Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

IL VECCHIO DELLA MONTAGNA

Seconda parte

 

IL LEOPARDO DELLE NEVI

 

Monti Elburz, Caspio meridionale, Anno Domini 1191, inizio dell’ autunno.

 

Il vento soffiava freddo e i bagliori del tramonto incendiavano già le nuvole. Bisognava andarsene, prima che il sole calasse dietro le montagne. Non sarebbe stato prudente lasciarsi cogliere dal buio all’addiaccio: c’erano i lupi, da quelle parti, e anche se i grossi e feroci cani che montavano la guardia al gregge erano in grado di fronteggiare qualsiasi predatore a quattro e a due zampe, meglio essere prudenti.

Reza raccattò da terra il vincastro, allungò una carezza alla larga testa di uno dei suoi cani quindi, dopo essersi guardato intorno, si accinse a mettersi in cammino. L’accampamento distava un’ora di marcia, e bisognava procedere di buona lena per arrivare a casa prima che facesse notte.

 - Ardeshir, è ora di andarcene.

Gli rispose l’eco della sua stessa voce. Dove accidenti si era cacciato, quel moccioso? Era fuori da ogni ragionevole dubbio che una bella lezione dispensata a suon di calci nel sedere non avrebbe potuto fargli che bene: con tutto il denaro che sua madre spendeva per impartirgli un’educazione degna del suo rango, quel ragazzino non aveva certo imparato come va il mondo. E ben difficilmente l’avrebbe imparato negli anni a venire. Lui, ricordò, ne aveva otto quando, per la prima volta, suo padre lo aveva mandato da solo appresso alle pecore. Otto anni. La stessa età di quell’impiastro di Ardeshir, pensò sputando un’imprecazione tra i denti. Chissà dove si era cacciato.

“La solitudine non ti incuterà timore, quando avrai imparato a badare a te stesso. E ricorda sempre: se è il coraggio a spingerti lontano da casa tua, sarà la paura che ti farà tornare sano e salvo.” Suo nonno e suo padre gli avevano impartito, tra i tanti, anche quel prezioso insegnamento. Qualcuno aveva fatto altrettanto con Ardeshir? Il ragazzino non aveva mai conosciuto suo padre, ed erano state le donne a crescerlo. E le donne sanno crescere soltanto vigliacchi che non riescono a staccarsi dalle loro vesti o, peggio, monellacci scervellati sempre pronti a cacciarsi nei guai, com’era appunto il figlio di Sirin. Della padrona.

- Ardeshir!… Dove ti sei cacciato?

***

Faceva già freddo. Come tutti gli anni, l’inverno non avrebbe impiegato molto tempo a calare a valle dalle montagne, portando con sé la neve e il gelo. Sua madre, allora, avrebbe lasciato l’accampamento per trasferirsi nella casa di Rudbar finché la primavera non fosse tornata e con essa il momento di ripartire. Era una bella casa, quella, pensò Ardeshir tirando su col naso. Una casa grande, solida e calda. Quel padre che non aveva mai conosciuto era stato il capo della tribù e un ricco mercante; come figlio lui doveva alla sua memoria rispetto e riconoscenza anche per quella casa bella, grande e comoda che gli aveva lasciato, e gli avrebbe permesso di trascorrere ogni inverno del tempo che Ahura Mazda[1] intendeva lasciargli da vivere al caldo invece che sotto una tenda battuta da tutti i venti, come il suo amico Reza.

Il lontano gnaulare di un gufo lo fece sussultare, ma Reza gli aveva insegnato che quel verso lugubre e lamentoso poteva ingenerare inquietudine, tuttavia non segnalava pericoli. A diciannove anni, il suo amico era ormai un uomo, che sapeva tante cose: e non aveva avuto bisogno di lezioni interminabili e tediosi precettori per impararle. I suoi maestri erano stati le piante, le bestie, la montagna, il sole e la pioggia. Reza non sapeva leggere né scrivere, ma riconosceva le orme che gli animali lasciano sul terreno, sapeva le virtù delle erbe che guariscono e i pericoli che si nascondono nella steppa e nella boscaglia. Lui lo invidiava, nonostante di suo non possedesse neanche la polvere che gli imbrattava la suola delle scarpe e trascorresse l’inverno sotto una tenda battuta da tutti i venti invece che in una grande, solida casa comoda e calda piena di vecchie serve petulanti e precettori noiosi.

Mai come allora la prigionia dell’inverno gli sarebbe sembrata interminabile, pensò, sordo ai richiami dell’amico. L’ombra non confondeva ancora le cose, e poi…Se Reza voleva incamminarsi, lo avrebbe raggiunto. Conosceva la strada, l’aveva percorsa tante volte: a otto anni, quasi nove a voler essere precisi, non era più un bambino piagnucoloso che teme il buio della notte.

Sorrise, guardando i cuccioli ruzzolare accanto all’imboccatura della tana, soffici e bianchi come latte cagliato. Non era la prima volta che si soffermava a osservarli, da quando, qualche giorno prima, ne aveva scoperto l’esistenza. Se allungava una mano per tentare di toccarli, quelli scappavano soffiando e si nascondevano dentro la buca, ma lui non disperava di riuscire ad acciuffarne uno per portarselo a Rudbar. Nemmeno Reza era al corrente di quel segreto. Se gliene avesse parlato, il minimo che poteva aspettarsi sarebbe stato un sonoro rimprovero: non era prudente avvicinarsi alla tana dell’irbis, il fantasma bianco delle nevi.

Si diceva fosse la creatura più bella della montagna, ma erano in pochi a potersi vantare di averlo guardato negli occhi. Del resto, non era un incontro da augurarsi, al pari della tigre e dell’orso. Reza glielo diceva sempre. Il lupo teme l’uomo e tende a fuggirlo. L’orso è forte e feroce, ma vede poco e con un pizzico di fortuna si riesce ad eluderlo. Il leopardo e la tigre sono demoni, figli prediletti di Ariman. Neanche catturandoli da piccoli e allevandoli a latte di capra l’uomo riuscirà mai ad ottenere l’amicizia di quegli esseri infidi e sfuggenti.

Ardeshir allungò la mano e sentì la pelliccia morbida del cucciolo sotto le dita. Reza non gli aveva detto la verità, a proposito di quei deliziosi gattini dal pelo candido punteggiato di delicate chiazze grigio perla. E lui non se ne sarebbe andato finché non fosse riuscito a prenderne uno e a portarlo via, nascondendoselo sotto il chapan[2].

Il richiamo che echeggiò nel silenzio altro non poteva essere se non la voce di Reza. Stava perdendo la pazienza con lui, ma lo avrebbe aspettato, non poteva tornare all’accampamento abbandonando nel buio e nel freddo della notte il figlio della sua signora. Doveva affrettarsi, altrimenti il giovane pastore se la sarebbe presa con lui e non lo avrebbe più voluto tra i piedi, come qualche volta lo aveva sentito borbottare, quando era convinto che nessuno potesse sentirlo. Magari si sarebbe lamentato delle sue marachelle con la mamma, e lei lo avrebbe punito: la nobile Sirin riusciva ad essere terribilmente severa, quando voleva.

