Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

 

I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO

(parte prima)

Il lungo viaggio

 

Non apparterrò mai a nessun uomo, sarò mia e soltanto mia. Era il proposito che aveva giurato a sé stessa di mantenere fin da quando era una bimba. Neanche a colui al quale le sue mani, le sue labbra e la sua lingua stavano dando piacere, malgrado lo avesse amato. E lo amasse ancora.

 

Sei bellissimo, gli sussurrò in quel suo idioma che lui non capiva, senza stancarsi di accarezzare il suo corpo, il petto largo e muscoloso, coperto da una leggera peluria schiarita dal sole, i capezzoli sensibili, il ventre, il vello fitto e ricciuto del pube. I bianchi erano molto più pelosi degli orientali, si ritrovò a pensare. Più pelosi… E più grossi. Gli lambì delicatamente la pelle sensibile delle cosce, il membro esausto e svuotato. La prima volta, ricordò, aveva avuto paura di lui: le era sembrato enorme, ed era il suo primo uomo. La prima volta fa male, le aveva spiegato Qui Chong, la cortigiana a cui suo padre aveva dato l’incarico di insegnarle ciò che non sapeva affinché fosse pronta a diventare una buona moglie per il signore che regnava sugli estremi limiti occidentali del mondo. Ma il piacere che verrà dopo diventerà il fulcro della tua esistenza e pur di averlo daresti qualsiasi cosa. Anche la tua libertà. Anche la tua vita.

 

Qui Chong era più alta di lei e d’una decina di anni più vecchia. Aveva un viso gradevole, ma lo sguardo sfuggente di chi mente per mancanza di coraggio, e minuscoli piedini storpiati che le impedivano di muovere più di qualche passo senza stancarsi. Era morta a metà del loro lungo viaggio perché, allevata per il piacere e non per la fatica fin dalla più tenera età, si era ammalata strada facendo. Han Cheng non ricordava d’averla pianta, quando le avevano scavato la tomba ai margini del deserto, in Mongolia occidentale. Non per lei, poveretta. Per quel che era e rappresentava ai suoi occhi, una prigioniera che non abbandonerebbe il suo carcere nemmeno trovando spalancata la porta della cella e le sentinelle tramortite.

 

Consuetudine. Diffidenza. Chiusura mentale. Paura. Era quella la prigione in cui il suo popolo, dall’Imperatore all’ultimo degli schiavi aveva scelto volontariamente di rinchiudersi. Nel timore, era assurdo ma era proprio così, più dei cambiamenti che di possibili invasioni da parte di popoli barbari e stranieri. Per difendersi da quelle, bastavano i contrafforti della Muraglia, il valore dei soldati e dei loro ufficiali… E i matrimoni stipulati per sancire alleanze, come quello che l’avrebbe legata a uno sconosciuto che non apparteneva neppure alla sua razza, Abd Al Rahman, califfo di Cordoba, signore degli estremi limiti occidentali del mondo.

 

Il viaggio, per mare e per terra, era durato oltre due anni. Duecento soldati armati al comando di suo fratello, il principe An’g Li[1], scortavano la promessa sposa e l’inestimabile tesoro della sua dote. Cinquanta tra ancelle e domestici la seguivano per servirla. Carri, cavalli e cammelli mongoli trasportavano uomini, masserizie e vettovaglie. Di tutti quegli uomini, cinque soltanto erano sopravvissuti e dividevano adesso con lei gli alloggiamenti della Fortezza, dopo aver diviso drammatiche avventure: Kai Ge, il vecchio saggio, Shuy Himou, la governante, una giovane cameriera con cui Han Cheng, da bambina, aveva giocato, e due eunuchi addestrati all’uso delle armi e alla micidiale lotta con mani e piedi. Gli altri erano diventati tutti ossa e polvere, anche An’g Li, l’amato fratello.

 

Non sai niente di come sono andate in realtà le cose, perché non ti ho raccontato la verità come tu invece mi raccontasti la tua, quando il cavallo che montavi s’imbizzarrì mentre cavalcavamo nel bosco e lo spuntone di un ramo ti trafisse il braccio da parte a parte. Eravamo amanti ormai da alcuni anni, e mai avrei sospettato che tu fossi quello che eri. Mi raccontasti tutto di te, e ti dileguasti ai miei occhi fino al giorno in cui hai portato qui il cane dei Franchi ferito perché lo curassimo. Temevi forse che provassi orrore per te. Ti dileguasti come se la nebbia che avvolge le cime di queste montagne ti avesse inghiottito, eppure continuasti a occuparti delle nostre necessità senza che io ti vedessi una volta soltanto. No, non ho provato orrore per quel che sei un attimo soltanto, Maximus, quando ho visto la ferita chiudersi quasi subito e ho saputo che stavi al mondo da seicento anni per opera di magia e che né vecchiaia, né malattie né morte potevano niente contro di te. L’uomo più retto, coraggioso e gentile con cui abbia mai incrociato lo sguardo non sarebbe stato degno di sentimenti tanto malevoli. Chiunque e qualsiasi cosa egli fosse.

 

Perché, Maximus? Dimmelo adesso, gli aveva chiesto mentre lui le accarezzava i capelli con la grande mano callosa e lei non riusciva a staccare gli occhi dallo strappo sulla manica della sua tunica chiazzata di sangue, dalla pelle del suo braccio, intatta laddove poco prima si apriva un’orribile ferita. E lui le aveva raccontato di un grande imperatore e del più valoroso dei suoi generali, di un principe malvagio e di una principessa innamorata, di giorni impregnati di lacrime e sangue, di notti popolate da incubi spaventosi. Le cicatrici che ho sul corpo, le aveva detto, risalgono all’altra vita. Certe sono ferite di guerra. Altre… Ero diventato uno schiavo costretto a lottare a morte contro altri schiavi per il divertimento della plebaglia e di un sovrano pazzo, malvagio e parricida, il mandante dell’assassinio di mia moglie e mio figlio… Un singhiozzo gli aveva chiuso la gola. Un singhiozzo che non poteva sciogliersi in lacrime, perché agli Immortali non era dato di poter piangere.

 

 

I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO

(parte seconda)

La prigioniera

 

Han Cheng si addormentò raggomitolata contro il petto di Maximus. E sognò i segreti che non aveva voluto rivelargli, mentre il cielo della notte, gravido di nubi temporalesche, era squarciato dalla luce dei lampi e il rimbombare cupo del tuono squassava la valle e le vette innevate delle montagne.

 

Il viaggio era stato lungo e talmente faticoso da essere costato la vita a diversi membri del seguito. Ma i molti popoli incontrati sulla loro strada, cinesi, mongoli, persiani, sarmati e slavi, non si erano dimostrati ostili nei loro riguardi e li avevano lasciati in pace. Il Figlio del Cielo[2] era conosciuto e rispettato ovunque, si diceva, e quella era la prova tangibile che non si trattava di bugie.

Giunti a Bisanzio, avevano venduto le bestie sopravissute al viaggio e si erano imbarcati su alcune galee veneziane dirette in Spagna. Il viaggio per mare sarebbe stato abbastanza lungo da consentire ad Han Cheng di studiare un piano ben congegnato per guadagnare, in quella terra lontana, non un marito di nobile sangue e dal volto sconosciuto che l’avrebbe relegata come una prigioniera e trattata come un lussuoso oggetto, ma quel che sognava dacché stava al mondo: la libertà.

