gatta si svegliò e miagolò in segno di protesta per l’essere lisciata. Io la coccolai e zittii mentre guardavo accigliata il questore, biasimandolo silenziosamente per aver disturbato Rubia. Cornelio Crasso sospirò.

- Domina, sii pronta a partire dopo mezzogiorno perché porterò te e la tua cameriera… e la tua gatta… in città.

Mi morsi il labbro.
- Le donne? - chiesi ancora una volta con voce sottile.

- Non devi preoccuparti, domina. Saranno liberate entro pochi giorni. Voglio che tu sia la prima ad arrivare a Roma. - Mi guardò brevemente negli occhi e aggiunse. - Puoi metterti in contatto con loro più avanti… - Esitò.

Sapevo cosa in realtà voleva dire: che dovevo dimenticarle, metterle da parte come Massimo aveva fatto con me. Che quelle donne sfortunate non erano che prostitute e non sarebbero mai state altro, anche se da quel momento in poi sarebbero state pagate per l’uso dei loro corpi esperti.

Rimasi in silenzio. Non aveva bisogno di sapere che io avevo già deciso di andare per la mia strada e lasciarle, non perché fossi migliore di loro, ma perché se ero costretta a badare a me stessa, allora volevo lasciarmi alle spalle tutto quello che riguardava la mia vecchia vita. E perché non potevo sopportare l’idea di vedere quelle donne sfortunate ritornare alla prostituzione, non per il denaro o perché piacesse loro, ma semplicemente perché era il solo modo per poter evitare la solitudine. Non aveva bisogno di sapere cose che non poteva capire semplicemente perché, come Massimo, era nato maschio ed era nato libero.

Giungemmo alla casa della sorella di Cornelio Crasso la sera presto e ancor prima di bussare alla porta dell’elegante casa, era chiaro che il nostro arrivo non avrebbe potuto essere più intempestivo, perché la casa era piena di luce e straripante di ospiti. Pur se sorpreso, Cornelio Crasso bussò alla porta ed il portinaio lo salutò caldamente, ma fu colto alla sprovvista quando Cornelio Crasso chiese il motivo della celebrazione e spiegò con voce sommessa che era natalicia nobilisima Silvia Cornelia, la festa di compleanno della signora, che il questore pareva aver completamente dimenticato.

Cornelio Crasso si passò stancamente una mano sulla fronte. Gli ultimi due giorni erano stati tremendi anche per quell’esperto soldato. Provenendo da Ostia, eravamo entrati in Roma attraverso la Porta Ostiense e da lì andare ai castra praetoria significava attraversare a piedi la città da un limite all’altro, perché viaggiavamo alla luce del giorno. Anche se una scorta pretoriana aveva accelerato la nostra marcia, era una lunga distanza tra vie affollate e rumorose. Arrivare dall’accampamento pretoriano a quella casa elegante nel Primo Distretto e vicina a Porta Capena aveva quasi significato ripetere l’intero percorso.

Prima che avesse il tempo di dire qualcosa, la nobilissima e chiaramente incinta Silvia Cornelia apparve nell’atrio. La somiglianza tra fratello e sorella era sorprendente. La giovane matrona era sui venticinque anni e aveva gli stessi occhi verde muschio e capelli castano chiaro che portava, a differenza di me, decorosamente raccolti. E, come lui, avrebbe potuto essere bella se non si fosse presa tanto sul serio. Ma Silvia Cornelia si prendeva molto sul serio e non fu felice di trovare al suo atrio il suo stanco fratello vestito nell’uniforme logora e polverosa mentre lei riceveva coloro che, a differenza di lui, sembravano aver ricordato l’importante data. E fu meno che felice nello scoprire che egli non solo era venuto nel più inconveniente dei momenti ed evidentemente non annunciato, ma trascinando con sé il suo “incarico personale”, per tacer della ragazza numida che reggeva un cesto nel quale dormiva un gattino.

Uno sguardo a Silvia Cornelia fu tutto quello di cui ebbi bisogno per capire il genere di donna che era, una di quelle mogli d’alto ceto che tengono in grande considerazione solo il loro nome e le loro virtù, il loro lignaggio perfetto e la loro fertilità. Viene loro insegnato a tessere e cucire e a gestire una casa, a trattare con gli schiavi e a sottomettersi alla volontà dei loro padri subendo matrimoni combinati e generando bambini, mentre compiono i loro doveri coniugali ma non prendono parte ad essi, limitandosi a giacere sulla schiena mentre i loro mariti fanno quel che occorre per seminare nei loro ventri costosi pargoli di sangue puro. E a Silvia Cornelia non bastò che un’occhiata per decidere che io ero merce avariata.

Prima che il fratello potesse parlare, la giovane matrona sollevò il mento appuntito e gli si rivolse in tono non troppo gentile.
- Dal momento che non hai annunciato la tua visita, devo supporre che non ti ricordi che giorno è oggi, - disse brusca.

- Mi dispiace molto, sorella. Come sai, sono stato in servizio e sono appena tornato in città. Non avrei dovuto venire senza farmi annunciare se non fosse stato per bisogno… - cominciò il questore.