Il cucciolo soffiò, si dibatté, gli graffiò a sangue il viso e le mani, ma lui lo tenne stretto. Diventeremo amici, gli sussurrò piano, cercando di blandire quella creatura selvaggia con carezze e paroline dolci. Nella mia casa non ti mancherà niente, Fiocco di Neve.

La Rocca di Alamut si stagliava bianca contro il cielo di piombo e di rame del tramonto. Si nascondevano gli spiriti, lì dentro. Spiriti malvagi. Ma quelle erano favole nelle quali aveva smesso di credere, storie inventate dai grandi per spaventare i ragazzi. Eppure, non era l’aria fredda del crepuscolo a fargli correre un brivido gelato lungo la schiena. Ben pochi avevano guardato gli occhi color della luna dell’irbis da qualche passo di distanza. E non era il caso di reputarli fortunati.

LO STRANIERO

Ardeshir urlò, ed era come se quel grido rauco e disperato che gli raschiava la gola non fosse un segnale inviato di sua volontà affinché Reza accorresse in suo aiuto. Doveva essere abbastanza lontano da non riuscire più a sentirlo, o da scambiare le sue grida per il soffio del vento, il lamento del gufo. Suoni inquietanti, ma che non segnalavano pericoli. Era la paura a strappargli quel grido dai recessi profondi dell’anima: la paura che la morte fosse inevitabile. E, quel che è peggio, lenta. E dolorosa. Alzò le braccia a proteggere il viso, ma sapeva che sarebbe stato inutile.

Quando la luce del tramonto segnò il suo ritorno alla coscienza, gli occhi di Ardeshir non incontrarono quelli argentati della belva. Sentiva il sangue colargli lento da una ferita che gli faceva bruciare la guancia, un dolore sordo pulsargli dentro la testa. Ma era vivo. Salvo. E c’era un uomo, chino sopra di lui.

- A chi debbo restituirti, piccolo?

Gli si era rivolto parlando in arabo. Tutti i figli di Allah, mendicanti e principi, arabi e non, intendevano quella lingua, nella quale veniva loro insegnato a pregare. E sua madre aveva preteso che la imparasse anche se la sua gente pregava altri dei. Diventerai un mercante, era solita dirgli. E devi saper comprendere le parole di chi può aiutarti ad accrescere le tue ricchezze. O cercare d’imbrogliarti.

Ma la luce rossa del tramonto non illuminava i tratti aquilini e la pelle olivastra di un arabo. L’uomo, intabarrato in un pesante pastrano foderato di pelliccia, gli sembrò un occidentale. Non che se ne vedessero molti, ma a Rudbar ogni tanto capitava di incontrarne qualcuno. Mercanti bizantini, possenti guerrieri variaghi[3] dai lunghi capelli biondi e dagli occhi argentati come l’irbis, il demone bianco delle montagne. Quello che poteva essere l’uomo che l’aveva salvato, facendo fuggire il leopardo delle nevi. L’aveva sopraffatto, pensò, ma non ucciso. Per compassione nei riguardi di quei cuccioli che sarebbero morti, senza la loro madre?

C’era ancora luce abbastanza da permettere ad Ardeshir di vedere che lo straniero vestiva come uno di loro e non come un occidentale. Gli era capitato di incontrarne diverse volte, a Rudbar. Mercanti bizantini, avventurieri variaghi, monaci guerrieri franchi votati alla castità e alla lotta contro coloro che chiamavano infedeli. Si diceva avessero stretto alleanza con il Custode del Giardino delle Delizie, il Signore Hashishin. Ardeshir strizzò gli occhi, reprimendo un brivido. Ma i capelli del forestiero erano lunghi, invece che rasati sulla nuca e non c’era il segno della croce sulla sua tunica. Poi, al contrario di loro, conosceva la pietà e non se ne vergognava.

- Che ci facevi tutto solo qui…e a quest’ora?

Era imponente, barbuto e forestiero, ma ragionava proprio come sua madre, pensò Ardeshir mordendosi la bocca.
- Non sono solo, - borbottò il ragazzo con voce risentita, mentre l’altro lo aiutava a montare sul suo cavallo, una grossa bestia ordinaria dai massicci garretti pelosi. - Pascolavamo le nostre pecore, io e Reza, quando…Quando l’irbis ci ha attaccati.

- E adesso dov’è, questo Reza? E’ scappato? Ho l’impressione che tu mi stia raccontando un gran mucchio di frottole, ragazzino…

Era fuori di dubbio che, da qualsiasi angolo di mondo provenissero, tutti gli adulti si rassomigliavano, pensò Ardeshir. Sua madre e quello sconosciuto non erano poi così diversi.

- Reza non è lontano da qui.

Lo raggiunsero in fretta. Un ragazzotto magro, sulla ventina, dall’abbigliamento dimesso e dal volto scuro e accigliato sotto il turbante. Il pastore d’un buon numero di bestie che poco avevano a che vedere con le comuni pecore: nere, gracili e brutte, traballavano su quattro esili zampe sbilenche. Erano tutte gravide e, di lì a poche settimane, avrebbero partorito piccoli agnelli neri, gracili e brutti, dai velli ricciuti morbidi come seta: le preziose pellicce di astrakan che orlavano i mantelli dei signori della terra e della guerra e che i mercanti di Shiraz ma anche di Bisanzio, Venezia, Novgorod e Samarcanda avrebbero pagato a peso d’oro a Sirin, la padrona. A sua madre.

- A quale tribù appartieni, piccolo?

- Il mio nome è Ardeshir.

Era un bel ragazzino dall’aria spavalda e dagli occhi allungati, color del muschio. Indossava roba calda, pulita ed elegante, il che gli lasciò facilmente comprendere come non ci fosse parentela tra lui e il rozzo responsabile di quelle preziose pecore sicuramente non sue. Ardeshir non aveva ancora raggiunto l’età in cui i lavori che sporcano le mani, spezzano la schiena e non consentono lauti guadagni vengono considerati vili. C’era anzi da supporre che ne fosse affascinato, il che spiegava la sua presenza, lì, a quell’ora e in quella landa disabitata.

- Ti ho fatto una domanda e non mi hai risposto, Ardeshir. A quale tribù appartieni?

- A dire il vero, è la tribù che appartiene a me.

- Allora non parlare quando raggiungeremo l’accampamento. Lascia che sia io a farlo. La verità su come sono andate le cose potrebbe causare dei guai a te…e al tuo amico. Perché eri solo quando l’irbis ti ha attaccato. E il graffio che hai in faccia è stato il cucciolo che hai tentato di portare via a provocartelo.

