Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

VITA OLTRE LA VITA
Terza Parte

di Lalla Usai

 

ANTIOCHIA

“Da Marco Opelio Macrino, Prefetto del Pretorio al Tribuno Valerio Decimo Meridio, ave.

Il nostro amato Imperatore è morto.”

Cominciava così la missiva con cui chi avrebbe dovuto vegliare sulla sicurezza di Cesare ne annunciava la fine. E continuava, in un latino zoppicante e sgrammaticato, con il racconto della dipartita di Caracalla. Agli dei non era piaciuto dargli la morte onorata che avrebbe desiderato: pur sanguinario e squilibrato, ricordava Massimo, era stato un valoroso combattente, ossessionato, fin da ragazzo, dal desiderio di emulare le imprese di Alessandro. Invece aveva finito i suoi giorni a trent’anni, in quel di Carre, per opera di un mercenario che gli aveva piantato il suo pugnale nella schiena, quando era smontato da cavallo per orinare. Il mercenario in questione era stato giustiziato e all’Imperatore tributate le onoranze funebri adeguate al suo rango. Il momento era difficile, continuava la missiva di Macrino, e aveva resa necessaria la stipula di una pace frettolosa con i Parti…E anche, naturalmente, che qualcuno s’accollasse l’onere del potere senza titubanze: cosa che lui aveva fatto, a onore e gloria dell’Impero. Proprio così, a onore e gloria dell’Impero. Adesso era Marco Opelio Macrino, il nano deforme, il figlio di un liberto africano che s’era arricchito trafficando schiavi, il nuovo Cesare di Roma.

Macrino aveva chiesto di lui. Del Tribuno Valerio Decimo Meridio. Non era stato un caso, che fosse giunto al potere, così come non era stata un caso la pugnalata di un mercenario alla schiena di Caracalla. E non era un caso che lo cercasse, adesso: per giustificare con chissà quali scuse quello che aveva fatto. E per concedergli qualche carica importante. Non poteva non fidarsi di un uomo che aveva sempre detto di disprezzare la politica, e che ricusava come la peste il potere.Di un uomo a proposito del quale si raccontavano strane storie…Ma il nuovo Imperatore non credeva a ciò che affermava Julia Domna nella villa di Antiochia dove consumava l’ultima parte della sua vita nell’esilio al quale lui l’aveva costretta. Quella donna era pazza, lo sapevano tutti quanti.

 

Massimo pensava a tante cose, guardando il mare. Che la meta era vicina. Che di lì a un paio di giorni avrebbe incrociato i suoi con gli occhi da rospo di Macrino, il nuovo Cesare. Pensava a Padma, così bella e distante, a Padma che aveva sbagliato a credere della sua stessa natura, immortale come lui. Era una donna come tutte le altre, invece, destinata a invecchiare e a morire. Sono contenta per te, gli aveva risposto Lucilla, quando le aveva confidato di essersi innamorato. Ma, nel dirglielo, gli aveva girato le spalle, per nascondergli che non era affatto contenta, e la voce con cui aveva pronunciato quelle parole sapeva di gelosia e di rimpianto. E’ molto bella? Gli aveva chiesto. E’ il dono del re di un paese lontano a Cesare. Ma Cesare è morto, non potrebbe in ogni caso reclamarla per sé, e Padma ormai è mia. Com’è? Bruna, scura di pelle, bella come Venere. L’ hai detto anche di me, che ero bella come Venere, tanto tempo fa… Fanne quello che vuoi, della tua vita senza fine, una vecchia come me non ha nessun diritto di tenere legato a sé un uomo destinato a restare giovane per sempre. La nostra passione è stata un sogno, finché è durata, ma adesso è giunto il momento di risvegliarsi. Addio, Massimo, mio solo, grande, unico amore. Sii felice e dimenticami… Tu che puoi.