 

Poi, era accaduto l’imprevisto: la nave che doveva portarli a Valencia aveva attraccato a Narbona, in territorio franco. Nessuno aveva mai capito se si fosse trattato di un errore o di un’azione intenzionale, dato che, in quel periodo, era guerra tra Re Carlo e il Califfo di Cordoba, una contesa aspra, come sempre lo sono quelle che affondano nelle diversità razziali e religiose le loro radici. Quasi tutti gli uomini della scorta erano stati massacrati, il tesoro della dote saccheggiato e rubato, i pochi superstiti presi prigionieri.

 

Prigionieri, già. Anche se quegli uomini rudi, dalle gran barbe e dai lunghi capelli chiari volevano dar loro a intendere che i principi del Catai, Angelica e Argalia (che stupida mania avevano, gli uomini bianchi, di storpiare i loro nomi e quello della terra dov’erano nati, che era Chung Kuo, e non Catai!) fossero ospiti del loro signore. Da che il mondo è mondo non si è mai visto un ospite tenuto sottochiave e sorvegliato da guardie armate. Re Carlo, un uomo ancor giovane, dalle spalle larghe e dai fluenti capelli fulvi, aveva affidato a un suo vassallo la custodia della principessa, perché niente e nessuno potesse ledere il suo onore, così diceva. Namo, marchese d’Aquitania[3], era un vecchio scorbutico che amava soltanto i suoi cani e non avrebbe sprecato il suo tempo e le sue risorse fisiche e mentali per fare il cascamorto alla splendida, giovane dama giunta dal lontano Oriente. Lui no, anche perché l’età aveva spento i suoi bollori. Ma gli altri… Quasi tutti avevano moglie e figli, eppure poco doveva importargliene. Minuta e delicata come una statuetta intagliata nell’avorio, i capelli corvini sempre puliti, profumati e raccolti in complicate acconciature, una meravigliosa pelle bianchissima, la figura elegante e gli occhi obliqui che mandavano lampi, la principessa del Catai non aveva niente a che vedere con le loro grosse, bionde, lentigginose e sciatte donne. Erano stati in molti a perdere la testa per lei. E Orlando, conte d’Anglante e di Blaye, paladino del Regno Franco e cugino del sovrano, più di tutti quanti gli altri.

 

“La donna del Catai sarà il premio al tuo valore in battaglia,” aveva promesso Re Carlo al più ardimentoso dei suoi generali, e lei aveva udito tutto quanto.

 

La distanza cambia i connotati degli esseri umani, ma evidentemente non quello che hanno nella testa, aveva pensato Han Cheng mordendosi la bocca. Orlando era un uomo alto, magro e forte, nel fiore dell’età. Portava i capelli, che erano bruni e ricci, raccolti sulla nuca con un laccio di cuoio, aveva una lunga cicatrice che gli attraversava la faccia dall’angolo esterno dell’occhio sinistro fino alla commessura delle labbra e poco tempo per darsi una sistemata alla barba fitta e incolta, che cominciava a crescergli appena sotto gli zigomi. Le ricordava un vecchio lupo cacciato dal branco, sempre affamato, circospetto e feroce. Si diceva che fosse abilissimo nell’uso delle armi, che avesse una moglie segregata in uno dei suoi castelli e quattro figli in tenera età. Han Cheng si era sentita spesso bruciare addosso i suoi occhi di brace e aveva giurato a se stessa che si sarebbe ammazzata, piuttosto che lasciarsi toccare da un individuo come quello.

 

Quando s’era accorto che la principessa del Catai parlava l’arabo, il marchese d’Aquitania le aveva messo alle calcagna una sua vecchia schiava saracena, Zubeida, che era guercia da un occhio e più brutta della fame. Ho conosciuto questi e anche la mia gente, ragazza cara, le diceva. Sputava fiele ogni volta che parlava, ma in vita sua doveva averne passate tante e questo giustificava la sua acredine. Sì, i Mori tenevano le loro donne segregate in casa e le obbligavano a coprirsi con lunghi veli quando erano costrette a mostrarsi in pubblico, cosa che i Cristiani non facevano. Ma tra i Franchi era invalsa la consuetudine di caricarle di busse a ogni minima mancanza, di trattarle alla stregua d’una merce e di non farsi scrupolo alcuno a tradirle. Il vecchio Namo, nei suoi anni migliori, aveva mantenuto un’amante sotto lo stesso tetto della moglie e obbligato anche lei, la sua serva, a soggiacergli al pari di una prostituta. Re Carlo non aveva esitato a ripudiare la moglie Ermengarda appena l’alleanza con i Longobardi non aveva avuto più ragion d’essere e, soprattutto, appena aveva avuto modo di conoscere la giovanissima Hildegarde, che di quell’altra era assai più graziosa. Suo nonno, Carlo Martello, il generale che aveva fermato l’avanzata degli Arabi a Poitiers e covava disegni ambiziosi nei riguardi del figlio Pipino, aveva pagato fior di quattrini al conte di Laon perché sua figlia, una bella ragazzona sana e vigorosa di nome Berta, sposasse il suo rampollo, giovanotto intelligente e ambizioso ma dall’aspetto tanto meschino da essere soprannominato “il Breve”, onde rinvigorire il sangue di una progenie destinata a regnare.

 

“Gli uomini son tutti uguali, aveva concluso la vecchia scotendo la testa e Han Cheng aveva assentito. Possono gettarti via appena nata, storpiarti i piedi per impedirti di andare lontano, costringerti a nasconderti sotto pesanti veli, picchiarti, tradirti, scacciarti… Dovevamo nascere uomini, ragazza mia. Però i disegni di Allah erano altri, e non si puo’ andare contro la volontà del Misericordioso. ”

 

Ma Han Cheng di una cosa era sicura: non avrebbe accettato passivamente il suo destino, si chiamasse Orlando o Abd Al Rahman o in qualunque altra maniera.

 

I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO

(parte terza)

La fuga

 

Maximus stava uscendo da lei dopo le terza volta in quella notte, ed Han Cheng sospirò. Chissà se il cane franco, che dormiva istupidito dal succo di papavero nella stanzetta adiacente, aveva sentito i rumori della loro passione e sofferto lo strazio che gli aveva augurato per anni. Perché se An’g Li, il suo adorato fratello gemello, era morto, era stato a causa sua. Ed era giusto che Orlando soffrisse e pagasse, per quel che aveva fatto ad entrambi.

 

- Non hai nostalgia della tua terra, qualche volta? - Le aveva chiesto Maximus, tanto tempo prima. Han Cheng aveva chiuso gli occhi ed evocato con la forza del ricordo le montagne innevate e le foreste rigogliose, i fiumi possenti dalle acque torbide che attraversavano fertili pianure, i bufali che ruminavano nelle risaie, le città fervide di vita e di lavoro, le giunche[4] nei canali, i palazzi dorati di Chang’han. Nostalgia? No. Come posso provare nostalgia… di una prigione?