- Mia madre mi ha insegnato a non mentire.

- Tua madre ti ha insegnato bene. Ma non voglio che tu menta, solo che taccia; non parlare, e lascia che sia io a farlo.

Poteva essere che avesse ragione, pensò Ardeshir tirando su col naso.

LA SIGNORA

- Madre…

Anche la sua si sarebbe comportata in quel modo, in circostanze analoghe, si ritrovò a pensare l’uomo quando, senza proferir parola, la donna velata colpì la guancia di Ardeshir con uno schiaffo. Il ragazzo vacillò, e sarebbe caduto, se lui non lo avesse sorretto.

- Sitt[4].

Suo figlio parlava discretamente l’arabo, ed era logico pensare che anche lei lo parlasse. Ma era difficile comprenderlo potendo guardare i suoi occhi soltanto, due larghe pozze ambrate e impassibili tra il profluvio di seta e la cascata d’argento che le nascondeva il volto. Oltremare, pensò l’uomo, le donne oneste non avevano un volto, un corpo, un’identità. Erano fantasmi. Non sarebbe stato facile, intendersi con un fantasma.

- Vostro figlio non ha nessuna colpa, anzi, si è comportato coraggiosamente, e dovreste essere fiera di lui.

- Sarebbe potuto morire.

Ardeshir, gli occhi a terra, si tormentava nervosamente il ciondolo d’argento con una sfinge alata che portava al collo. Il suo portafortuna. Un portafortuna che l’aveva aiutato a uscire incolume dagli artigli dell’irbis, il demone bianco delle montagne. Anche suo figlio, pensò l’uomo, aveva portato un amuleto al collo, un mare di tempo prima. Un amuleto che avrebbe dovuto ricordare agli dei di preservarlo dal male. Ma non era servito a niente.

- Se la morte intende ghermirci, nulla le vieta di tenderci un agguato anche tra le pareti della nostra casa, Sitt.

I veli e l’argento dovevano servire a mascherare il suo disappunto, oltre che a salvaguardare il suo pudore. Ma quel fantasma era una madre, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per preservare suo figlio dai pericoli. Come la femmina dell’irbis, fuori dalla tana ai piedi delle montagne.

La guardò torcersi le mani, mentre gli diceva che le sue erano parole sagge ma incapaci di darle conforto. Ardeshir non era solo il suo unico figlio, ma anche il futuro della tribù. Gli fosse capitata una disgrazia, non se lo sarebbe perdonato. Come non avrebbe perdonato Reza, se avesse scoperto che non lo aveva sorvegliato con sufficiente attenzione. Lo avrebbe scacciato con ignominia, dopo averlo fatto battere a sangue. E, lontano dalla sua gente, evitato al pari di un lebbroso ovunque fosse andato, non ci sarebbe stato futuro, per lui.

- Perché non l’avete uccisa, quella maledetta bestia? Avreste dovuto portarmi la sua pelle, oltre a mio figlio sano e salvo. Invece, l’avete lasciata fuggire.

- Era una femmina, Sitt. Ha attaccato per difendere la sua cucciolata. I piccoli sarebbero morti, se l’avessi uccisa. - Ma a che serviva pretendere che quel fantasma velato provasse pietà?

La donna aveva occhi lucidi come la superficie di uno specchio e mani sottili e nervose, uniche scintille che lasciassero trapelare un’anima, sotto la seta e l’argento. Odorava d’incenso e di fiori e la sua voce era un bisbiglio attutito dai veli. Lunghe cortine lugubri e cupe, pensò l’uomo. Ma di stoffa costosa e pregiata. E la tenda non aveva niente da invidiare ai padiglioni del Saladino. Del resto, dalle parole di suo figlio, non gli era stato difficile comprendere come quel fantasma velato fosse la padrona di tutto quanto, uomini bestie e cose. Una padrona sicuramente dispotica, e non meno spietata dell’irbis ai piedi delle montagne. Una padrona che avrebbe dato disposizioni affinché a quel sottoposto che non era stato abbastanza attento nel sorvegliare suo figlio venisse scorticata la schiena a nerbate. E forse non le sarebbe bastato, e lo avrebbe scacciato con ignominia, riducendolo a un reietto senza casa, senza affetti e senza pane.

- Il pastore ha tentato di difendere il gregge che vi appartiene.

Armato soltanto di un bastone. Una verga di nocciolo contro gli artigli e le zanne di un leopardo infuriato.

- Se il mio bambino fosse morto…

 - E’ sano e salvo, Sitt.

Nessuna emozione poteva trapelare dai gesti di quel fantasma velato. L’uomo sentì il suo disagio acuirsi, e lei dovette leggerglielo nello sguardo.

- I miei dei non m’impongono di nascondermi agli occhi del mondo, - gli disse, sollevando il velo. Aveva collo esile, tratti delicati, lunghi capelli neri intrecciati con nastri d’argento. Sembrava una bambina.

AKBAR AL KHALID

- Non meravigliatevi di quel che mi avete visto fare. Questa tribù adora Ahura Mazda, non il Dio invisibile del Libro Verde. Il velo me lo sono imposto da sola perché chi tratta con me non si lasci fuorviare. La religione non c’entra. A molti uomini riesce difficile pensare che una donna possa essere abile negli affari come e più di loro. Specialmente quando è giovane, sola… e bella, perdonate la mia immodestia.

Con un cenno della mano, Sirin ingiunse ai servitori di allontanarsi, per restare sola con lo sconosciuto che aveva salvato suo figlio. Le ubbidirono silenziosamente, senza sollevare quelle obiezioni che lei si sarebbe rifiutata di ascoltare.

- Dovete avere fame, - gli disse, porgendogli datteri e pane in un vassoio d’argento. Lui accettò il cibo e l’ospitalità. Non era in condizione di rifiutarli.

Le aveva detto grazie, perché chi l’aveva servito era una signora e non una serva, dopodiché si era messo a biascicare senza appetito un grosso dattero appiccicoso. Eppure, Sirin avrebbe giurato che lo sconosciuto aveva fame. Sicuramente veniva da lontano, si disse da sé sola. Aldiquà dei contrafforti del Caucaso, facce come la sua erano tutt’altro che comuni. Ma non veniva neppure dai deserti riarsi del Sud, anche se parlava l’arabo meglio di lei. Erano gli europei ad avere quei capelli chiari, quegli occhi color dell’acquamarina, quelle piccole macchie dorate sotto gli occhi e sul dorso del naso.

- Non conosco il vostro nome, signore.

Non sapeva il suo nome, né le ragioni che l’avevano condotto lì, al termine di un viaggio che doveva essere stato lunghissimo. Affari, forse? Era diretto a Rudbar, le aveva detto. Ma i mercanti non viaggiavano da soli, e quell’uomo tutto sembrava fuorché uno di loro. Forse i suoi servitori le avrebbero detto che non era il caso di riporre troppa fiducia in uno sconosciuto, giunto chissà da dove, di cui ignorava tutto quanto. Se li avesse lasciati parlare. Se fosse stata disposta ad ascoltarli.