 

Il cielo di Antiochia era terso, la giornata splendida. L’aria odorava di rose, salsedine,immondizia, sudore e carogne, il tanfo che ammorbava anche le strade dell’India e che Padma, all’interno della sua lettiga, cercava di soffocare annusando una pezzuola intrisa di profumo. Tieni chiuse le cortine, e non affacciarti a guardare fuori, le aveva raccomandato Massimo e lei aveva ubbidito. Le donne del lontano Oriente, gli era stato detto, non erano, al pari delle romane, astute, intriganti e manipolatrici ma docili e sottomesse. Tutte quante, anche le regine. Meglio così, sospirò l’uomo guardando le croci ai lati della strada. Era quello il ritorno all’ordine imposto da Macrino ai legionari che non avevano accettato di buon grado la pace stipulata frettolosamente con i Parti. Erano centinaia i cadaveri appesi ai patiboli, come al tempo della grande Guerra Servile. Cadaveri freschi che grondavano ancora sangue da ferite inferte di recente, cadaveri putrefatti che marcivano ammorbando l’aria, cadaveri spolpati dai corvi e dagli avvoltoi, che mostravano le ossa biancheggianti tra gli squarci lividi delle carni straziate. Il ritorno all’ordine voluto dal nuovo Imperatore, come no. La stretta della mano sulle redini si fece più forte, quasi convulsa, e Massimo ricacciò a forza il conato di vomito che gli era salito dallo stomaco alla gola.

 

“Ave, Valerio Decimo Meridio.”

Quello che sta succedendo non mi piace, si disse Massimo da sé solo, quando un manipolo di Pretoriani neri quanto i corvi che gracchiavano sbatacchiando le ali e spolpando i corpi appesi alle croci gli si fecero intorno. Era, in un corteo di servi e di donne che si recava in pace al palazzo dell’Imperatore, l’unico uomo armato di daga e di pugnale, ma non portava la corazza. Non fu facile lo stesso sopraffarlo, Macrino doveva averli avvertiti che quello era un osso duro e, non lo avesse fatto per qualsiasi ragione, provvide lui stesso a metterli in allarme, spedendo ben quattro di quei cani neri nei recessi del Tartaro, prima di crollare a terra, coperto di ferite e di vedere, con gli occhi che s’annebbiavano, le guardie superstiti portare via Padma e il suo bambino. Il dono di un re lontano al Signore del Mondo, un dono di cui egli s’era impadronito senza averne diritto. Un dono di cui il legittimo possessore defraudato si era riappropriato, com’era giusto che fosse.

 

JULIA MESA

La stanza dai muri di pietra era fresca e silenziosa, il letto comodo. Massimo non sentiva più il dolore che aveva provato quando era stato assalito dagli scherani di Macrino, ma ricordava, come se l’avesse ancora nelle narici, la puzza insopportabile dei corpi crocifissi lungo la strada che conduceva ad Antiochia e lo sguardo stupito di Padma mentre la portavano via. E’ venuto il momento di conoscere il tuo vero signore, Stella d’Oriente… Quello che tu chiamavi così e che avresti voluto fosse tale, non era che un ladro bugiardo. Lui, Cesare, non l’avrebbe chiamata con nomignoli dolci, non l’avrebbe blandita con baci e carezze, si sarebbe limitato a prenderla, come un animale schifoso e quel pensiero erano mille aghi incandescenti che Massimo sentiva piantarglisi nel cervello. Ma anche il suo tempo sarebbe venuto, perché il destino non può aspettare, e la sorte di quel verme avrebbe avuto il suo nome, i suoi occhi azzurri e il suo corpo immortale.

-Va meglio, domine?

La donna che gli si rivolgeva in quel modo aggiustandogli i cuscini dietro la testa non era una serva, ma doveva essere la padrona di quella solida casa: una matrona alta e magra, non più giovane, con i capelli severamente acconciati e neanche un gioiello. Doveva essere stata bella, nei suoi anni migliori.

-Eri malconcio, quando i miei servi ti hanno portato qui… Ma adesso vedo che stai meglio, i lividi si sono riassorbiti e le ferite non sanguinano più.

-Sto…molto male?

-Meno peggio di quanto mi sei sembrato appena ti ho visto… Massimo Decimo Meridio.

-Perché mi hai chiamato così? Massimo Decimo Meridio, il Salvatore di Roma è morto diversi anni fa: io sono suo figlio.

-Tu sei lui. Mentre ti medicava le ferite, un mio vecchio servo ha riconosciuto le cicatrici sul tuo corpo. E allora ho capito che quanto mia sorella mi raccontava sul tuo conto non erano i vaneggiamenti di una povera pazza.

-Un tuo vecchio servo? Tua sorella? Domina, io… Io non capisco….

La donna gli sorrise e gli posò la mano sul petto.