 

Quando Orlando le aveva afferrato il braccio e sibilato tra i denti un “Sarai mia” che le aveva gelato il sangue, la donna si era resa conto che il tempo stringeva. Anche perché era autunno inoltrato e l’inverno avrebbe complicato terribilmente i suoi piani di fuga.

 

- Se andrai a nord costeggiando le montagne, potrai trovare le terre di Al Khalid, il signore che controlla il passo di Roncisvalle, - le aveva detto Zubeida. - E’ un uomo generoso, sempre disposto ad aiutare chi si trovi in difficoltà, com’era capitato a mio padre dopo la disfatta di Poitiers. Ammesso che sia ancora vivo, perché dovrebbe essere molto vecchio, se così fosse. Ma se lui è morto, l’erede dei suoi beni e soprattutto dei suoi insegnamenti, dovrebbe darti ugualmente l’aiuto di cui hai bisogno.

- Si tratta di un Saraceno?

- No. La mia gente lo chiama così, ma lui dovrebbe essere di sangue basco. I Baschi commerciano con gli Arabi e odiano i Franchi. Sono un popolo selvaggio, indipendente e fiero. E il loro signore era un guerriero audace, astuto e possente. Con lui saresti al sicuro da quell’immondo maiale di Orlando. E anche dallo sposo che non vuoi.

 

Zubeida continuò a parlare senza che Han Cheng l’ascoltasse più. Certo, sarebbe potuta fuggire, magari portandosi appresso suo fratello, ma come eludere la continua, occhiuta sorveglianza del vecchio marchese Namo? Come fare in modo che i superstiti della sua piccola corte potessero seguirla? Non era neppure pensabile abbandonarli lì, esposti alle possibili rappresaglie dei carcerieri che aveva eluso.

 

Ma il destino non le fu nemico, in quella circostanza. Agli inizi di ottobre, Namo d’Aquitania fu colto da un’apoplessia che non lo uccise, ma lo lasciò paralizzato e incapace di articolare parola. E pochi giorni prima era giunta a Tolosa una carovana di mercanti bizantini che dovevano recarsi a Bayonne. A due passi dalle terre di Al Khalid. Curioso, pensò la donna. In arabo, quel nome significava Immortale.

 

I mercanti, ben equipaggiati, scortati e capeggiati da un certo Aristobulo, dietro pagamento di una cospicua somma, avevano accettato di accompagnare fino a Bayonne, alla frontiera del territorio basco, i servitori di Han Cheng. Per prudenza, sarebbe avvenuto tutto di nascosto, ma gli uomini di re Carlo, che stava cercando d’intrecciare un’alleanza con la basilissa Irene[5], non avrebbero di certo perquisito i carri dei Greci alla loro ricerca rischiando l’incidente diplomatico, qualora avessero scoperto la fuga dei Cinesi. Han Cheng e suo fratello, per raggiungere più in fretta il Passo, si sarebbero invece allontanati a cavallo. E così fu.

 

Han Cheng era abituata fin dalla più tenera età a cavalcare come un uomo invece che seduta di traverso sulla sella com’erano solite fare le donne. E cavalcava anche meglio di parecchi uomini, il che permise ai due di garantirsi un cospicuo vantaggio su coloro che, una volta scoperta la fuga, si erano lanciati all’inseguimento.

 

Ma Orlando, conte d’Anglante e di Blaye, suo cugino Rinaldo di Mont-Auban e Astolfo, marchese di Bretagna montavano destrieri veloci come il vento e la muta dei loro limieri erano in grado di seguire piste vecchie di giorni. Li scovarono dopo sette, in una boscaglia a poche miglia da Bayonne. E li catturarono.

 

Li rinchiusero, perché non fuggissero ancora, dentro il capanno abbandonato di un carbonaio, che, a turno, sorvegliavano, mentre gli altri pattugliavano i dintorni. In quella zona spesso erano stati avvistati soldati mori in avanscoperta ed era il caso di premunirsi. Non meno pericolosi dei lupi che infestavano quei boschi erano poi i briganti guasconi, che si dicevano cristiani eppure, in odio ai Franchi, avevano fatto lega con i Saraceni infedeli.

 

- Ti riporterò indietro, dovesse essere l’ultima cosa che farò. Ma prima…

Han Cheng aveva capito a malapena il senso delle parole che Orlando, conte d’Anglante e di Blaye, aveva pronunciato senza staccarle gli occhi di dosso. Ma le intenzioni le aveva capite alla perfezione, prima che con una mano le afferrasse i capelli e con l’altra le lacerasse i vestiti.

- Tu sarai mia.

 

Han Cheng urlò, pur sapendo che a nulla sarebbe servito. Suo fratello tentò di difenderla, ma fu colto di sorpresa prima di poter mettere a segno qualcuno dei colpi della micidiale lotta con mani e piedi che trasformava in armi letali gli esili corpi dei Figli del Cielo. Un pugno sferrato con estrema violenza lo mandò a cadere rovinosamente a terra. E la donna vide con orrore i suoi occhi rovesciarsi all’indietro, il sangue fluire copioso dalle labbra semiaperte e dalle narici. Il conte Orlando aveva ucciso il suo amato fratello An’g Li.

 

Un pensiero rapido come folgore le attraversò il cervello. Farò la sua stessa fine, prima di lasciarmi prendere da lui. Avrebbe resistito. A costo di lasciarsi uccidere.

 

Ma fu Orlando a dover desistere. Astolfo di Bretagna e Rinaldo di Mont-Auban gli furono addosso e lo stesero a suon di pugni.

- Sei impazzito? Disonorando la principessa del Catai ti saresti macchiato irrimediabilmente di fellonia agli occhi di Dio, del tuo popolo e del tuo sovrano.

- E perché… hai ucciso suo fratello?

Sì, il desiderio per quella donna giunta dai limiti estremi del mondo a tormentare il suo corpo, la sua anima e i suoi sogni, di quella creatura della notte, di quella figlia del demonio, l’aveva reso pazzo. La testa gli ciondolava sulla spalla e li fissava con occhi folli mentre lo legavano alla sella del suo cavallo, lo sguardo ebete, un filo di bava mista a sangue che gli colava dalla bocca semiaperta.

 

- E voi…  andatevene. Andatevene lontano da qui, prima che sia troppo tardi.

Astolfo di Bretagna, rivolgendosi a lei in un discreto arabo, le aveva porto il mantello foderato in pelo di volpe. Il suo volto dai tratti puntiti, gli occhi verdi e i capelli rossi facevano sembrare una volpe anche lui.

- Vostro fratello si è dimostrato coraggioso. Avrà onorata sepoltura in questa terra che non ha saputo ospitarlo degnamente. Ve lo prometto sulla mia spada e sul mio onore… Angelica.

 

 

I GIORNI DELLA TEMPESTA E DEL FUOCO

(parte quarta)

Tra i pastori

 

Libera inaspettatamente e con il cuore pesante d’odio e di dolore per ciò che era stato del povero An’g Li, Han Cheng aveva trovato rifugio ed accoglienza presso alcuni pastori che vivevano in quei paraggi. Baschi dalle lunghe barbe incolte, che si difendevano dal freddo coprendosi con zimarre di pelli puzzolenti e dormivano negli stazzi abbracciati ai loro cani, gigantesche bestie dal pelo candido che le ricordavano i feroci mastini dei mandriani del Tibet e le mettevano paura quando abbaiavano con voce cavernosa per tenere lontani dal villaggio gli orsi e i lupi.