- Maximus. Akbar, in arabo. Akbar Al Khalid.

Il Più Grande. L’Immortale. Durante le veglie intorno al fuoco, Sirin aveva ascoltato dai vecchi le storie di un lontano passato, in cui il suo popolo era stato potente e temuto. I nemici credevano divinità gli arcieri dalle loriche scintillanti e dalle lunghe barbe ricciute. Ma quei tempi erano lontani secoli e li aveva inghiottiti un niente da cui in pochi erano stati risparmiati. Forse anche quell’uomo dal nome pretenzioso era una scheggia che il niente aveva rifiutato d’inghiottire.

Akbar Al Khalid. Il nome dell’uomo scivolò come una goccia di pioggia sul turbinare dei suoi pensieri.

- Leggo nei vostri occhi che non avete nessuno con cui dividere la solitudine e il pericolo, signore. Per la mia gente, l’ospitalità è sacra e… Dimenticate forse che ho un debito nei vostri confronti?

La fiamma delle lucerne d’argento le illuminava il viso, le labbra rosse, gli occhi sfumati di terra e di muschio. Era giovane e bella, si ritrovò a pensare l’uomo. Era forte: una scheggia emersa dal passato, che rifiutava di lasciarsi inghiottire dal presente. Esattamente come lui. Pur senza essere quello che lui era.

IL PUGNALE

La tenda di feltro che sarebbe stata la sua casa era piccola, ma fastosamente addobbata: seta, broccato, tappeti, argento, pelli morbide e preziose per preservare il suo sonno dal freddo della notte. Un lusso che non lo stupì: gli orientali facoltosi, da che il mondo è mondo, amano ostentare la loro ricchezza, anche dinanzi agli occhi disincantati o invidiosi d’un ospite di passaggio di cui nulla sanno. Quella mercantessa parsi dal viso di bambola e dagli occhi duri non faceva eccezione alla regola. Come si chiamava? Sirin. Dolcezza. Un nome che non le somigliava. Sorrise tra sé, ascoltando i brusii sommessi dell’accampamento, i latrati dei cani, l’ululato lontano di un lupo solitario. E, sciolta la fusciacca che gli cingeva i fianchi, udì il clangore del suo lungo pugnale d’acciaio, attutito appena dal soffice tappeto ai suoi piedi.

- Sidi.

L’ombra rischiarata dalla fiammella di una lucerna confondeva i contorni della sua figura. Sirin. Un bel nome. E un bel coraggio, a recarsi, in piena notte, nella tenda di uno straniero sconosciuto, rischiando la reputazione e l’onore.Non fosse bastato quello, poi…Doveva averlo sentito, nel silenzio rotto soltanto da rumori lontani, il clangore metallico del pugnale che cadeva, domandandosi perché lo sconosciuto che aveva salvato suo figlio nascondesse nella fusciacca un’arma da sicario.

- Non dormite, Sidi?

Le pareti sottili della tenda non erano sufficienti ad attutire i rumori della notte come i muri di pietra della sua casa oltre la steppa, il deserto, i dirupi dove si diceva si fosse arenata l’Arca dopo il Diluvio, dove si diceva che Prometeo avesse pagato il suo debito agli Dei, dopo aver sottratto loro il fuoco per farne dono agli uomini. Una casa di pietra, come la rocca di Alamut, il Nido dell’Aquila, la cui ombra sembrava incombere su tutta la vallata.

- Un castello, una stamberga, un carro o una tenda… Per me non fa differenza, Sitt.

La fiamma della lanterna gli aveva danzato un attimo sul candore dei denti, sul blu metallico degli occhi, prima di scintillare sulla lama affilata del suo pugnale.

- Chi siete, Sidi? - Rabbrividì, e non era per il freddo dell’autunno incipiente o per la leggera veste da notte sulla quale aveva gettato un ampio mantello di pelliccia. Guardava il pugnale.

- Lo porto con me per difendermi, Sitt.

- Avete salvato mio figlio, e di questo vi renderò grazie per tutto il tempo che mi resterà da vivere. Ma la nostra posizione non è facile né sicura, Sidi. Siamo esuli nella nostra stessa terra, tollerati a stento, mangiati vivi dal terrore di finire prima o poi perseguitati. Mettetevi nei nostri scomodi panni, e cercate di comprenderci.

- Volete dire che mi temete? Che non mi credete?

- Solo che vogliamo essere lasciati in pace. Finché sarà possibile.

Come chiunque avesse mai conosciuto, si ritrovò a pensare l’uomo. Ma era molto meno semplice di quel che poteva sembrare. Abbassò la testa, e le domandò di Ardeshir.

- Ha pianto e strepitato. Adesso dorme.

- Lo avete punito?

- Non è facile crescere un ragazzo senza padre, Sidi.

Niente doveva esserle stato facile. Nemmeno trattenersi dal dirgli, evitando di guardarlo negli occhi, “State con me e Ardeshir avrà quel padre che non ha mai avuto e di cui ha bisogno perché una donna sola e un manipolo di vecchi servitori non possono fare di un ragazzo un uomo”.

- Che ne è stato di vostro marito, Sitt?

Non aspettò la sua risposta e immaginò tutto quanto, prima che lei parlasse, senza abbassare le palpebre sugli occhi che le scintillavano di bagliori lunari, come alla femmina di leopardo bianco, ai piedi delle montagne.

- Avevo sedici anni, e lui sessanta.

 Il vecchio a cui era stata venduta doveva aver perso il conto delle mogli ripudiate perché sterili o capaci di dargli solo figlie femmine. Che le ripugnasse, era fuori da ogni ragionevole dubbio. Doveva essere un uomo potente, se suo padre non si era lasciato commuovere da tutte le lacrime che Sirin aveva pianto e sua madre, nel tentativo maldestro di consolarla, certo le aveva promesso che sarebbe stata ricca e rispettata. Rassegnati, Sirin, e la vita ti sarà meno dura.

- E voi avete moglie, Sidi?

E’ morta, aveva sibilato lui, tra i denti. Tanto tempo fa. E Sirin immaginò che il pugnale fosse lo strumento di una vendetta a lungo attesa e finalmente giunta al suo compimento.

LA MUSICA DELLA NOTTE

Presto il vento freddo delle montagne avrebbe portato l’inverno anche a valle. E sarebbe tornato il tempo di rifugiarsi nella grande casa di Rudbar, al caldo e al sicuro. Ma Ardeshir odiava quelle mura come si può odiare una prigione, come si può arrivare a odiare i propri ricordi.