-Sei un bravo attore, Massimo Decimo Meridio. O farei meglio a definirti un impostore matricolato? Non penso tu ti stia accorgendo solo adesso che le ferite non ti uccidono e quella che avevi qui, credimi, era davvero brutta. Fedro, il mio vecchio servo, era un giovinetto quando aiutava il medico che Proximo il lanista aveva ingaggiato per curare le ferite dei suoi gladiatori. Si ricorda ancora di te. Eri il migliore secutor che mai abbia mai calcato la sabbia del Colosseo, a sentir lui. In quanto a mia sorella…Forse la disonorerò, ma è una povera vecchia svanita che sta per raggiungere il marito e i figli nei Campi Elisi, e poi quello che sto per dirti non uscirà da qui. Sei stato un gentiluomo, nell’altra vita, e dubito che tu non lo sia ancora… Malgrado tutto. Lei ti ha visto combattere. E ti ha avuto accanto, nudo, nel suo letto. Non è mai stato un mistero che i gladiatori piacessero alle matrone e tu eri…e sei un uomo molto attraente. Diversi anni dopo vi siete incontrati e tu ti sei presentato a lei sotto le mentite spoglie di un figlio che non è mai esistito. Ma mia sorella non ha dimenticato questa brutta cicatrice che ti segna il braccio, e che la tunica che indossavi quando l’hai rivista dopo molti anni non nascondeva.

-Tua sorella…

-Io sono Julia Mesa:  perdonami la scortesia di non essermi presentata prima, domine. Mia sorella è l’Augusta Julia Domna, moglie del Cesare Lucio Settimio Severo e madre del Cesare Marco Aurelio Antonino Bassiano Caracalla, colui che l’usurpatore Macrino ha fatto uccidere a tradimento. Se sei in grado di farlo, e non dubito che tu lo sia, alzati da quel letto e mettiti addosso qualcosa. Voglio condurti da lei… prima che sia troppo tardi.

 

Julia Domna o, meglio, quel che restava di lei, giaceva in un grande letto, immobile e muta, uno scheletro al quale, di vivo, restavano solo gli occhi. Era molto diversa dalla splendida, giovane moglie del Cesare Settimio Severo, ma anche dalla florida matrona di mezza età che era stata l’ultima volta in cui Massimo l’aveva incontrata. Quasi non tocca cibo da quando il figlio è morto.Oltre due mesi, l’aveva informato la matrona: si sta lasciando morire di fame e la fine, per lei, è vicina…

Già, non può mancare molto, ormai. Una donna bruna, alta e magra, la copia più giovane di Julia Mesa, le stava accanto silenziosa, in attesa di un cenno, di una parole, anche solo di un battito di ciglia della moribonda.

-Julia Soemia. Mia figlia.

L’uomo accennò a un saluto con la testa, senza lasciar andare la mano fredda e scheletrita dell’Augusta.

-Massimo…

-Sono venuto… per riportare la giustizia…

Le sussurrò, quasi certo che lei non l’avesse sentito.Invece la donna, con le ultime energie che le restavano, gli sorrise, prima di abbandonarsi sui cuscini, senza più forza né vita.

 

-Anche a me Macrino deve qualcosa.

-La principessa indiana?

-Soprattutto. Ma tu come fai a saperlo, domina?

-Ho informatori in gamba, ai quali non sfugge niente: compreso il fatto che l’usurpatore ti avesse chiamato a raggiungerlo ad Antiochia, e che lei fosse con te invece che a Roma.

-Credi che l’abbia fatto… solo per prendermi Padma? E come faceva a sapere che… Lui era già partito per i confini orientali al seguito di Cesare, quando lei è giunta a Roma.

-Evidentemente anche Macrino ha informatori in gamba, Massimo. Magari… informatrici: la gelosia può essere una terribile consigliera.

La parole di Mesa caddero nella sua mente con il tonfo sordo di un sasso gettato in un acquitrino. Lucilla? Era l’unica che sapesse di lui e di Padma, il gioiello dell’India destinato al letto di Cesare: un gioiello che lui aveva rubato, senza averne il diritto. Nella nuova vita senza fine, Massimo si era scoperto ladro, impostore e traditore.