- Per bisogno? Scegli il tuo tempo malamente, fratello. Come puoi vedere, sto intrattenendo ospiti. Ospiti importanti.

Cornelio Crasso sospirò.

- Non sapevo di aver bisogno di un invito per visitare la mia famiglia.

- No infatti. Ma è da maleducati dimenticare il compleanno di tua sorella. E ancor peggio portare un’altra persona senza chiedere il permesso.

- Silvia, lascia che ti presenti.

- Non credo di voler essere presentata.

Rubia scelse quel momento per svegliarsi, far spuntare la testolina color arancio sopra il bordo del cesto e fissare sulla matrona i curiosi occhi verdi.

- Un gatto! - strillò Silvia Cornelia. - Che ci fa quella sudicia bestia nella mia casa?

Allarmata dalla voce della signora, Rubia saltò dal cestino e corse all’interno della nobilissima casa. Senza pensarci due volte, corsi dietro la gattina, spingendo da parte Silvia Cornelia e suo fratello. Vagamente udii delle strilla dietro di me e i passi degli stivali del questore seguirono quelli più leggeri del portinaio, probabilmente.
Rubia correva alla cieca, cercando un luogo in cui nascondersi e io le corsi dietro. Troppo tardi mi accorsi che la porta del triclinio era stata aperta e che la bestiola si stava dirigendo direttamente in quella stanza. Spaventata dall’ondata di luce e dal rumore, la gattina all’improvviso si fermò e mentre io cercavo di evitare di correrle sopra, scivolai sul lucido mosaico e caddi pesantemente carponi. Il dolore mi attraversò il corpo e il respiro mi abbandonò. Mentre rimanevo lì, in preda alle vertigini e ansimante, usai le mie ultime forze per afferrare Rubia per il pelo della nuca e impedirle di cacciarsi in altri guai.

A poco a poco notai che tutti i suoni erano cessati attorno a me e mentre alzavo lo sguardo dalla tremante gattina vidi che ero circondata da un semicerchio di uomini e donne elegantemente vestiti, palesemente i patrizi ospiti di Silvia Cornelia. Vidi le donne guardarmi diffidenti ed arcigne. E vidi gli uomini arcuare le sopracciglia e sorridere con aria d’apprezzamento mentre i loro sguardi vagavano sul mio corpo. Torreggiando sopra di me, gli ospiti maschi di Silvia Cornelia avevano un’ampia visuale del mio seno ondeggiante.

Cornelio Crasso venne a fermarsi accanto a me, mi afferrò per il braccio e senza troppe cerimonie mi tirò in piedi.
- Stai bene, domina? - chiese con tono d’avvertimento. - Io annuii in silenzio, arrossendo penosamente
e odiandomi per aver dato spettacolo davanti a quei ricchi romani.

L’improvvisa apparizione di un ufficiale romano d’alto rango in completa regalia che seguiva quella di una donna dai capelli rosso-oro che non era per nulla aristocratica… per tacer del gattino a tre colori e della servetta dalla pelle nera che arrivò dietro i talloni di Cornelio Crasso… era davvero troppo per la curiosità degli ospiti. Come obbedendo ad un segnale, tutti cominciarono a parlare e a fare domande contemporaneamente.
Silvia Cornelia arrivò a questo punto e dopo avermi trafitta con un’occhiata omicida, si plasmò un sorriso sulla faccia e ricondusse gli ospiti nel triclinio facendo cadere qua e là qualche parola sulle province e il dovere e come doverosamente il suo caro fratello servisse Roma e l’imperatore.

Seguimmo un servo lungo le scale ed un corridoio al secondo piano. Durante tutto il tragitto, Cornelio Crasso mi strinse il braccio e io non protestai. Mi sentivo esausta ed umiliata e le ginocchia avevano già cominciato a farmi molto male. Rubia era ancora irrigidita dalla paura. Una Rufa silenziosa chiudeva la marcia.
Il servo si fermò ad una porta all’estremità più lontana del corridoio e l’aprì.

Cornelio Crasso mi lasciò andare il braccio e si scusò.
- Domina, sarai al sicuro qui. Mettiti a tuo agio e riposa mentre mi cambio con abiti civili e scendo alla festa di compleanno di mia sorella… ho bisogno di parlarle… Verrò da te non appena avrò finito di scrivere i tuoi documenti. - Mi scrutò il viso, ma io ero troppo stanca per ricomporlo in una maschera indecifrabile com’era mia abitudine e di certo esso sottolineava quanto mi sentissi svuotata. - Riposati! - ripeté, ma io non riuscii a capire se fosse un consiglio gentile o un sottile ammonimento. Ciò detto, egli s’inchinò leggermente e se ne andò.

Quando entrai nella stanza, Rufa aveva già acceso le uniche due lampade ed era ovvio che non era certo la migliore stanza per ospiti della casa. Era piccola, senza finestre e odorava di polvere e muffa. La mobilia era vecchia e non c’era altro posto in cui Rufa potesse dormire se non il tappeto sfilacciato. Ritraendomi raccapricciata, mi sedetti sul letto e guardai intorno mentre la piccola numida si dedicava filosoficamente alla prassi di ogni sera. Improvvisamente, scoprii che la invidiavo.