 

Nella famiglia che l’aveva accolta c’erano un vecchio semicieco, un gigante dal volto barbuto, sua moglie e una nidiata di bambini dai grandi occhi scuri. La donna era un’araba grassa e remissiva di nome Soraya e le piaceva chiacchierare con la principessa giunta da lontano, mentre preparava la loro magra cena o allattava l’ultimo nato. E Han Cheng non chiedeva di meglio che poter dividere con qualcuno che la capisse il peso che aveva sul cuore.

 

E’ molto lontano da qui il passo di Roncisvalle? Aveva chiesto una volta e Soraya glielo aveva indicato con la mano. No, non distava molto, ma nella brutta stagione la nebbia lo nascondeva e il ghiaccio e la neve lo rendevano insidioso. C’erano un’antica fortezza disabitata, in quei paraggi, e la rocca del signore del luogo, che i suoi conterranei chiamavano Al Khalid e i baschi come suo marito Hilezkor. Immortale.

 

Le scure labbra pendule avevano tremato, mentre pronunciava quella parola. Dicono sia un jinn[6]. Un demone vomitato dall’aldilà e dal passato. Dicono che nelle notti di luna piena si trasformi in lupo e che né spada né veleno né vecchiaia né malattia possano nulla contro di lui. Ma il Profeta ha condannato la superstizione come peccato. L’hai incontrato, qualche volta? Sì, ma ho distolto subito gli occhi da lui, come comanda la creanza. E’ un infedele, dai lunghi capelli e dagli occhi chiari. Un uomo possente, un guerriero.

 

Han Cheng aveva esitato un po’ a raccontare a quella donna gentile tutta la sua storia: le esperienze passate le avevano insegnato a diffidare. Quel posto le era sembrato tranquillo, quella gente buona e ospitale. Ma Orlando sarebbe potuto tornare a cercarla, non era la prima volta che i pastori avvistavano uomini armati sulle colline e non di trattava sempre di guerrieri mori dalle larghe scimitarre, i volti sottili incorniciati dai cappucci di maglia d’acciaio e gli elmi a cupola sormontati della mezzaluna del Profeta. Non era un mistero che Re Carlo volesse estendere anche su quelle terre la sua potestà. E non era un mistero che il cavaliere catafratto[7] che un pastorello aveva avvistato nel bosco potesse essere un guerriero franco, forse addirittura lo stesso Orlando.

 

- Verrà a cercarmi, lo so. Non appena potrà lo farà.

- E voi aspettatelo, Signora. Gli uomini sono creature semplici, in fondo. Dacché esiste il mondo, noi donne abbiamo imparato ad ingannarli. Se gli farete in qualche modo credere che appartenete a un altro… è sicuro che vi lascerà in pace.

- Ma dovrei parlargli… E non voglio neppure vederlo.

 

Da ragazza, Soraya era abituata ad un’altra vita. Figlia di un facoltoso mercante, era stata promessa in sposa a suo cugino ma, prima che il matrimonio fosse celebrato, era caduta prigioniera dei soldati franchi. Riscattata da quello che poi sarebbe divenuto suo marito, non rimpiangeva niente di ciò che aveva dovuto lasciare. Forse i libri che raccontavano storie, visto che sapeva leggere e scrivere. Ma i libri costavano e, anche potendoseli permettere, non avrebbe avuto il tempo di dedicarsi alla lettura.

 

- Ingannatelo, Signora. Recatevi a una fonte che non dista troppo da qui: i cavalieri che passano da queste parti, Saraceni, Franchi e Guasconi, sono soliti abbeverarci i loro cavalli e rinfrescarsi il volto e le mani. Ci sono rocce che si incidono con facilità, tutt’intorno… Scrivete qualcosa che gli ricordi voi… E poi qualcosa che possa fargli credere con certezza… che appartenete a un altro.

 

Forse il conte Orlando, come molti gentiluomini franchi, come lo stesso Re, non era neppure in grado di leggere, ma la donna sapeva per certo che conosceva il suo monogramma. Nel caso, si sarebbe incuriosito e avrebbe chiesto a qualcuno di farlo al suo posto. A Han Cheng, promessa fin da bambina al Califfo di Cordoba, era stato insegnato a parlare e a scrivere l’arabo e fu in quella lingua che incise le parole che avrebbero dovuto non solo disingannare, ma anche ferire il conte d’Anglante e di Blaye.

 

“Ti ho tenuta nuda tra le braccia. Ho assaporato le fragole scure dei tuoi seni, Han Cheng, mia amata. Ho lambito il tuo miele di donna, penetrato il tuo calore…”

 

Non era mai appartenuta a un uomo, ma era stata debitamente istruita a proposito di quel che succede tra due amanti e non aveva dubbio alcuno che quelle parole sarebbero penetrate come aghi infuocati nell’anima di colui che tanto odiava. Che nome, che identità dare a quell’essere fittizio? Un’identità saracena, questo era fuori da ogni minimo dubbio. Qualche giorno prima, Soraya le aveva raccontato di un suo fratellino morto piccolo. Si chiamava Mohamed Hor.

 

Se dovessero chiedervi di lui, inventate qualsiasi storia. Dite che la sua bellezza e il suo animo gentile hanno colpito il mio cuore. Che sono fuggita con lui. Che ci stiamo dirigendo verso Oriente.

 

 

MOHAMED HOR

 

Il ringhio sordo di uno dei grossi cani che la seguivano la fece voltare, prima ancora che Orlando, conte d’Anglante e di Blaye l’afferrasse per un braccio e le sibilasse, in un arabo stentato: “E’ lui… Mohamed Hor?”

 

Era magro, pallido, con la barba incolta e gli occhi stravolti. Se era guarito, non lo doveva a qualche miracolo, come credeva, bensì alla scienza di Kai Ge. Lo avessero lasciato morire, lui e Maximus, maledetta fosse la loro generosità. Se ne sarebbe andato. Stava per andarsene. Ma sarebbe tornato. Presto. A portare in quella valle scompiglio, distruzione e morte.

 

- Mohamed Hor non è mai esistito: me lo sono inventato perché mi lasciaste in pace una volta per sempre… Signore.

 

Han Cheng aveva riso. Mohamed Hor e il Signore della Rocca che guardava il Passo, colui che i Saraceni chiamavano Al Khalid e i baschi Hilezkor non erano la stessa persona. Del resto, per chi avesse qualche conoscenza delle cose di mondo, non sarebbe stato difficile appurare che quell’uomo chiaro di capelli, d’occhi e di carnagione non poteva essere un Arabo. Ma che fosse l’amante della donna era fuori da ogni ragionevole dubbio… E questo gli rodeva il cuore.

Era maledettamente bella, Angelica, quando rovesciava la testa all’indietro e rideva. Bella da dannare l’anima e portare un uomo alla pazzia. Com’era accaduto a lui.