Sirin strinse il pugno, guardò tendersi il segno grinzoso della cicatrice. Le faceva male, quando il freddo dell’inverno pungeva. Ma il vecchio a cui era stata venduta avrebbe potuto provare ripugnanza per la macchia livida che glielo deturpava sicché gliela avevano cancellata col fuoco ed il coltello, prima che andasse sposa. Le era stato detto che suo fratello ne aveva una uguale. Ma era morto prima che lei nascesse. Era stato rapito da una banda di ladroni. E il suo cadavere dovevano averlo mangiato i lupi.

- Sitt…

Il vento, fuori dalla tenda, tagliava come una lama e odorava di metallo. Avete paura dei lupi, Sitt? Glielo avrebbe domandato, ne era sicura. E si sarebbe sentito rispondere che l’ululato dei lupi era la musica che aveva cullato il suo sonno fin da quando era bambina, e che non temeva i suoi fratelli della notte.

- Se ho paura? E’ una debolezza che non potrei permettermi, nelle mie condizioni.

L’uomo la guardò muoversi leggera verso di lui, le sorrise prendendo la coppa d’argento che gli porgeva, senza abbassare gli occhi a terra. Non poteva permettersi la debolezza della paura perché era una madre sola? O perché era quello che era, l’ultimo residuo di un passato che rifiutava testardamente di soccombere?

- Noi siamo coloro che il presente rifiuta e il futuro atterrisce, Sidi.

- E che il ricordo di una passata grandezza dovrebbe confortare, mia signora. O pensate che il conforto alle vostre paure potreste trovarlo tra le mie braccia, ed è per questo che mi porgete vino di datteri tenendo i vostri occhi fissi nei miei? Per invitarmi nel vostro letto, Sitt? Non raccontatemi che cercate un padre per Ardeshir, un uomo giovane e forte, capace di insegnargli l’onestà e il coraggio, di prenderlo per mano quando il suo cammino si farà difficile, perché anche lui ha tutte le ragioni di essere atterrito dal futuro, malgrado sia un ragazzo tanto temerario da aver affrontato, tutto solo, una femmina di leopardo bianco, ai piedi delle montagne. Non raccontatemelo, perché non vi crederei.

L’uomo scosse la testa, mentre le sue dita indugiavano sulla figura sbalzata nel boccale. La Homa, la sfinge alata, né uomo né animale, né maschio né femmina: Ahura Mazda, il dio della vita, del giorno e della notte, della terra e del fuoco. L’idolo che i Templari custodivano nei recessi segreti delle loro fortezze, a vergogna e infamia delle superstizioni pagane. Lo chiamavano Baphomet.

- Akbar… Vi ha messo un nome impegnativo, vostro padre.

- Maximus. Il più grande. E’ morto quando avevo l’età di vostro figlio e non ho di lui ricordi sufficienti a giudicarlo col mio senno di adulto lungimirante oppure tanto sciocco da non temere di provocare gli dei.

- Un nome più adatto a un guerriero che a un mercante.

Non abbassò gli occhi a terra, Sirin. E quando le dita di lui le sfiorarono la mano, ricambiò il suo sorriso. La fortuna era stata avara di doni, con lei, ma era sicura che lo straniero dalle spalle larghe e dagli acuti occhi chiari l’avrebbe resa felice: per una notte soltanto o per tutta la vita non importava. Che fosse un mercante, un guerriero, perfino un sicario. Neppure quello importava.

REZA

Non l’aveva sentita sussurrargli grazie con un filo di voce; e il corpo di lui che la schiacciava, la bocca dura che la divorava di baci li aveva soltanto immaginati. Ma i loro gemiti, quelli li aveva sentiti mentre, insonne, se ne stava rannicchiato contro alla tenda della sua signora, com’era capitato tante altre volte, e non gliene importava se qualcuno se ne fosse accorto. L’indomani, prima ancora che il sole sorgesse, se ne sarebbe tornato allo stazzo, dalle pecore che stavano per partorire i loro brutti agnelli neri dalle pellicce di seta, una delle tante mercanzie che le consentivano di essere quella che era. Sirin. Puttana maledetta.

Chiuse gli occhi, come quando la febbre gli incendiava il sangue e gli squassava le ossa, ma non poteva crollare addormentato sul suo giaciglio perché c’erano le pecore, quelle brutte bestie nere dal vello di seta da custodire e difendere dalle belve e dai grassatori. Il capitale del vecchio Firuz. E di Sirin, dopo che quel ripugnante grassone dalle labbra molli e dai denti cariati era crepato lasciandola sola. Sola, e padrona del suo destino, visto che non aveva più padre né marito. Almeno fintantoché Ardeshir non fosse cresciuto abbastanza, perché il destino d’una vedova è quello di finire sotto la tutela di suo figlio e lei sarebbe stata ancora abbastanza giovane perché le venisse imposto un altro marito. Quanto tempo il destino riservava ai suoi sogni? Otto anni? O forse dieci? Dieci anni perché anche lei l'amasse come lui l’aveva sempre amata?

Certo, Sirin era la padrona, lui solo un servo, ma capita che i sogni si avverino, quando lo desideri tanto intensamente da sentire dolore. Aveva una dozzina d’anni, la prima volta che l’aveva vista, lei pochi di più. Scintillava d’argento e d’oro, ma i suoi occhi erano tristi. Sembrava una bambina atterrita, più di quel che sarebbe dovuta essere, la sposa invidiata di un uomo ricco. Li aveva sentiti, e non solo immaginati, i singhiozzi che non tentava neppure di soffocare, quando il suo signore e padrone faceva di lei ciò che voleva.

Prima di mandarlo appresso alle pecore, suo padre e suo nonno gli avevano insegnato i pericoli da cui guardarsi: e non erano soltanto la volpe che divorava gli agnelli appena nati, il lupo, l’orso, il leopardo o la tigre, gli dei vegliassero su di lui. Si chiamavano aconito, cicuta, belladonna. Erbacce che, dietro la loro apparenza innocua, nascondevano pericoli mortali. “Le pecore sono bestie stupide, Reza. Tieni gli occhi aperti, e attento che non le mangino: creperebbero stecchite.”

Non erano state poche le volte che gli era venuta la tentazione di raccontare tutto quanto, a Sirin, la sua signora. Lui non aveva oro e gemme da offrirle, collane preziose, cavigliere tintinnanti di sonagli, che avrebbero ribadito la sua condizione di schiavitù, come il barbazzale di un asino, la cavezza di un cammello bactriano. Lui le aveva offerto quanto di più prezioso avesse, la vita, per asciugarle le lacrime dagli occhi. Perché l’amava. Dal primo momento in cui l’aveva vista, malgrado fosse solo un bambino. Un bambino al quale suo padre e suo nonno avevano insegnato a guardarsi dall’aconito e dalla belladonna, oltre che dal lupo e dall’orso. Non sei libera perché il vecchio Firuz è stato tradito dal suo cuore malato, mia signora... Le avrebbe raccontato tutto quanto, se lo straniero dalle spalle larghe e dagli occhi azzurri non gliel’avesse portata via prima che potesse farlo, i demoni lo maledicessero.