 

-Non è vero che Caracalla non abbia lasciato una sua discendenza, così come a Macrino ha fatto comodo che tutti credessero. Mia figlia - e Julia Mesa indicò con un cenno del capo Soemia, che continuava a sedere, immobile come una statua di sale, a fianco del letto dove sua zia giaceva nella pace della morte - quando era solo una giovinetta, s’innamorò, ricambiata, di suo cugino. Questa relazione non sfociò nel matrimonio, perché erano altri i progetti che li riguardavano entrambi. Ma da essa nacque un bambino e ciò fu tenuto nascosto, per salvaguardare l’onore dei due ragazzi…

Massimo guardò stupito in direzione di Julia Mesa. Forse stava mentendo, e quelle menzogne disonoravano sua figlia. Che razza di madre era, quella, capace di gettare fango e discredito sulla carne della sua carne per mera ambizione di potere? Mesa ricambiò il suo con uno sguardo freddo: la porpora imperiale vale il crimine, l’assassinio e il disonore… E poi a te che importa di tutto questo? Vendicati di Macrino, gladiatore, del nano osceno e deforme che ha osato posare le sue luride natiche dove non doveva e che si è portato via la tua principessa. In fondo, è questo ciò che t’importa, no?

-Il ragazzo si chiama Vario Avito Elagabalo, e ha quattordici anni. Al momento, è nascosto in un luogo sicuro…

SHAH MAT[1]

Il nano gli stava davanti assiso su un seggio coperto di pelli maculate, in posizione comicamente ieratica, la porpora imperiale drappeggiata intorno al corpo sbilenco, il serto d’oro a cingergli la fronte bitorzoluta e deforme. Salutandolo con un inchino, Massimo non potè esimersi dal pensare a quanto Roma fosse caduta in basso, nel giro di pochi decenni. Che squallida teoria, gli ultimi Cesari: Commodo, il gladiatore, con le sue sbronze, le sue sanguinarie gozzoviglie, le sue puttane dagli occhi bistrati. Elvio Pertinace, Didio Giuliano e Pescennio Nigro, che la porpora l’avevano pagata denaro sonante ai Pretoriani. Settimio Severo, nelle cui vene scorreva il sangue dei mercenari di Annibale. Poi Caracalla, il Carnefice del genere umano. E adesso Marco Opelio Macrino, il nano. Quello che più bramava al mondo se l’era preso. E non era stato neppure poi così difficile arrivarci.

-Hai chiesto di me…Cesare?

-Semplicemente mi domandavo come mai non fossi ancora venuto a rendere omaggio al tuo signore…Valerio Decimo Meridio.

Il nano gli aveva saettato una fredda occhiata da rettile, quasi a volergli domandare, senza parole, che ci fai qui e perché sei ancora vivo,visto che avevo dato ai miei uomini l’ordine di ammazzarti, oltre che di portarti via la tua puttana nera.

-Perdonami, Cesare. Non sono stato bene.

Macrino scese i gradini del suo trono improvvisato e si accostò a Massimo:gli arrivava a malapena al petto.

-Non sei stato bene? Me ne dolgo, mio prezioso amico…

-Un deprecabile incidente lungo la strada che porta ad Antiochia. Niente di serio.

Gli occhi sporgenti di Macrino continuavano a studiarlo con attenzione, ma forse la sua era solamente invidia. Adesso che aveva il trono, avrebbe voluto la sua bellezza e la sua gagliarda prestanza. E magari anche qualcos’altro, quello di cui l’ex Imperatrice andava farfugliando nel delirio della sua follia. Ammesso e non concesso che fosse vero.

-Da quando ti sei lasciato crescere la barba sei identico a tuo padre.

-Beh, non è poi così strano che lo sia, visto che sono suo figlio. E poi non è certo motivo di disonore somigliare a Massimo Decimo Meridio.

L’uomo sorrise: era facile dirlo e farlo, dall’alto di sei piedi di statura, con quelle grosse spalle, quella pelle perfetta e quel bel viso dall’espressione franca, si ritrovò a pensare il nano: perché lui tale era e tale restava, ad onta di quel che si era preso facendo uccidere Caracalla. E perché come tale la gente avrebbe continuato a considerarlo anche se si sarebbe trattenuta dal dirglielo in faccia, contrariamente ai monelli nella piazza principale di Zucchabar, che avevano tormentato con i loro scherzi crudeli la sua infanzia e la sua adolescenza.

-Riguardo all’incidente…sei stato molto evasivo.

-Sono stato assalito dai briganti lungo la strada che dal mare porta in città.

-Stiamo vivendo brutti tempi… Ti hanno ferito?

Massimo abbassò gli occhi, si scostò la tunica dal petto,mostrando all’Imperatore qualche livido e una benda macchiata di sangue.

-Lo ribadisco, niente di serio.