 

I cani le trotterellavano a fianco, voltandosi di tanto in tanto a guardarla con i loro nostalgici occhi ambrati. Erano coperti da un pelame candido e folto e portavano pesanti collari irti di punte. Il maschio, gli aveva detto Maximus, si chiamava Draco. La femmina, Puella[8]. Nomi latini. Il latino era l’antica lingua del popolo che aveva dominato il mondo, le aveva spiegato ben prima di dirle che di quel mondo splendido e crudele anche lui aveva fatto parte. Nel bene e nel male.

 

Han Cheng non aveva mai amato particolarmente i cani. La sua gente li mangiava e quelli che venivano tenuti per la caccia, la guardia e la guerra erano talmente grossi e feroci da incutere terrore. Maximus, invece, li amava e si dimostrava orgoglioso di loro, quando ne parlava, neanche si fosse trattato dei suoi figli. I miei cani, le aveva raccontato, possono saltare alla gola e uccidere un uomo. Anzi, forti come sono, potrebbero abbattere un bue. Orsi, lupi e briganti non osano avvicinarsi ai luoghi dove questi colossi al mantello candido montano la guardia. Ma non sono feroci senza ragione, perché sanno per istinto di chi possono fidarsi. E poi… I cani di questa razza vengono addestrati a portare soccorso ai viandanti che, d’inverno, finiscono sepolti sotto la neve rischiando di morire assiderati. Proprio com’è accaduto a te.

 

Già, com’era accaduto a lei quando, per l’ennesima volta, era fuggita. Nel bosco erano stati rinvenuti i cadaveri di due giovani guerrieri mori. Avevano il petto trafitto dalle frecce rosse degli arcieri di Orlando, conte d’Anglante e di Blaye. Se il suo persecutore si trovava nelle vicinanze, anche la vita dei suoi amici era in pericolo. Doveva fuggire, e farlo di nascosto, perché era novembre inoltrato, e non l’avrebbero lasciata andare. “Che male possono fare a noi poveretti?” era solita dirle Soraya con un mezzo sorriso. “Derubarci? E di che cosa se non possediamo nemmeno la polvere che imbratta i nostri piedi?” Lei aveva stipato i suoi pochi averi in una bisaccia, rubato un bastone e una zimarra di pelo e all’alba, mentre tutti dormivano, se n’era andata.

 

Il freddo e la solitudine non le avevano fatto apprezzare la libertà che aveva conquistato. Aveva trascorso due notti nei capanni abbandonati che i pastori utilizzavano al tempo della transumanza, e gli urli dei lupi erano talmente vicini da agghiacciarle il sangue. Chissà, si era domandata, se i suoi amici l’avevano cercata. Prima di andarsene, accanto al pagliericcio dove Soraya dormiva abbracciata ai suoi figlioletti, aveva lasciato il prezioso, pesante e pacchiano bracciale franco con cui il conte Orlando aveva creduto di poter comprare il suo amore.

 

I cani che l’avevano ritrovata mentre giaceva svenuta nella neve non erano quelli che adesso le trotterellavano accanto, anche se portavano i loro stessi nomi. Queste creature vivono troppo tempo in meno di noi, e la crudeltà della natura ci costringe a vederli morire. Più sono grossi, poi, e più in fretta invecchiano e decadono. Un brivido aveva rotto la voce profonda di Maximus, riempito delle lacrime che non poteva piangere le sue parole. I nostri fedeli compagni non meritano questo destino, ma saremmo sicuramente più poveri se non potessimo averli con noi.

 

Quante cose aveva fatto per lei quell’uomo splendido e generoso, il cui bel volto era stata la prima cosa che aveva visto quando era ritornata a vivere? L’aveva nascosta e protetta, ricongiunta ai suoi servi, risarcita di quel che le era stato portato via. Le aveva insegnato l’amore e non aveva esitato a raccontarle tutto di sé: anche se sapeva che farlo avrebbe significato quasi sicuramente perderla.

 

Sapeva che avrebbe dovuto lasciarla, quando la donna fosse giunta a conoscere la verità. Anche con il cuore a pezzi. Non poteva pretendere che vivesse un’esistenza normale accanto a un fantasma, a un non morto che avrebbe avuto, finché fosse sorto il sole sul mondo, i trentatré anni di quando era stato ammazzato, mentre lei… Peste, ferro, fuoco, disgrazia o veleno avrebbero potuto portargliela via in qualunque momento, e anche se fosse vissuta a lungo… Sarebbe stato costretto a guardarla decadere e poi morire senza poter far nulla, come i suoi cani e i suoi cavalli? E poi… Tutte le donne desiderano avere dei figli. E a lui era misericordiosamente negato il dolore di sopravvivere a un figlio generato con una donna mortale. Hai mai incontrato qualcuna che fosse come te? Gli aveva domandato Han Cheng. Lui aveva accennato di sì con la testa. Era una maga. Una creatura profondamente malvagia[9].

Non sperava di poterla ritrovare. Per giacere tra le sue braccia dimenticando chi fosse, per dargli e ricevere piacere, come la prima volta. Era vergine, ricordò. Eppure, aveva saputo soddisfarlo con la consumata abilità di un’etera e tutto il fuoco di un’amante appassionata. Suo padre aveva preteso che una cortigiana le insegnasse l’arte di amare, perché l’uomo a cui era stata destinata non avesse di che lamentarsi: Abd Al Rahman, il Califfo di Cordoba. Dal primo momento in cui l’aveva vista, svenuta e mezza assiderata, aveva saputo chi era. Al Califfo era stata promessa in moglie una principessa proveniente dal Paese della Seta. Lui, in questa e nell’altra vita aveva già visto i corpi minuti, la pelle diafana e le iridi d’ossidiana scintillanti tra i lunghi tagli obliqui degli occhi di quella gente. E aveva intuito come Han Cheng fosse in fuga dal suo destino.

 

- Tu sai perché il cavaliere franco, prima di andarsene, mi ha chiesto se il mio nome fosse… Mohamed Hor?

 

Sul mio conto non ti ho raccontato la verità per intero, gli aveva risposto lei. Quando mi hai trovata ai piedi del passo più morta che viva ero in fuga dal mio destino. Dalle nozze con qualcuno che neppure conoscevo, sì… Ma anche da quell’uomo. Da lui, soprattutto. Con i pochi superstiti della mia scorta, ero caduta prigioniera dei Franchi. E lui, il cui nome è Orlando, conte d’Anglante e di Blaye, si era incapricciato di me. Mi voleva ad ogni costo. Il suo re gli promise che mi avrebbe avuta se si fosse battuto valorosamente contro gli infedeli. Neanche fossi stata una cavalla o una schiava, invece di ciò che sono. Così fuggii dal vecchio gentiluomo a cui mi avevano affidata in custodia. Ma lui mi inseguì, mi catturò… Tentò di stuprarmi e uccise mio fratello che aveva cercato di difendermi. Trovai rifugio presso alcuni pastori e fu una delle loro donne a suggerirmi di incidere su una roccia presso una sorgente frasi d’amore che l’avrebbero indotto a credere che appartenevo a un altro. Così te lo toglierai da torno, mi aveva detto. Mohamed Hor… Me lo sono inventato. Anzi, era il fratellino di quella donna, ed è morto in fasce.