IL NIDO DELL’AQUILA

Ma la sua stirpe è la stessa dei demoni, e si dice che cane non mangia cane. Quest’acqua è amara, aveva detto lo straniero storcendo la bocca e rovesciando in terra il contenuto della sua coppa, dopo averne inghiottito un sorso. Sarebbe bastato a ucciderlo, non fosse stato quello che era.

Il destino se lo portava scritto nel nome, il maledetto. Maximus, o qualcosa del genere, era così che quella puttana di sua madre lo aveva chiamato, quando era venuto al mondo, a Occidente, in chissà quale bastardo posto. Akbar Al Khalid. Il più grande. L’Immortale. Reza non conosceva la lingua nella quale lui e Sirin parlavano, ma non era stato difficile trovare qualcuno che lo informasse. Il cucciolo del vecchio Firuz, guarda un po’ il caso, che prima gli stava sempre appiccicato alle costole e adesso trotterellava appresso allo straniero ovunque andasse, come un cagnolino affezionato. Ardeshir aveva bisogno di un padre...O forse era Sirin ad aver bisogno di qualcuno che le scaldasse il letto e quello sconosciuto di cui conosceva a stento il nome era giovane, bello, forte… e immortale?

Reza sputò in terra, prima di allungare il passo. La meta era ancora lontana e presto sarebbe calata la sera. Faceva freddo, ma ormai era tardi per tornare indietro. Dacché Sirin lo aveva scacciato e non aveva più un posto dove andare, non poteva più farlo. E in verità neppure voleva.

C’era un sentiero erto di pietre, e il buio, e il freddo della notte, di lì alla rocca di Alamut. Un posto sinistro, del quale ben poco si sapeva, se non che il suo nome era da chissà quanto tempo lo spauracchio di cui le madri si servivano per spaventare i figlioli disubbidienti. Nessuno aveva mai visto in faccia il signore di quel luogo, ma si diceva fosse quello che era lo straniero dagli occhi azzurri: immortale. Frottole, Reza borbottò tra i denti, nessuno lo è, anche se aveva visto con i suoi occhi un uomo sopravvivere ad una sorsata di veleno. Immortale… Quale dio poteva aver offerto quel dono di inestimabile valore a un bugiardo assassino che si spacciava per la reincarnazione del Profeta e barattava le esistenze dei poveracci che riusciva ad irretire con le delizie del suo falso Paradiso? Fiumi di latte e miele, musiche languide, profumi delicati, fanciulle belle come fiori e sempre vergini… O non piuttosto un bordello nel quale puttane vestite solo di tatuaggi mendhi ed efebi dai volti effeminati sollazzavano larve inebetite disposte a qualsiasi turpitudine purché quella finzione che le droghe trasformavano in realtà non avesse mai fine?

I servigi del Signore Hashishin costavano cari. Troppo, per un servo pastore che il destino e le circostanze avevano privato della sua casa, della sua gente, della sua stessa identità. Gli rimanevano la vita e il segreto di un enigmatico straniero che neppure il veleno dell’aconito era riuscito ad uccidere. Un prezzo onesto da pagare al Vecchio della Montagna in cambio di Sirin, che continuava a ossessionare i suoi sogni. Nonostante tutto.

IL SIGNORE DEGLI INGANNI

Da quanto tempo le genti della vallata, nomadi o stanziali, seguaci di Maometto o di Zoroastro che fossero, guardavano alla Rocca con terrore, quasi che fosse il demonio in persona ad abitarci? Lo dicevano immortale e forse era per quello che, nonostante fosse noto come il Vecchio della Montagna, non dimostrava più d’ una trentina di anni. Era un uomo basso, chiaro di carnagione e dall’aspetto banale, il cui unico tratto degno di nota erano i grandi occhi luminosi, dall’espressione dolce e severa. Avevano il colore delle foglie secche, del muschio frammisto al terriccio. Come quelli di Sirin e di suo figlio Ardeshir, si ritrovò a pensare Reza.

- Se sei qui è perché da me vuoi qualcosa, ragazzo. Qualcosa che costa caro e che, a guardare i tuoi vecchi stracci sbrindellati, certo non sei in grado di pagare. O forse sei solo un servo, e sei qui per conto di qualcuno?

Hasan Al Sabah lo scrutava immobile con quelle iridi penetranti che avevano il colore delle foglie morte nelle cornee leggermente iniettate di sangue. Che cosa voleva, pensò, quello zingaro della steppa, appartenente alla genia di coloro che, invece dell’unico, vero Dio adoravano il fuoco e abbandonavano i cadaveri agli animali immondi[5]?

Non era venuto a offrirgli la vita in cambio del suo paradiso puzzolente di hashish, di sperma, di sudore e d’ essenze dozzinali, come il più infimo casino di Rudbar. Non era venuto a dirgli “Sono stanco di prostrarmi davanti alle fiamme e non voglio che, quando il mio destino si sarà compiuto, la mia tomba sia lo stomaco dei lupi e degli avvoltoi”. Non era venuto per inginocchiarsi di fronte a lui, afferrargli le mani e baciargliele, dicendo fate di me quello che volete.

- Amo una donna che non mi ama. Per lei ho ucciso e ucciderei ancora, ma ha scelto un altro, e mi ha scacciato via come un cane, gettandomi in faccia quel poco che avevo e tutto quanto il suo disprezzo. Non c’è notte che non la sogni gemere e dibattersi sotto di me prima implorando pietà, poi sospirando per il piacere… - Era una vecchia storia, quella, una storia che il Signore degli Inganni doveva aver già ascoltato. Chissà quante volte.

Pochi giorni ancora, e Sirin avrebbe lasciato l’accampamento per trasferirsi nella sua casa di Rudbar, come ogni inverno. Prenderla e portarla via sarebbe stato un gioco da ragazzi per gli spietati e temerari fidawi, gli scherani del Signore della Montagna. E lui, aldilà delle apparenze, avrebbe potuto pagare quel piccolo incomodo con qualcosa di molto più prezioso dell’oro.

- Ha un marito, dei figli questa tua zingara della steppa?

- E’ vedova da prima che il suo moccioso nascesse. Ardeshir… Ha quasi nove anni.

- Lui potrebbe essere il prezzo che ti chiederei di pagare. Ho bisogno di perpetuare il mio nome. Come già fecero coloro che mi hanno preceduto, non designerò il sangue del mio sangue quale erede, bensì qualcuno che sia abbastanza giovane perché la sua volontà possa essere plasmata a mio piacimento e abbastanza grande da comprendere che il mio paradiso è l’inganno su cui si fonderà anche il suo potere. Ardeshir hai detto? Quasi nove anni?

