Diario di Giulia – Capitolo II

La mia infanzia nella tenuta di Avidio Cassio

Nacqui nella tenuta del generale Avidio Cassio, schiava allevata per la bellezza e per il piacere del maschio, come i cavalli si allevano per la velocità o la resistenza. Non ero l’unica. Eravamo un gruppo di ragazze e giovani donne segregate nella villa di campagna del generale, a due ore da Roma. Era abbastanza vicina alla città perché Cassio ricevesse e intrattenesse senza difficoltà i suoi ospiti, ed abbastanza lontana dagli occhi della moglie. Non che fosse interessata: come la maggior parte delle mogli dell’alto ceto, avendo fatto il proprio dovere nei confronti del marito e datigli gli indispensabili figli maschi, la signora non era minimamente interessata ai luoghi che egli frequentava, fintanto che non arrecavano vergogna o disonore al loro casato e alla loro famiglia. E, poichè Cassio era ricco, potente e discreto, non c’era pericolo. Almeno non in quei giorni... anche se alla fine le cose si rivelarono molto peggiori di quanto la signora avesse potuto temere.

La nostra guardiana era Turia, una liberta alta e dai capelli scuri, di circa trentacinque anni, che in giovinezza era stata la concubina di Cassio e che ora deteneva il potere assoluto tra le mura della villa ed era direttamente responsabile di noi. Vivevamo appartate, specialmente le bambine, che non erano ancora pronte per i loro doveri e per sostenere il loro ruolo nei giochi di potere di Cassio. Siccome non eravamo schiave comuni, il lavoro duro e lo sfinimento ci erano estranei. Ci avevano allevate per svolgere mansioni che non avevano nulla a che fare con il pulire o il cucinare o il lavorare la terra, ma con il compiacere gli uomini: amici di Cassio, alleati politici e militari di Cassio, potenziali sostenitori di Cassio, ufficiali di Cassio e, naturalmente, Cassio stesso.

Come ho detto, Turia era la nostra guardiana, ma anche la nostra insegnante, e conducevamo una vita molto rigida. Negli anni a venire, avrei imparato che la disciplina senza amore che controllava la nostra esistenza non era molto diversa da quella che controllava l’esistenza delle vergini Vestali.

Ma ogni rassomiglianza finiva lì: il nostro asservimento non aveva nulla a che fare con Vesta ma con Venere; la nostra verginità era stimata solo da coloro che l’avrebbero presa e quando, e non fino a quando l’avremmo mantenuta, e la nostra utilità sarebbe stata molto più breve dei trent’anni di servizio promessi dalle Vestali quando prendevano i loro voti. Almeno esse sapevano fin dall’inizio la data della loro liberazione e la ricompensa che avrebbero ricevuto, alcune ancora abbastanza giovani, quando sarebbe venuto il momento, per trovarsi un buon marito e una famiglia dopo tre decadi nel tempio della dea. Per noi, la conclusione del nostro servizio significava essere tenute nella proprietà più a lungo, se ci dimostravamo buone fattrici, dando a Cassio belle ragazze con cui rimpiazzarci… vale a dire, se non morivamo di parto o aborto. Alla fine, tutto ciò che potevamo aspettarci era di essere relegate a posti inferiori, dimenticate o vendute.

La mia vita era innaturale quanto la mia nascita. Non l’amore e nemmeno la lussuria mi avevano generata dai lombi dei miei sconosciuti genitori, ma la volontà di un uomo implacabile avvezzo a controllare le vite altrui, ad essere obbedito e soddisfatto nei suoi desideri. Fin da tenerissima età, imparai ad essere una donna affascinante, una schiava obbediente, un’esperta cortigiana. Sotto l’inflessibile tutela di Turia, imparai come accrescere la bellezza con la quale gli dei mi avevano benedetta, come vestirmi, come profumarmi i capelli e il corpo, come truccarmi, come muovermi, come sorridere, come essere aggraziata ed elegante, come parlare e quando rimanere in silenzio e, soprattutto, come soddisfare qualsiasi fantasia di un uomo, non importa quanto complicata o innaturale. E, naturalmente, mi fu anche insegnato a fingere, perché ci si aspettava da noi che non soltanto sopportassimo le attenzioni degli uomini e li compiacessimo, ma fingessimo anche che ci piacesse, non importa quanto rozzi, incapaci o ripugnanti fossero. Come diceva Turia, non era affar nostro giudicare, ma lo era farli sentire come degli dèi che aravano vogliose donne mortali.