 

Maximus se la strinse al petto. Allora è per questo, le chiese, che hai voluto ad ogni costo fare l’amore con me nel cubicolo adiacente alla stanza dove l’avevamo ricoverato… Perché sentisse tutto e le grida e i gemiti della nostra passione fossero lame roventi cacciate fino all’impugnatura dentro il suo cuore? Credevo che mi amassi… M’ingannavo, Han Cheng?

 

- No, Maximus. Chiunque tu sia, qualsiasi cosa possa nascondersi nel tuo passato, non ho mai conosciuto un uomo più buono, onesto, retto e generoso di te. Io… Io ringrazio ogni giorno la vita d’aver permesso alle nostre strade di incrociarsi. Perché… perché ti amo, Maximus: adesso e per sempre.

 

Lui le sollevò il mento, costringendola a guardarlo in faccia. E i suoi scintillanti, impenetrabili occhi neri non mentivano.

 

 

MALA TEMPORA CURRUNT

 

Versante spagnolo dei Pirenei, Anno Domini 778, inverno inoltrato

 

Han Cheng guardò l’uomo addormentato accanto a lei. Avrebbe voluto accarezzargli la guancia barbuta, ma si trattenne. Aveva passato una brutta notte, e non voleva svegliarlo. Non era la prima volta che i suoi incubi non gli permettevano di dormire e avevano svegliato anche lei, lasciandole intuire frammenti di quel lontano passato durante il quale era stato un grande generale al servizio del più potente sovrano della terra, per poi cadere in disgrazia alla sua morte e finire schiavo.

 

Le cicatrici lo testimoniavano: quelle, e il marchio impresso sotto la scapola destra con un ferro rovente. Chi e che cosa ti hanno perduto, Maximus? E chi ha riportato la tua anima indietro dall’aldilà? Gliel’aveva domandato, tanto tempo prima, con un tono e uno sguardo che non si sarebbe aspettato. In molti lo avevano fuggito, una volta saputa per certa quella verità che sembrava una menzogna. Ma non lei: in quegli stretti occhi color della notte, l’Immortale aveva letto solamente pena e tenerezza. Non poteva condannare quella donna all’infelicità… Ed era uscito dalla sua vita, ne era rimasto fuori per alcuni anni, per poi ricomparire quando avevano portato il Conte Orlando da Kai Ge perché lo curasse.

 

Che cosa mi ha perduto? L’onestà, Han Cheng. Il senso dell’onore e del dovere.

 

Quello che gli faceva portare rispetto per chiunque avesse in sé vita e respiro, compresi gli animali? Compresa lei, che il caso aveva condotto lì da mondi lontanissimi e che tutti gli altri, compresi coloro nelle cui vene scorreva il suo stesso sangue, avevano considerato solo un bell’oggetto, una merce di scambio, il premio finale al valore di un guerriero, il varco umido e caldo nel quale cercare il piacere per il piacere? Lo pensò, Han Cheng, mentre la debole fiamma della lucerna illuminava il suo grande corpo supino, il braccio muscoloso con cui se la stringeva al petto, mentre l’altro pendeva fuori dal materasso, e la lingua calda del suo gigantesco cane bianco gli lambiva la mano.

 

Me ne vado, le aveva detto, perché non potrei offrirti una vita normale. Perché forse vuoi dei figli, e io…

 

L’aveva sentito urlare nel sonno parole incomprensibili in quella che era la sua lingua madre. Sogno spesso quel che ho vissuto, la rovina della mia casa, le aveva detto, e la morte dei miei cari. Di mia moglie e di mio figlio. Non ero con loro quando gli scherani del turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo, usurpatore e parricida, li massacrarono. L’onore e il dovere mi avevano trattenuto lontano… Quanti ne hanno uccisi, l’onore e il dovere, e a che pro?

 

Mala tempora currunt. Ci aspettano brutti tempi. Forse aveva ragione Osman, il cavaliere di Re Carlo d’Heristal, Orlando conte d’Anglante e di Blaye, sarebbe ritornato. E non da solo. Per portare distruzione, rovina e morte nel suo piccolo mondo quieto, senza che lui potesse far nulla per fermare l’ineluttabilità del destino. Come un mare di anni prima. Come negli incubi che popolavano le sue notti. Perché lui si sarebbe salvato e coloro che gli erano cari no. Anche questa volta.

 

GANO

 

Il cavaliere si tolse il lungo mantello bordato di pelliccia, i guanti e la spada e li porse al servitore di colui che gli stava davanti: il Signore della Rocca e del Passo, colui che i baschi chiamavano Hilezkor e i Mori Al Khalid: l’Immortale.

 

Vengo in pace, gli aveva detto. Perché non pensasse che la visita di quell’uomo, uno dei paladini di Re Carlo, nascondesse oscuri secondi fini. E lo guardò cercar di calmare carezzando le loro grosse teste i cani che, sdraiati ai piedi della sua sedia, non avevano cessato un attimo di emettere dalle gole un cupo, minaccioso brontolio.

 

- Accomodatevi, messere. - Gli disse con asciutta cortesia. Quindi ordinò al servitore di portare pane, formaggio, due coppe e un recipiente di vino caldo. Qualche sorsata lo avrebbe rinfrancato, dopo il viaggio che doveva essere stato lungo, faticoso e pericoloso. Erano gli ultimi di marzo e, sulle montagne, l’aria era ancora molto fredda. Dovevano essere urgenti e impellenti i motivi che l’avevano spinto ad affrontarlo senza stare ad aspettare l’arrivo di una stagione più clemente.

 

L’ospite aveva il viso scavato, i denti smozzicati e ingialliti, e i capelli grigi. Non doveva trattarsi di un uomo ricco, le sue armi erano ossidate, l’abbigliamento ordinario sia nella foggia che nei tessuti, le calzature logore e risuolate più volte, la pelliccia che gli orlava il mantello vecchia e tarlata. Era strano, considerato come i nobili franchi ci tenessero a mostrare anche attraverso vistosi segni esteriori la loro appartenenza a una condizione sociale privilegiata. E circa il fatto che quello fosse un gentiluomo non potevano esserci dubbi. Neppure prima che si presentasse.

 

- Gano, conte di Magonza.

 

I cani ai piedi del Signore della Rocca non avevano cessato un istante di ringhiare, e il conte Gano fu grato al servitore quando costui, su ordine del padrone, li portò via. Specialmente dopo che il maschio, una creatura enorme rivestita da un sontuoso mantello completamente bianco, aveva arricciato il muso in espressione di minaccia, mostrandogli denti aguzzi e lunghi come pugnali.

 

- Magnifiche bestie. Non avevo mai visto cani così grossi. Vi seguono nella caccia?

 

Il Signore della Rocca gli sorrise. No, sono le mie guardie armate. Rispose. E sono addestrati a salvare i viandanti dispersi nella neve.

 

- Non amate la caccia, messere?

- Non trovo giusto far strage di animali solo per dimostrare di possedere coraggio e una buona mira. Io uccido per procurarmi il cibo. O per difendermi. Esattamente come loro. Della mia mira e del mio coraggio, che gli altri la pensino come vogliono.