Macrino fissò con malcelata invidia la carne soda e abbronzata, spruzzata da una leggera peluria più chiara dei capelli. Quell’uomo doveva essere morto, pensò; i suoi Pretoriani lo avevano rassicurato in quel senso, e di certo non avevano tralasciato di eseguire i suoi ordini perché, qualora l’avessero fatto, sarebbero finiti a tener compagnia ai molti crocifissi che, nei dintorni della città, fornivano da diversi giorni ai corvi e agli avvoltoi un lauto banchetto.

-I colpevoli saranno presto assicurati alla giustizia e puniti come meritano.

Ipocrita. Come se ignorassi il modo in cui sono andate le cose, o fossi completamente idiota. Quei briganti indossavano l’uniforme dei Pretoriani e avevamo l’ordine di portare via Padma. E di ammazzarmi. Per fornirti la prova tangibile di qualcosa a cui il tuo cervello si rifiutava di credere, Marco Opelio Macrino?

-E’… per quella schiava indiana che sei venuto?

Massimo lo fissò un attimo e gli occhi chiari gli lampeggiarono come lama di spada.

-Non è una schiava. Dovresti saperlo. E’ una regina. Nel suo paese, un usurpatore ha portato via al marito ciò che era suo per diritto di nascita.

Più o meno come te, si sorprese a pensare l’Imperatore, arrossendo per la collera: meriteresti di essere crocifisso come quei disgraziati là fuori, per avermi rubato qualcosa che mi apparteneva di diritto…Valerio. Avrebbe voluto dirglielo,ma si limitò a sibilargli “Vae Victis” .Guai ai vinti: se finisci dalla loro parte, arriverai a perdere anche te stesso. Chiunque tu sia.

-Noi due ci amiamo, Cesare.

Povero ingenuo: forse non sai che il marito della donna che asserisci di amare è uno dei generali di Artabano V e che è in città per trattare uno scambio di prigionieri? Quando saprà di lei, e lo saprà molto presto, se la porterà via… Stare così tanto al mondo non ti ha insegnato niente… Massimo?

La mano dell’Imperatore stringeva nervosamente l’elsa ingemmata del suo pugnale. L’avrebbe colpito per spaccargli il cuore, se avesse potuto farlo, se lui non fosse stato così debole e l’altro così forte… E immortale. E si accontentò di percorrere con lo sguardo la sua figura, abbandonandosi ai ricordi.

 

Suo padre si era arricchito trafficando schiavi e a Zucchabar godeva del rispetto che viene dal denaro, ma lui non lo rispettava nessuno: era il figlio più piccolo dell’uomo e aveva avuto la disgrazia di nascere nano e deforme. I monelli che giocavano in mezzo alla polvere nella piazza del mercato gli lanciavano dietro sputi, insulti e torsoli di frutta. Non sarebbe stato così per sempre, pensava il ragazzo covandosi dentro il suo rancore.

Era un giovinetto d’una quindicina d’anni, quando l’aveva incontrato per la prima volta, imbrancato in un gruppo di schiavi che suo padre aveva venduto a Proximo il lanista perché li facesse combattere nell’arena. In mezzo a quell’accozzaglia di poveracci destinati ad essere fatti a pezzi al primo scontro o gettati in pasto ai leoni, se ne distinguevano due soltanto: uno scultoreo nubiano dalla pelle nerissima e un legionario dal braccio tatuato e dai torvi occhi azzurri, certamente un disertore, forse un bandito o un assassino. Bruciava di febbre e di rabbia, ricordò. Aveva il braccio sinistro, poco sotto il tatuaggio, straziato da un’orrenda ferita suppurata e ricucita alla meno peggio.

Era lo stesso che, un paio d’anni dopo, aveva visto combattere nella grande arena di Roma, tra le urla d’incitamento della folla che lo aveva soprannominato Hispanicus. Si era raschiato via il tatuaggio e aveva una cicatrice a forma di mezzaluna al posto della ferita suppurata. Il mio nome è Massimo Decimo Meridio, aveva detto all’imperatore Commodo senza schiodargli dal viso i gelidi occhi azzurri. Ero un grande generale, e l’aver capito chi sei mi ha precipitato nella sventura. I tuoi scherani hanno massacrato i miei cari e io sono finito schiavo. Ma avrò la vendetta che cerco:in questa o nell’altra vita.

 

Massimo piantò gli occhi in faccia a quel Cesare da burla. Ridammi Padma, gli sibilò. La riavrai quando mi rivelerai il segreto della tua immortalità… Massimo Decimo Meridio. Perché io voglio essere quello che sei.