 

La sete mi svegliò. Rufa aveva abbassato le lampade prima di accoccolarsi accanto a me sul letto, ma anche nella luce tenue riuscii a vedere che non c’era alcuna brocca d’acqua nella stanza. Mi alzai cercando di non svegliare la ragazza addormentata e la gattina, che si era acciambellata in mezzo a noi, e camminai verso la porta. Aprendo uno spiraglio notai che la festa era terminata e la casa era silenziosa, ma alcune torce bruciavano ancora nel cortile. L’acqua gorgogliava in una fontana vicina e a quel suono gorgogliante che prometteva dolce sollievo la sete divenne una belva furente che mi strappava le viscere. Avanzai silenziosamente verso le scale e le scesi velocemente a piedi nudi.
L’acqua era fresca e dolce e io la bevvi d’un fiato ansiosamente, senza curarmi che mi scendesse dal mento e tra i seni. Mi spruzzai il viso e il collo e stavo di nuovo bevendo avidamente quando il suono di voci e passi mi colse di sorpresa. Qualcuno stava venendo nel cortile. Ebbi appena il tempo di nascondermi nelle ombre della galleria e dietro il supporto di un vaso color miele prima che un’agitata Silvia Cornelia entrasse in giardino seguita dal fratello. Il questore indossava una semplice tunica bianca e sembrava decisamente esausto.

- Come osi portare la tua mantenuta in casa mia? - sibilò Silvia Cornelia.

- Silvia, non è la mia mantenuta! Domina Giulia è un mio incarico…

- Domina Giulia? Chiami quella creatura “Domina Giulia”?

- E’ il suo nome.

- E’ una puttana!

- Ora, Silvia, non essere così dura…

- Si deve solo dare un’occhiata a quella criniera di capelli che ostenta perché tutti capiscano.

- Non li ostenta, i capelli. Semplicemente, li lascia sciolti.

- E quale genere di donna lascia i capelli sciolti? Eh? Dimmelo!

- Quelle molto giovani e nubili. Domina Giulia è molto giovane e nubile.

- Nostro padre diceva sempre che c’era qualcosa di sbagliato in te e aveva ragione! Non è abbastanza brutto che alla tua età tu non sia sposato? Se vuoi avere una mantenuta, è un tuo problema. Ma non portarla nella mia casa per umiliarmi di fronte ai miei ospiti.

- I tuoi ospiti l’hanno vista solo di sfuggita! - protestò Cornelio Crasso.

- Abbastanza perché mi chiedessero chi fosse! Ho dovuto inventare scuse…

- Oh, ma non avresti dovuto, mia cara, - disse il questore cauto. - Avresti potuto dir loro la verità.

Anche nella luce tenue delle ultime torce riuscii a vedere che Silvia Cornelia era stupefatta. Prima che potesse continuare a parlare, il fratello completò la frase.

- La prossima volta che chiedono, Silvia, dì loro che domina Giulia è sotto la personale protezione dell’imperatore e che Cesare si fida talmente del tuo inutile fratello che gliel’ha affidata.

La donna si riprese in fretta. Era abituata ad averla vinta o, almeno, ad avere l’ultima parola. Mi chiesi fugacemente chi fosse il suo innegabilmente assente marito. Probabilmente un magistrato d’alto rango troppo felice di risparmiare alla sua nobilissima moglie i disagi della permanenza in una remota provincia dove egli manteneva una creatura più  piacevole che gli facesse compagnia.

- Quindi non è la tua mantenuta, ma quella dell’imperatore…

- Basta! Non è affar tuo o di chiunque altro giudicare cosa fa Cesare.

Colta di sorpresa dalla reazione furente del fratello, Silvia Cornelia indietreggiò e io non riuscii a trattenere un debole sorriso.

- E adesso, sorella, come tuo fratello e capo della nostra famiglia in assenza di Giunio Cornelio, ti ordino di fare il tuo dovere verso la tua famiglia ed il tuo imperatore e di ospitare domina Giulia per tutto il tempo necessario.

La matrona non sembrava molto incline a cooperare, ma non poteva negare al fratello i suoi diritti di temporaneo pater familias. S’irrigidì e strinse le labbra.

- Assicurati che domina Giulia sia comoda e che la sua permanenza nella tua nobilissima casa sia piacevole.

Silvia Cornelia rimase muta. Non mi feci illusioni sulla mia permanenza in quel luogo. Conoscevo il tipo: avevano i loro modi per vendicarsi.

- E per tua conoscenza, Silvia, domina Giulia non è la mantenuta dell’imperatore.

- Ah, no? - schernì la matrona. - Allora com’è che è così preziosa per lui?

- Perché ha salvato il suo trono… e l’impero, - disse Cornelio Crasso con un largo sorriso compiaciuto. Girò sui talloni e lasciò il giardino.

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