 

Nessuno aveva mai sindacato sul coraggio di un lupo, di un orso o di un’aquila, si ritrovò a pensare Gano, conte di Magonza. Il Signore della Rocca era molto più giovane di lui, trenta, trentacinque anni al massimo. Vestiva completamente di nero e l’unico gioiello che portava era un anello al medio della mano destra, un’aquila d’argento con le ali spiegate che sembrava e forse era di quelli che venivano rinvenuti nelle tombe romane. Le sue mani grandi, forti e callose, le sue unghie smozzicate sembravano appartenere più a un contadino che a un gentiluomo. Dallo scollo della tunica faceva capolino una zanna di lupo appesa ad un lacciolo di cuoio. Eppure, non c’era niente che potesse dirsi modesto e ordinario, in lui. Aveva una folta, magnifica zazzera leonina che gli ricadeva sulle spalle incorniciandogli un viso di rara bellezza. I lineamenti delicati erano incrudeliti dai grandi occhi felini, tra il verde e l’azzurro, e da una barbetta quasi bionda. Gli abiti pesanti che portava lo difendevano dal freddo senza nascondere la muscolatura potente, la brutale energia del suo corpo gagliardo. E la voce era bassa, cupa e vibrante come la corda tesa di un grande arco. Nessun uomo che avesse mai conosciuto, pensò, possedeva il suo fascino e il suo carisma. Nemmeno Re Carlo.

 

- Perché la gente di queste parti vi chiama Immortale?

 

L’uomo aveva riso, mostrandogli i denti candidi e squadrati tra le labbra anche troppo delicate in un volto tanto virile. Sembra, gli rispose, che nella mia famiglia gli antenati abbiano sempre trasmesso ai discendenti, oltre al nome e al titolo, le stesse caratteristiche fisiche: corporatura robusta, tratti regolari, occhi azzurri, voce tonante. Da queste parti, la gente è superstiziosa e ha fatto in fretta a mettere in giro certe dicerie strane.

 

- Qual è il vostro nome, messere?

- Maximus.

- Maximus… Il più grande.

- Conoscete il latino, messere?

- Ero il terzo figlio maschio, destinato a diventare prete. La morte dei miei fratelli maggiori ha scombussolato i piani di mio padre.

- Ma in grazia di ciò siete uno dei rari gentiluomini franchi che sappiano leggere, scrivere e conoscano il latino.

- La faccenda mi ha portato meno vantaggi di quel che potreste credere. A un gentiluomo si richiede di saper cavalcare, maneggiare le armi… E soprattutto di saper uccidere a sangue freddo.

- Allora Dio, la Patria e il Re… Sono dei semplici alibi, forse?

 

Lo sguardo del conte di Magonza sfuggì il suo, dando al suo interlocutore modo di pensare che i suoi cani avessero ragione a ringhiargli contro. Dovevano aver fiutato la puzza dell’assassino e del traditore, pensò. Ma gli altri cavalieri franchi, coloro che avevano massacrato i genitori e distrutto la casa del giovane Osman, coloro che avevano inseguito Han Cheng come una preda non erano certo migliori di lui.

 

- I boschi qui intorno devono pullulare di selvaggina.

- Dettaglio di cui a chi non ama la caccia poco importa.

- Lascereste allora vivere anche gli animali nocivi? I lupi, i gipeti[10], gli orsi e le volpi?

- Il mondo è abbastanza grande per tutti quanti, messere.

- Eppure, per salvare da morte certa una persona che conosco bene, l’anno passato non avete esitato a uccidere un’orsa.

- Come gli animali, io uccido per difendere me e gli altri, mi sembra di avervelo già detto. E che ci crediate o no, la sorte dei cuccioli rimasti soli ha tormentato per parecchi giorni i miei pensieri.

 

La carne dei cuccioli d’orso è tenera e delicata. La loro pelliccia calda e morbida… E’ un tipo ben strano questo… Hilezkor. Immortale. Ricusa l’arte della caccia e rispetta gli animali quasi che fossero esseri umani. E malgrado non sia che un lurido capraio basco, si porta dietro un solenne nome latino e modi da gran signore. Aveva pensato il cavaliere, prima di continuare.

 

- Il conte d’Anglante e di Blaye vi è grato di quel che avete fatto per lui.

- Semplicemente ciò che il dovere e l’onore mi imponevano.

- Il conte Orlando è… mio figlio.

 

Gli acuti occhi chiari del Signore della Rocca lo squadrarono dalla testa ai piedi. Suo figlio? Come poteva millantare per vera una simile assurdità? Per quanto sembrasse più vecchio della sua età, quel gentiluomo poteva avere al massimo otto, dieci anni in più del conte Orlando. Perché gli mentiva così spudoratamente? L’aveva forse preso per stupido?

 

- Scusatemi, messere, non era mio intento prendermi gioco di voi. Il conte è figlio di primo letto di mia moglie. Io sono solamente il suo patrigno. Fu Re Carlo in persona ad ingiungermi di sposare sua sorella, che era vedova e aveva un figlio già grande… Non l’amavo. Anzi, ero legato da promessa a un’altra donna. Ma da quel matrimonio avrei tratto grandi vantaggi e ubbidii senza fiatare agli ordini del mio signore, sposai quella vecchia, mi accollai il suo presuntuoso marmocchio, che aveva solo otto anni in meno di me… Ero un piccolo nobile spiantato e diventare cognato del re dava foraggio alla mia ambizione, che era molto più grande del potere e delle ricchezze di cui disponevo… Se siete uomo di mondo dovreste comprendermi, messere.

 

- Non avrete affrontato un viaggio lungo e difficile, deciso di incontrare un uomo di cui il vostro sovrano, ci giurerei, non si è mai fidato completamente… solo per raccontarmi i vostri problemi familiari, messere.

 

L’imbarazzo lo fece arrossire, evidenziando il reticolo delle venuzze violacee sulle guance scavate e sul naso adunco del conte Gano.

 

- No, messere. E’ per la donna. Per Angelica, principessa del Catai: la vostra prigioniera.

 

- Han Cheng non è mia prigioniera: ha scelto di sua spontanea volontà di fermarsi qui. - Rispose Maximus scandendo bene le parole, senza levargli di dosso lo sguardo fiammeggiante. - Avanti, ditemi, che cosa volete da me? E che cosa vogliono Re Carlo e il vostro figliastro?

 

- Orlando si è incapricciato di quella donna e…

 

Tutto d’un fiato, il conte di Magonza gli disse che la campagna contro gli Arabi in programma per quell’estate avrebbe avuto una coda a Roncisvalle. Orlando voleva riprendersi Angelica. Costasse quel che costasse.

 

- E qual è il prezzo del tuo tradimento, fellone?

 

Gano non rispose, ma il suo sguardo basso diceva più di mille parole. Non era venuto a barattare con l’oro le sue rivelazioni, gli interessava soltanto che l’odiato figliastro non uscisse vivo dall’inferno di Roncisvalle.