Invece sei ancora quello che eri, un ragazzetto dalla grossa testa, dal labbro spaccato e dalla pelle devastata dal vaiolo, che mi ha colpito con il suo bastone quando ero incatenato, febbricitante e non potevo difendermi. Sì, hai ragione, ero io, quello. Un sortilegio mi ha reso immortale, ma anche se potessi… Non meriti niente, Macrino.

Io credo che tu possa, Massimo. E che non voglia. E’ il potere che brami? Eppure, dicevi di detestarlo. O… è la donna? Bene: se non mi renderai partecipe del tuo segreto, la farò trascinare qui dalle mie guardie, al tuo cospetto abuserò di lei come e quanto vorrò, quindi la getterò in pasto ai miei Pretoriani… Il prezzo con cui pagheresti il privilegio di essere l’unico Immortale al mondo sarebbe per te intollerabilmente caro… Gladiatore.

 

Nessuno poteva presentarsi, per suo esplicito ordine, armato al cospetto di Cesare. Ma a Massimo bastavano le sue mani. “Shah mat” pensava stringendole intorno all’esile collo di Macrino. Il Re Nero è in trappola. E’ morto. Il Re Bianco non fa prigionieri.

 

ASOKA

L’aveva presa tra le braccia e sentita tremare di paura e di vergogna. Temevo che non saresti più tornato, gli aveva detto, che il mio karma fosse il mostro che mi teneva prigioniera e dal quale non sarei più fuggita. L’aveva baciata e accarezzata. Lentamente, con dolcezza, quindi con sempre maggiore intensità e passione, come piaceva a lei. Sulla bocca, fra le gambe, sui seni alti e rotondi dalle areole scure, dai capezzoli turgidi e sensibili. Quanto sei bella, le aveva detto. Per quella donna avrebbe rinunciato al rifugio che la solitudine dava alla maledizione della sua eterna giovinezza, avrebbe ricusato, se avesse potuto, anche la sua vita senza fine… Ma suo marito era vivo. Ed era in città. Generale al servizio di Artabano V, Asoka, marajah in esilio della città di Surat, era venuto a trattare uno scambio di prigionieri proprio con Massimo, visto che il suo interlocutore era morto e la podestà imperiale rimasta vacante.

-Lo ami?

-E’ l’uomo che mio padre ha scelto per me.

-Lo lasceresti?

Se avesse avuto la pelle un po’ più chiara, Padma sarebbe arrossita scotendo la testa. No, non lo avrebbe lasciato. Non lo amo come amo te… ma il mio destino in questa vita è lui e non si può andare contro ciò che sta scritto nelle stelle. L’aveva sentito tremare, mentre gli accarezzava e gli baciava il petto sudato. Il vincitore di cento battaglie, colui che nella grande arena di Roma aveva ucciso a mani nude una tigre avrebbe pianto, se avesse potuto farlo.

 

Asoka, il marajah in esilio, aveva un volto scavato dai lineamenti sottili, le guance rasate e pendenti di smeraldi a entrambe le orecchie. I capelli che gli ricadevano lisci e pesanti fino alle spalle avevano il colore del ferro; con le rughe che gli solcavano la faccia, denunciavano impietosamente la cinquantina d’anni che doveva avere. Padma era l’ultima delle sue dieci mogli. Quando la sua vita fosse giunta alla fine, per volere degli dei o per opera degli uomini, il corpo dell’uomo sarebbe stato cremato e le sue donne costrette a immolarsi, ancora vive, sulla pira funebre. Padma lo rispettava e lo stimava, ma non l’aveva mai amato. Era terribile. Io ti offro una via d’uscita, amore mio… Lei aveva sostenuto il suo sguardo, mentre gli occhi di gazzella s’inumidivano di lacrime. Ti darei dolore, gli aveva detto, come se sapesse o avesse intuito il suo segreto. E s’era allontanata, facendo fluttuare i suoi veli di seta, baluginare i sontuosi gioielli. Massimo era certo che non l’avrebbe mai più rivista.

 

LA FINE

In Senato, la notizia della morte dell’usurpatore Macrino e dell’esistenza d’un figlio bastardo di Caracalla che avrebbe assicurato la successione al trono era stata accolta con sollievo. Di tutto avevano bisogno, Roma e l’Impero, fuorché d’un periodo lungo o breve d’anarchia e di disordine. Le speranze di tutti erano riposte in un ragazzo di quattordici anni che non aveva mai visto l’Urbe ed era stato educato ad Emesa, presso il tempio del dio Sole, di cui si diceva fosse sacerdote. Altro di lui non si sapeva.