Crebbi ascoltando la gente dire quanto ero bella e quanto più bella sarei stata quando fossi diventata donna. Gli specchi levigati dei bagni della villa mi mostravano una ragazza alta e snella con lunghi capelli ondulati rosso-oro, pelle lattea e grandi occhi azzurri. E le occhiate di Cassio quando visitava la villa tra una campagna militare e l’altra, mi dicevano che su di me avesse più mire di quanto fosse bene per la mia serenità.

Quando nasci schiava, impari fin da tenerissima età che la tua vita non è tua, bensì quella che il tuo padrone vuole che sia. Impari anche ad affrontare il tuo fato nel modo migliore possibile o ti ritrovi nei guai. E, per una schiava, i guai possono essere molto seri. Perciò, come le altre ragazze cresciute con me, e quelle che vennero dopo, imparai a obbedire, sorridere, essere amabile, dar piacere e andare avanti, giorno dopo giorno, fino a dimenticare… o pensare di aver dimenticato… che c’erano persone che vivevano in modo molto diverso, persone che andavano dove volevano, che ridevano con sincerità e non per paura di essere punite, persone che amavano ed erano amate.

Sebbene fossi circondata da molte altre ragazze, divenni una bambina solitaria. Mi piaceva stare da sola, la solitudine essendo un raro gioiello in una tenuta come quella. Per quanto possibile, ero solita nascondermi in un angolo lontano dei giardini della villa o, ancor meglio, nella grande biblioteca in ombra, le cui pareti erano piene di nicchie che ospitavano centinaia di rotoli che io toccavo con reverenza, soggiogata dal misterioso potere delle parole scritte che io non sapevo leggere. In quei posti appartati, mi sedevo a pensare e sognare. Ero solita sognare di mia madre, cercando d’immaginare l’anonima, bella donna che mi aveva portata nel suo grembo e messa al mondo. Doveva essere stata bella, perché tutte noi eravamo belle e forti, le nostre madri nient’altro che giumente d’allevamento, i nostri padri nient’altro che stalloni disponibili.

Come piangevo per lei!

A volte, venivamo portate a Roma, poiché Turia pensava che visitare i mercati ed i bagni nella grande città si confaceva alla nostra formazione nelle arti del piacere e della perfezione. Quando questo accadeva, mi guardavo avidamente intorno, assorbendo il più possibile delle vite degli altri. Ed il mio sguardo era sempre attratto da madri che portavano in braccio i loro bambini. In quei giorni, quando ritornavamo alla villa, ero solita giacere sveglia nel mio letto per ore. Chiudevo gli occhi e mi abbracciavo forte, cercando d’immaginare che fosse lei a stringemi al suo petto. Che ironia che tanti anni siano passati e che io faccia ancora lo stesso, sdraiata insonne nel mio freddo letto, notte dopo notte, abbracciandomi e fingendo che sia qualcun altro a stringermi! Ma la persona di cui sogno adesso non è più la mia povera madre sconosciuta, ma un rude, affascinante generale romano, dai bellissimi, ed in qualche modo tristi, occhi azzurri.

Mentre il tempo passava, avevo sempre meno occasioni di isolarmi. Il mio corpo sbocciò e divenne quello di una giovane donna e Turia ed il medico della tenuta dichiararono che ero pronta a svolgere i miei doveri. Il medico era un greco di Alessandria, pagato per mantenerci in buona salute ed immuni dalle conseguenze delle nostre mansioni... ed anche per liberarcene quando le precauzioni fallivano, cosa che ogni tanto accadeva. Il suo nome era Andrea e quando ero piccola una volta mi scoprì nascosta nella biblioteca, in piedi, sbalordita davanti al tesoro scritto che essa celava. Mi chiese se fossi interessata ai rotoli e fu sorpreso quando gli risposi che sicuro che lo ero, ma che non sapevo leggere o scrivere. L’istruzione non viene incoraggiata fra gli schiavi, a meno che non siano maschi e mostrino eccezionali attitudini che possano rivelarsi utili ai loro padroni. Andrea mi chiese se desiderassi imparare e io dissi “Sì!” con un entusiasmo che lo fece ridere. Cominciò immediatamente, usando un pezzo di papiro che aveva nella sua scatola dei medicinali, e continuò ad insegnarmi, ogni volta che veniva alla villa, quel po’ di lettura, scrittura e calcolo che fu la sola istruzione formale che ricevetti quando ero schiava. Fin da quando padroneggiai le prime nozioni, scappavo in biblioteca appena potevo, e mi piegavo famelica sui rotoli, cercando di decifrare i loro segreti, fallendo più spesso che no. Ma a volte riuscivo ad imparare una riga qua e un’idea là e sorridevo trionfante, sentendomi come se avessi conseguito un premio meraviglioso.