Maximus lo guardò allontanarsi, le spalle curve, gli occhi a terra. Non fece niente per fermarlo: sarebbe stato il suo stesso re a giudicarlo e ad emettere la sentenza. Morte. I suoi polsi e le sue caviglie sarebbero stati legati a quattro robusti cavalli che i carnefici avrebbero incitato a fuggire in direzioni diverse. L’erba del prato avrebbe bevuto il suo sangue, raccolto le sue viscere e le sue membra squartate. Era quello il destino dei traditori.

 

 

L’ULTIMO DUELLO

 

Passo di Roncisvalle, 15 Agosto 778

 

Con le gambe malferme e lo sguardo velato dal sangue e dalle lacrime, Orlando si era piantato nel bel mezzo della piccola spianata. Il terreno tutt’attorno brulicava di cadaveri. I corpi dei suoi, sorpresi nella stretta gola di Roncisvalle dalle micidiali frecce degli arcieri baschi. Dagli uomini di colui che i Mori chiamavano Al Khalid e i Guasconi Hilezkor: l’Immortale.

 

Ben pochi di quei cani giacevano morti o feriti sul terreno e i lamenti che si mescolavano al frinire delle cicale, ai nitriti dei cavalli in agonia e ai gracchi dei corvi erano imprecazioni o invocazioni, cosa non importava, nella lingua in cui aveva imparato a parlare. Ho sete. Non voglio morire. Che siano per sempre maledetti… Pietà dell’anima mia, Signore.

 

Sono l’unico sopravissuto a quest’inferno, pensò il conte d’Anglante e di Blaye stringendo forte l’elsa della spada. Era tormentato dal caldo, dalla sete, da una dolorosa ferita alla spalla sinistra che lo aveva costretto ad abbandonare lo scudo e da uno squarcio al cuoio capelluto dal quale il sangue colava sugli occhi, offuscandogli la vista. Quel demonio di Hilezkor lo aveva colpito con un fendente della sua scimitarra, quando il caldo lo aveva spinto, poco prudentemente, a liberarsi dell’elmo. E l’avrebbe ammazzato, non avesse avuto la testa protetta dal cappuccio di maglia d’acciaio.

 

Aveva trovato qualcuno degno di stargli alla pari, pensò stringendo le labbra fra i denti. Quel marrano[11] dagli occhi e dai capelli chiari che si era rivestito con l’armatura dei Mori e brandiva una scimitarra saracena si batteva come un diavolo. E lo guardava fisso, la fronte, le guance e il naso nascosti dall’elmo moresco istoriato che rendeva il volto dei guerrieri infedeli simile ad un teschio, all’iconografia della Morte affrescata sulle pareti delle chiese.

 

- Arrendetevi e avrete salva la vita, conte di Blaye.

 

Arrendermi? Tu sei pazzo, cane di un infedele traditore. Sei pazzo a credere che chi appartiene alla razza destinata a dominare il mondo possa arrendersi a una nullità come te. Durendal, la mia spada consacrata alla difesa della vera fede di farà a pezzi…

 

Hilezkor guardò il corno da caccia che il suo avversario portava appeso alla schiena. Suonalo, gli aveva detto. Suonalo, e chiama in aiuto la retroguardia del tuo esercito. Chiama il tuo re e tutti coloro che hanno osato impugnare Dio come una clava per sterminare i loro nemici affinché vedano… Perché Dio è una scusa… Una scusa per occupare le nostre terre libere. Una scusa per portarti via la donna su cui hai posato gli occhi, e che preferirebbe morire piuttosto che arrendersi a te.

 

Orlando brandì la spada e gli si lanciò contro.

- Con questa ti ricaccerò in gola le tue bestemmie.

 

Un arciere basco aveva incoccato la sua freccia, teso la corda dell’arco, pronto a colpire. Ma il suo signore lo fermò, nonostante la punta dell’arma di Orlando gli pungesse la gola scoperta.

 

- A quale idolo falso e bugiardo hai consacrato il tuo braccio e la tua spada, nemico di Dio? Parla, prima che con questa cacci la tua anima nel profondo dell’inferno…

 

- Al solo valore a cui, onestamente, sia possibile consacrare un’arma il cui scopo è quello di uccidere e un braccio addestrato a guidarla: alla libertà.

 

- Prega il tuo Dio, chiunque esso sia…

 

Il mio Dio, pensò l’Immortale, era quello dei Cristiani sbranati dalle belve negli anfiteatri. E adesso è quello del vecchio ebreo scacciato a sassate dalla città dov’è nato e cresciuto. E’ quello del mio amico Osman a cui avete distrutto la casa e sterminato la famiglia. E’ l’Irminsul[12] dei Sassoni, che il tuo re e signore costringe con la forza a convertirsi. E’ quello di questa gente, per cui la libertà è vitale come l’aria, l’acqua e il cibo…

 

Orlando cadde all’indietro, trafitto al ventre dalla spada di Hilezkor. Chi sei? Gli domandò mentre il mondo intorno a lui dileguava e la nebbia che lo immergeva andava facendosi più fitta e scura.

 

Massimo Decimo Meridio, nato nell’Anno Novecentesimo dalla Fondazione di Roma a Tergillium, nella provincia senatoria dell’Hispania Baetica regnante il Cesare Lucio Aurelio Antonino Pio. Contadino, soldato, generale, schiavo, gladiatore e regicida. Sopravvissuto alle asce e ai dardi dei barbari Germani, alla spada del carnefice, ai mozzi falcati di un carro da guerra, ai duelli nell’arena, agli artigli di una tigre e al pugnale di un tiranno. Sopravissuto all’odio… E all’amore. Gli sussurrò stringendogli le mani intorno all’elsa della sua spada Durendal, come se fosse stata una croce. Avrai degna sepoltura, Orlando, conte d’Anglande e di Blaye. Te lo prometto, da uomo d’onore.

 

 

FINE

Lalla, 23 giugno 2003

 

 

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[1] Questo personaggio compare nell’”Orlando Innamorato” di Matteo Maria Boiardo con il nome di Argalia che ho, come quello di Angelica, “cinesizzato” per questioni di coerenza narrativa.

[2] Titolo di cui si fregiava l’Imperatore della Cina.

[3] Nei poemi cavallereschi questo personaggio è designato come duca di Baviera. Ho cambiato il suo titolo e la sua signoria per le solite questioni di coerenza narrativa.

[4] Case barca del pescatori cinesi

[5] Si tratta (come nel caso del califfo Abd Al Rahman) di un personaggio realmente esistito. Vedova dell’imperatore d’Oriente Leone IV, assunse alla sua morte la reggenza, nell’attesa che l’ erede al trono Costantino raggiungesse la maggiore età. Una volta che questo accadde, rifiutò di cedere i poteri al figlio e l’Impero fu funestato da crudeli lotte dinastiche e religiose.

[6] Spirito maligno.

[7] Cavaliere rivestito da una pesante armatura.

[8] In latino, rispettivamente Drago e Ragazza.

[9] Chi fosse curioso di saperne di più, può leggere il mio racconto “Gli Immortali”.

[10]  Grosso rapace particolarmente temuto dai pastori perché gran divoratore di carne ovina. E’ infatti noto anche come avvoltoio degli agnelli.

[11] Apostata. Erano così definiti gli Ebrei che, costretti a convertirsi al cristianesimo, continuavano di nascosto a praticare la vecchia religione.

[12] Albero sacro.