Reza lo guardava accarezzarsi la rada barba nera senza staccargli di dosso gli occhi acuti e malinconici, color delle foglie morte. Aveva mani piccole e sottili come quelle di una donna. Il dorso della sinistra era deturpato da una grossa macchia pelosa.

Una donna e un ragazzino. Lei per la lussuria del pezzente infedele, lui per perpetuare nel futuro i suoi inganni, e il terrore che il suo nome era in grado di evocare. Hasan al Sabah. Il Vecchio della Montagna. Il Signore Hashishin.

Reza torse la bocca.
- Un moccioso di quasi nove anni da designare quale erede. Vi accontentate di poco, mio signore. Eppure potreste avere voi stesso per sempre quello che intendete lasciargli. C’è un uomo, con loro. Uno straniero venuto da Occidente che sa il segreto della vita senza fine.

L’ESECUZIONE

Il pezzente infedele gli aveva raccontato di come avesse visto con i suoi occhi l’uomo nudo e incatenato sopravvivere al veleno. Menzogne. Fantasie di una mente malata, si era detto da sé solo, spiando, nascosto dietro uno specchio cieco, mentre il carnefice lo torturava con una frusta guarnita da lamine di metallo e frammenti di osso. Lo straniero aveva cercato di resistere alla tentazione di urlare, ma alla fine gli spasimi erano stati più forti della sua volontà. Coraggioso, indubbiamente. Avvezzo a tollerare il dolore, come un combattente degno davvero di tal nome. Ma la sofferenza fisica, dopo oltre cento di quei colpi, era andata aldilà della sua sopportazione, costringendolo ad afflosciarsi, appeso a quelle funi che gli bloccavano, allargate e tese allo spasmo, le braccia, e uno svenimento pietoso lo aveva tolto di coscienza, o forse… Il presunto immortale doveva in realtà essere morto o quantomeno moribondo e il pezzente infedele avrebbe pagato cara l’impudenza d’aver osato ingannare il Signore degli Inganni.

Hasan El Sabah scostò il pesante tendaggio e mosse alcuni passi verso l’uomo impastoiato e svenuto.

L’aria immobile odorava di patchouli e di sangue, d’incenso e di sudore. Gli effluvi del suo falso paradiso. C’era un tappeto, disteso ai piedi del prigioniero, con una donna vestita di niente e inebetita dall’hashish accoccolata sopra. I tendaggi ovattati attutivano la nenia ipnotica del duduk[6]. Erano schizzati di sangue e brandelli di pelle, come lo straccio sbrindellato che pendeva dai fianchi dell’uomo. Dello straniero. Innumerevoli volte, uomini venuti dal tramonto, avevano pagato a peso d’oro i servigi dei suoi sicari. Uomini come quello che gli aveva insozzato tende e tappeti con gli umori del suo corpo in agonia.

La mia pazienza non durerà ancora per molto, pensò Hasan al Sabah sfilandosi il pugnale dalla fusciacca. La mia pazienza col pezzente infedele e con questo qui… L’Immortale. Lo abbrancò per i capelli, costringendolo a piegare la testa all’indietro, offrendo la pelle tesa della gola alla lama. Il sangue sarebbe zampillato fuori con forza, imbrattandogli irrimediabilmente i vestiti. Ma ne sarebbe valsa la pena. Ne valeva sempre la pena.

Portatelo via e gettatelo in pasto ai cani. Li avrebbe chiamati, i suoi servi, ma non ancora. Prima, avrebbe aspettato che tutto il sangue fluisse dal corpo dello straniero, come a un animale macellato. Quindi avrebbe riservato a quel che ne restava la sorte che gli zingari della steppa riservavano ai corpi dei loro morti.

PROMETEO

Se il fiato del prigioniero, l’ultimo, si era spento nel gorgogliare del sangue che gli scorreva dalla gola recisa fino alle vertebre del collo, allora cos’era il sibilo che gli sembrava di percepire? Un inganno, come quelli in cambio dei quali tanti idioti gli avevano venduto, senza mercanteggiare, i loro corpi e le loro anime? Hasan El Sabah si voltò. E comprese che il pezzente infedele non lo aveva ingannato.

Non c’erano ferite, sul corpo del prigioniero, e gli parve addirittura che sulle sue labbra aleggiasse un lieve sorriso di scherno. Come se il carnefice non lo avesse battuto a sangue, come se un colpo deciso del suo stesso pugnale non gli avesse squarciato la gola. Era un occidentale dalla pelle chiara, i capelli lunghi e il fisico possente; doveva avere grossomodo la sua stessa età… chissà da quanto.

- Credevo che il pezzente infedele, mi avesse ingannato. Invece, a quanto pare, tutto quello che mi ha raccontato sul tuo conto era vero. Anche se è difficile crederci.

Gli parlò in arabo, sperando che quell’altro fosse in grado di rispondergli. Del resto, il pezzente infedele gli aveva detto che, nonostante il suo nome fosse un altro, si faceva chiamare Akbar al Khalid. Il Grande. L’Immortale.

Il Signore degli Inganni sogghignò. Grande e immortale, ma sudicio, contuso, incatenato e alla sua mercé. Se solo avesse voluto, poteva tenerlo prigioniero per sempre, farlo torturare tanto atrocemente da costringerlo ad implorare quella morte che non lo avrebbe liberato. A meno che non lo avesse fatto partecipe del suo segreto.

Lo straniero scosse la testa.
- Non posso, - gli sibilò con un filo di voce rauca, senza staccare gli occhi dai suoi.

- Davvero? O piuttosto non vuoi? Ho visto con i miei occhi che la tua condizione non ti risparmia il dolore… e agire di conseguenza sarebbe per me giocoforza.

E allora l’avrebbe invocata, la morte, come il titano che aveva rubato il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini. Ma, come a Prometeo, la misericordia di una rapida fine gli sarebbe stata negata e avrebbe maledetto la benedizione della vita senza fine ricevuta in dono dal destino. Il prigioniero si morse a sangue la bocca.
- Non so cosa dirvi, - gli rispose senza chinare la testa.

- Se non t’importa niente di te, t’importerà della donna che ti portavi a letto: parla, o la getterò in pasto ai miei uomini.

C’era un che di languido, nello sguardo, nella voce e nei gesti di Hasan Al Sabah. Qualcosa che, invece di attenuarla, acuiva la sua perfidia.

- Quella donna ha i vostri stessi occhi, Effendi. E sulla sua mano destra, prima che un cerusico gliela cancellasse, c’era una macchia identica a quella che deturpa la vostra. Voi e Sirin siete dello stesso sangue, condividete lo stesso padre e la stessa madre.

- Da chi mi ha messo al mondo non ho avuto niente: né il vero Dio, né la ricchezza, né il potere. E in quanto alla donna, che sia o non sia mia sorella, per ciò che è e che ha fatto, meriterebbe di essere uccisa a sassate.