 

Lucilla si sedette ai piedi del grande albero, sul terriccio umido e brulicante di formiche. Era aprile, se ben ricordava e quando calava la sera faceva ancora freddo, un freddo che le entrava nelle ossa, malgrado gli abiti di lana, il mantello foderato di pelliccia nel quale si era avvolta come fosse stato una coperta. Dov’era arrivata, dopo un vagabondare senza meta di ore e ore, con i piedi doloranti nelle babbucce dorate e il freddo della notte incipiente a penetrarle in profondità dentro le vecchie ossa? Non era la città, e nemmeno la campagna, né quella sorta di periferia squallida, nella quale costruzioni e campi coltivati si confondevano in un ibrido miscuglio che non era né l’una né l’altra. Era il relitto di un’antica faggeta che non era stato abbattuto, forse perché sacro a qualche divinità silvana, che l’avrebbe protetta, che avrebbe rinfrancato la sua stanchezza e conciliato un sonno ristoratore. Si tolse le babbucce dorate, si massaggiò piano i piedi coperti di vesciche. Appoggiò la schiena al tronco dell’albero e si addormentò, sorda ai rumori del bosco che il calar della notte risvegliava, al fruscio del vento tra gli sterpi, al calpestio di zampe e zoccoli sul tappeto delle foglie, al richiamo lugubre dei gufi e delle civette, al debole lamento delle prede assalite. Si addormentò, e sognò.

 

Sognò che il tempo non era passato, che lei e Massimo erano ancora due ragazzi ai quali la vita sorrideva, proprio come quando si erano conosciuti. Sognò che quel che era avvenuto dopo non era stato e lui e lei altro non erano se non una coppia d’innamorati come tanti. Commodo, il suo fratello beone, pazzo e malvagio, in quel sogno non esisteva. Massimo non era mai morto e tornato dall’aldilà per restare sempre giovane, mentre lei invecchiava e, come in un incubo dal quale non era possibile risvegliarsi, vedeva sfiorire la sua bellezza e svanire il suo spirito nel limbo di una dolce follia senza ieri, senza oggi e senza domani. Tutto era bello, sereno, senza dolore né paura, senza desideri impossibili, invidie e mali… Come avrebbe voluto che fosse, e non era stato.

 

Qualcosa come un’intuizione o un presentimento la svegliò dal suo sonno nel bel mezzo della notte. Massimo, che aveva sognato di baciare, come tanti anni prima, sul greto del fiume, lungo i confini settentrionali. C’era la luna piena, e gli occhi di lui scintillavano gialli e luminosi come quelli di un gatto randagio intrappolato in una macchia di luce. Allungò la mano e le sue dita sentirono la seta dei capelli, la barba morbida sulla guancia abbronzata. “Massimo…” Lui voleva dirle qualcosa, con la sua voce bassa e calda, o quello era il gemito che emetteva quando le entrava dentro e raggiungeva con lei l’acme dell’estasi?

L’animale l’annusò, le sfiorò il viso e il collo con il suo naso umido, quindi si allontanò caracollando, la coda bassa e le orecchie tese. La luce bianca della luna illuminò la sagoma agile di un lupo. Lucilla strinse gli occhi, ricacciò indietro un lungo ciuffo di capelli che, uscito dalla crocchia, adesso le spioveva sulla fronte.

 

-Lucilla…

Il vento gli scompigliava i capelli: erano ancora lunghi folti e scuri, come l’ultima volta che l’aveva visto. Prima di chinarsi su di lei, s’era tolto il pesante mantello nero e gliel’aveva avvolto intorno, quindi l’aveva sollevata, stringendola tra le sue forti braccia.

-Ci hai fatto morire tutti quanti di paura… Ma adesso tutto è finito, ti riporterò a casa… Oh, dei, ti sarebbe potuto capitare qualcosa di terribile…

Il sorriso che si sforzava di rivolgerle non mitigava la sua espressione ansiosa. Era lui, questa volta, non un’allucinazione, non un lupo solitario dagli occhi dorati illuminati dal riverbero della luna piena. Era lui, ed era venuto a riportarla a casa. A morire.