Mantenni il segreto della mia scarsa istruzione, ansiosa di non guastarne le meraviglie con la cruda realtà della mia vita quotidiana. La mia verginità fu il prezzo che Cassio pagò per il favore di un senatore. L’uomo era sui cinquant’anni e preferiva ragazze molto giovani. E io ero molto giovane, dato che da meno di sei mesi avevo cominciato a sanguinare come una donna, intorno ai dodici anni. Fino a quel momento, i miei doveri erano stati imparare le arti della seduzione e servire il vino agli uomini ospiti di Cassio quando intratteneva alla villa. Quando lo facevo, sentivo i loro sguardi che mi seguivano bramosi ed essi spesso chiedevano di me a Cassio, e facevano rozze osservazioni sulla mia verginità e sui programmi che lui aveva per il mio futuro. Ma Cassio rifiutò più volte le loro richieste di deflorarmi in uno di quei festini, l’unica cosa decente che egli fece a mio favore. Tuttavia non era mosso dal decoro, bensì dal proprio interesse e trattava la mia verginità come un gioiello che ha un prezzo, persino astenendosi dal prenderla egli stesso. La diede invece ad un uomo del cui favore aveva un gran bisogno al momento.

Dopo il senatore ci furono molti altri uomini: giovani, di mezza età, vecchi, alti, bassi, magri, grassi, biondi, bruni, grigi o dai capelli rossi, raffinati, rozzi, scaltri, arroganti, stupidi, istruiti, ciarlieri, freddi, cortesi, brutali… così diversi e così simili, tutti pronti ad approfittare della carne data loro gratis, tutti pronti a godere i piaceri ed a scartare il vaso. E, sopra tutti loro, c’era Avidio Cassio, che si aspettava che ogni suo capriccio fosse obbedito senza esitazione e mi reclamava regolarmente come faceva con le sue schiave speciali e mi preferiva a tutte le altre.

Io soddisfacevo tutti e poi lasciavo il loro letto, perché essi non volevano trovarmi lì quando si svegliavano, ed io ero riconoscente per quella piccola misericordia, mi ritiravo nel mio letto dopo aver lavato le loro tracce dalla mia carne, e andavo a scontrarmi con un pezzo di papiro e la mia ignoranza. Fu questa lotta quasi disperata che mi mantenne sana di mente e mi aiutò a cancellare le loro facce dalla memoria, nello stesso modo in cui l’acqua calda e il sapone cancellavano le prove dell’accoppiamento.

Durante i sei anni successivi, la mia vita fu un girotondo infinito di festini e uomini e doveri adempiuti in letti senatoriali e brande militari. Ero abbastanza grande da viaggiare con il mio padrone e lui mi portò, con più d’una dozzina d’altre donne, nei suoi accampamenti militari. Avidio Cassio era un generale rispettato, che aveva avuto successo nella guerra in Oriente, a fianco del precedente imperatore Lucio Vero, ed era tenuto in alta considerazione dal senato romano.

Quella che sarebbe diventata la sua ultima campagna militare portò lui, e me, in Moesia, vicino al Mar Nero. E fu in quel luogo così distante da Roma che la mia vita cambiò per sempre. Cominciò la notte in cui i miei passi incrociarono quelli del generale Massimo Decimo Meridio, l’uomo che fingo mi stia stringendo al petto quando da sola mi abbraccio notte dopo notte nel mio freddo letto deserto.



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