Meglio sarebbe stato che fossi morto bambino e i lupi avessero davvero divorato il tuo cadavere. Il prigioniero lo pensò, e non lo disse. Colui che lo aveva rapito per crescerlo nelle sue certezze e lasciargli i suoi poteri aveva distrutto in lui ogni traccia di umanità. Che Hasan Al Sabah meditasse di fare altrettanto con Ardeshir, nelle cui vene scorreva il suo stesso sangue?

- E’ successo tanto tempo fa, Effendi.

- Che cosa? Un demone scaturito dall’inferno ti ha infettato con il suo morso? Hai mescolato il tuo sangue con quello di un ghoul[7]? - Il Signore Hashishin sollevò lentamente la mano carica di anelli e la donna accoccolata ai suoi piedi si alzò, srotolandosi con la grazia pigra di un serpente. Gli sorrise: aveva denti bianchi, occhi vuoti e mani fredde. Il prigioniero si lasciò sfuggire un gemito, quando la sentì insinuarsi sotto lo straccio che gli cingeva i fianchi. Dove non avevano potuto la tortura e le minacce, forse avrebbe potuto la lussuria. Akbar al Khalid. Il Grande. L’Immortale. O non piuttosto un uomo come tutti quanti gli altri, talmente sciocco da credere che una qualsiasi baldracca dagli orifizi slabbrati, inebetita dalla droga e olezzante di sudore e d’essenze dozzinali fosse una Uri[8] del Paradiso?

L’anima di un uomo non è un prezzo troppo alto da pagare per un falso Paradiso, ma l’Immortale non aveva ragioni sufficienti per vendergli la sua. Eppure, Hasan Al Sabah era sempre stato bravo a convincere gli altri a farlo. Promettendo loro ebbrezza, lussuria e sangue. Anche quello. Molti provavano piacere a torturare e ad ammazzare. Non c’è niente di sacro nella vita di un nemico, che non vale più di quella di due cani o di due cammelli infoiati costretti dai loro padroni a lottare alla morte. Vendetemi la vostra anima e vi darò anche questo.

LA RESA DEI CONTI

Potessi guardarti come ti guardo io, forse ti vergogneresti di te stesso, Immortale. Non sei diverso dagli altri uomini, schiavo dei sensi, e della lussuria non meno che del dolore e della paura. Parla, e porrò fine ai tuoi incubi. O dovrò scacciare a calci la puttana che con le mani e la bocca dà piacere al tuo corpo, aprirti un’altra volta le vene della gola e leccare quel sangue dove forse si cela il segreto della tua immortalità? La pazienza ha un limite, e la mia si sta esaurendo come l’olio che si consuma in fondo a una lampada accesa.

La donna inginocchiata sollevò verso il prigioniero uno sguardo carico di disperazione e di odio. Era giovanissima. A quale prezzo Hasan Al Sabah aveva comprato la sua anima e il suo corpo?
- Vorrei poterti rendere la libertà che hai perso, ma nelle condizioni in cui mi trovo… Se solo conoscessi il tuo nome. Se solo non avessi le mani legate.

Era chiara di capelli d’occhi e di carnagione: il Signore della Montagna non doveva aver comprato la sua anima con gli inganni, ma il suo corpo in un mercato di schiavi. L’Immortale sentì il tocco leggero delle sue dita scorrergli lungo i muscoli tesi delle braccia, dalle spalle fino ai polsi imprigionati da grosse funi.

- Si pentirà di non aver usato con te catene di ferro. Dio lo maledica.

Chiuse gli occhi, a quelle parole pronunciate in greco dalla donna. Doveva essere l’ennesimo inganno della sua mente sconvolta, quello, come il bagliore che vide balenarle nelle mani. Quanto tempo mancava, da lì alla pazzia?

- Nonostante si spacci per Dio, la voglia di pisciare piglia pure a lui… - Non era un sogno, e non era pazzia. Le sue mani erano libere, adesso. Il polso destro gli bruciava, dove la giovane schiava aveva scalfito la sua pelle, mentre recideva le funi. - Ma non ci metterà molto a tornare, per continuare a tormentarti sperando di costringerti a rivelargli il tuo segreto. Prendi questo pugnale, e fagli quello che ha fatto a te, Immortale. Lui non è quello che sei tu. Poi prendi la tua donna e il ragazzo e vattene, perché di questo posto non resterà pietra su pietra.

EPILOGO

Avviluppati in pesanti coperte, la donna e il bambino lo precedevano di pochi passi, in sella a una piccola mula mansueta. Akbar al Khalid, l’Immortale, si voltò e guardò per un attimo le fiamme divampare avvolgendo la Rocca prima di spronare il suo cavallo. Faceva freddo e il sole stava per tramontare. Bisognava raggiungere Rudbar, prima che calasse la notte.

 

FINE

Lalla, 23 marzo 2007

Al tenebroso Vecchio della Montagna, Marco Polo dedicò un capitolo de “Il Milione”. La setta dei “fidawi” esiste ancora: al giorno d’oggi, i suoi adepti, chiamati ismailiti, non sono temibili sicari inferociti dalle droghe e dall’odio fanatico, ma esperti uomini d’affari. Il loro capo, Karim Aga Khan è un affabile, colto e raffinato signore a cui l’economia della Sardegna deve tanto: fu lui, una quarantina di anni fa, a creare in Gallura il paradiso turistico della Costa Smeralda.

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[1] Ahura Mazda e Arimane sono le entità supreme della religione zoroastriana, spiriti rispettivamente del Bene e del Male. All’epoca in cui questa storia è ambientata, l’Impero Persiano era ormai quasi completamente islamizzato e solo i membri di alcune tribù nomadi, oltre alle comunità parsi rifugiatesi in India, professavano ancora l’antico credo.

[2] Si tratta di un pastrano di feltro, solitamente verde, che può essere foderato di pelliccia e abbellito da galloni e ricami nei modelli più eleganti e raffinati. E’ tipico delle popolazioni della Persia e dell’Afghanistan  e ed è conosciuto in Europa  grazie al presidente afgano Hamid Karzaj, che lo indossa spesso.

[3] Russi.

[4] Signora.

[5] Per i seguaci della religione zoroastriana, il fuoco rappresenta una manifestazione della divinità. Poiché considerano sacra anche la Madre Terra, essi giudicano empio seppellire i morti, come è consuetudine tra Musulmani, Cristiani ed Ebrei o cremarli, alla maniera degli Indù. I cadaveri vengono pertanto collocati nelle cosiddette “torri del Silenzio” e lasciati in balia degli uccelli da preda.

[6] Strumento a fiato simile all’oboe.

[7] Vampiro.

[8]  Bellissime fanciulle che, nel Paradiso, allietavano le anime degli eroi morti.