Si sforzò di dirgli qualcosa. Perdonami, Massimo. Perdona il male che ti ho fatto o che hai patito, per causa mia e mio malgrado. E sappi che ti ho sempre amato. Ma dalla gola chiusa e dalle labbra contorte le uscì solo un debole lamento. Tentò di sollevare la mano per accarezzargli il viso, come aveva fatto tante volte, ma quella mano sottile e costellata di macchie pesava come piombo. Non affaticarti, le disse l’uomo. Ti riporteremo a casa, ti cureremo… Ma non credeva neppure lui alle sue bugie: Massimo non era mai stato bravo a mentire neppure a se stesso.

La crocchia finì di disfarsi, e i lunghi capelli bianchi della vecchia signora arrivarono a sfiorare il fogliame del sottobosco. L’eco del cuore batteva sempre più debole e lontano nelle sue orecchie. La pelle di Massimo irradiava un piacevole tepore e un buon odore naturale, pulito, attraverso la tunica di lana scura. Lucilla abbandonò la sua testa tra la spalla e il collo dell’uomo che aveva tanto amato e si addormentò. Per sempre.

EPILOGO

Roma, Anno Domini 218.

 Il cappuccio del mantello scivolò dalla testa dell’uomo scoprendoli i lunghi capelli castani, sui quali i raggi del sole giocavano ad accendere riflessi rossastri. Fermo, osservava il corteo avanzare, attraversare l’arco trionfale, come ai tempi della grandezza e delle conquiste:tempi che erano morti nello stesso istante in cui gli occhi di Marco Aurelio si erano chiusi alla luce del mondo. Il corteo che saliva verso il colle Palatino non era formato da soldati che brandivano i vessilli delle Legioni e non scortava un generale trionfante sul suo carro da guerra: era un corteo di musici che soffiavano dentro strumenti bizzarri, ballerini seminudi con la pelle lucida d’olio e tremante per il freddo, schiavi che tenevano animali esotici legati al guinzaglio, eunuchi neri che sventolavano grandi flabelli di piume di struzzo. Dall’alto della sua portantina dorata, Vario Avito Elagabalo, il nuovo Cesare, fissava l’orizzonte con gli occhi immobili, sottolineati e allungati dal kohol. Era un ragazzino dall’aria effeminata e dai lunghi capelli rossi, talmente poco somigliante al bruno e scuro Caracalla da smentire recisamente anche il semplice dubbio che costui potesse essere stato il suo vero padre. Di fianco a lui, su alte portantine dorate rette da schiavi nerboruti coperti a malapena con succinte pelli di leopardo, stavano sua madre Julia Soemia e sua nonna Julia Mesa, ieratiche, immobili e ingioiellate come divinità orientali.

Sei arrivata dove hai voluto, Mesa, stava pensando Massimo quando sentì qualcosa di freddo sfiorargli il braccio muscoloso, attraverso la ruvida stoffa della tunica. Una vecchia mendicante sudicia e sdentata che reclamava il suo obolo, ma lui non aveva portato nemmeno mezzo asse con sé.

-Massimo…

-Ci conosciamo?

La scrutò con i suoi occhi acuti: doveva essere molto vecchia, e puzzava di orina e di denti marci. Aveva i capelli bianchi e arruffati, che le incorniciavano la faccia vizza e lunghi peli ispidi che le spuntavano sul mento. Degli occhi cisposi, uno era bianco come un uovo, l’altro nero e febbricitante come quello di un cane idrofobo.

-Marzia…

-Eh, già, Marzia. La puttana di Lucio Aurelio Antonino Commodo… Non sei cambiato, Massimo Decimo Meridio. Sei qui per salutare e applaudire il nuovo Cesare di Roma?

Massimo sorrise appena, sollevando gli angoli delle labbra, mentre il corteo degli acrobati, delle ballerine, degli eunuchi, dei musici e dei ghepardi legati con pesanti catene d’oro massiccio continuava ad avanzare verso il colle Palatino.

-Dovevo arrivare alla mia età per assistere alla morte di Roma, Massimo.

L’uomo alzò gli occhi al giovanissimo Cesare assiso sulla portantina. Vestiva di porpora e d’oro e, vedendolo più da vicino, Massimo notò che aveva anche le guance e le labbra truccate.

-Roma è morta con Marco Aurelio, Marzia: noi stiamo assistendo alla putrefazione del suo cadavere.

FINE
Lalla, 14 dicembre 2001

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Massimo l’Immortale
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[1] Scacco Matto (N.d.A.)