Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 Massimo l’Immortale

CROCE DEL SUD

Parte seconda

IL FIGLIO DELLA TIGRE

Questo racconto è dedicato alla memoria di Emilio Salgari, colui che fece sognare intere generazioni di ragazzi e morì povero, solo e disperato.

 

Prologo

 

 

Mar di Timor, novembre 1860

 

Era certo che sarebbe finita, ma quando? Si era domandato mentre la sua zattera, sbatacchiata dai marosi, andava in pezzi e, sotto di lui, le acque trasparenti svelavano le sagome affusolate degli squali. Lo fuggivano, come se quelle creature da incubo avessero compreso la reale entità della sua natura, e lo temessero, a ragion veduta. Ma la vita senza fine non gli evitava comunque la sofferenza e per quanto ancora il destino gli avrebbe chiesto di stringere i denti e di sopportare? Le mani spaccate dalla salsedine scivolavano lungo i tronchi scabri, sulle liane gonfie d’acqua che a malapena li tenevano insieme. Non aveva lavorato più di quindici, venti giorni, per approntare quell’imbarcazione di fortuna che avrebbe dovuto portarlo via dall’inferno della colonia penale di Norfolk. Per sempre.

 

Chiuse gli occhi. Allo stesso modo in cui li avevano chiusi i suoi carcerieri, pensò, e, pur in quelle condizioni, gli venne spontaneo sorridere. Scappa con la tua maledetta zattera. Scappa pure, e crepa. Così ci sarà un mascalzone in meno sulla faccia della terra. Ma di lui non sapevano quasi niente, quegli uomini abbrutiti come e più dei deportati che sorvegliavano: un americano grande e grosso, reo d’aver accoppato, scannandolo con un paio di forbici da lavoro, il marito della sua amante. Il giudice gli aveva dato trent’anni.

 

Pensare. Gli riusciva ancora, malgrado la sete e il dolore che la pelle bruciata dal sole, dalla salsedine e dalle meduse gli cagionavano. Pensare per non cedere alla disperazione, per rassicurarsi che sarebbe finita. Presto o tardi. Di quello, era la stessa entità della sua natura a fornirgliene la certezza. Pensare…Ai suoi ideali traditi dalle ingiustizie, agli occhi tristi e rassegnati di Dora, al sorriso radioso di Bindi, che aveva la stessa età di suo figlio. Di quel figlio che gli avevano ammazzato, un mare di secoli prima.

 

Chiuse gli occhi, inghiottì a fatica l’arsura della sua gola. Aveva contato i giorni e le notti: sette ne erano passati. Sarebbe finita, lo sapeva. Ma quando?

 

SUL PANFILO

 

E’ finita. Si disse da sé solo. Lo sapeva, e non gliene importava più niente di quanto tempo fosse passato, e neppure di dove si trovasse, in quel momento. Si trattava sicuramente di una nave e non della terraferma, il leggero beccheggio glielo aveva lasciato capire ben prima che la luce del sole, attraverso un piccolo oblò, inondasse la lussuosa cabina dove lo avevano sistemato. Si sollevò sui gomiti, guardando in basso notò la sanguisuga attaccata al petto. Se la strappò via e la gettò imprecando sul ricco tappeto persiano steso ai piedi del letto. Non si erano limitati a soccorrerlo, lo avevano anche curato: la sanguisuga per succhiar via gli umori cattivi dal suo corpo, l’olio di cocco per calmare il bruciore feroce della sua pelle. Ne sentiva l’aroma dolciastro indugiargli in gola, come il puzzo di ferro caldo, olio minerale e carbonella che bruciava. E dedusse di trovarsi su una nave a vapore, non su un veliero.

 

Si alzò dal letto, si stiracchiò facendo schioccare le ossa indolenzite della schiena. La testa gli girava ancora un po’, ma tutto il resto era a posto. Anche le ustioni. Anche le vesciche provocate dalle meduse e i morsi dei pesci. Presto, pensò, chi lo aveva soccorso gli avrebbe posto delle domande. Domande che esigevano una risposta plausibile. Una risposta che avrebbe fatto bene a cercare, e senza por tempo in mezzo.

 

La cuccetta era arredata con un lusso eccessivo e barocco, che faceva pensare alle stanze segrete dell’harem di un gran signore orientale. Oro, argento, seta e broccato, grandi cuscini arabescati sparsi per ogni dove. Ai piedi del basso letto, abiti puliti sicuramente destinati a lui. Li indossò. I calzoni neri di nanchino, i famosi jodhpur dei gentiluomini indiani, erano così stretti da rasentare l’indecenza. L’impalpabile casacca di seta bianca senza colletto disegnava la sagoma atletica della metà superiore del suo corpo, il torace ampio, le spalle massicce. Completavano il tutto un giacchino corto di damasco senza le maniche e una fusciacca rossa da drappeggiare intorno alla vita. Le calzature erano comode. In tutta la sua vita, non ricordava di aver mai posseduto un paio di stivali come quelli. Morbidi, leggeri e confortevoli, non stringevano i suoi grossi piedi come aveva temuto. Avevano la punta appena rialzata, all’uso moresco. Come tutto quanto il resto, pensò lisciandosi i vestiti, e contemplando con aria compiaciuta quel che il grande specchio incorniciato d’oro massiccio rimandava indietro: non male, per uno che, in un passato recentissimo, era stato un forzato puzzolente e un naufrago disperato. Si ripromise di ringraziare anche di quello chi lo aveva soccorso: un nawab[1] o un rajah[2] con il quale sarebbe stato costretto a intendersi a gesti, pensò. Per un’ultima volta, si sorrise nello specchio, quindi prese dal vassoio la tazza di tè fragrante aromatizzato al cinnamomo e lo sorseggiò con piacere. Un tè profumato e zuccherato senza risparmio, secondo l’uso orientale, accompagnato da muffins e scones[3] altrettanto tipicamente inglesi. Strano, pensò addentandone uno. Ma la fame feroce che provava prese ben presto il sopravvento sulla sua curiosità, e finì col divorarli tutti quasi senza sentirne il sapore. E, soprattutto, senza porsi più domande.

 

 

IL LEOPARDO DI SARAWAK

 

Quando bussarono alla porta, lui si stava ancora domandando cosa potesse significare la sagoma stilizzata di felino che, come un’ossessione, campeggiava dappertutto, incisa sul metallo, dipinta sul legno, ricamata sulla stoffa. Doveva trattarsi di qualcosa di simile a uno stemma gentilizio, si rispose da solo. Uno stemma attestante il prestigio, la ricchezza e il potere di colui che lo aveva strappato al mare. Un nawab o un rajah. Chiunque egli sia, si augurò, speriamo che parli l’inglese o almeno l’arabo, in modo che ci si possa intendere anche a parole.

 

La luce inquadrò sul vano della porta un uomo sulla sessantina, alto e ancora vigoroso, con capelli bianchi e folte basette unite a un paio di grossi mustacchi che ombreggiavano labbra dure, sottili, ed erano sovrastati da un naso gibboso e imponente. Indossava con noncurante eleganza un completo nero da mezza sera e malgrado, guardandolo da lontano, l’intensa abbronzatura della sua pelle potesse trarre in inganno, non c’era dubbio alcuno che si trattasse di un occidentale.

 

- Sono lieto di darvi il benvenuto a bordo, signore.

 

Gli tese la mano, e il gesto confermò, se ce ne fosse stato bisogno, che quell’uomo era il padrone di tutto quanto, lì sopra. Dell’oro, dell’argento, del broccato e del palissandro. Forse perfino dell’esistenza di qualcuno, pensò. E fu quel pensiero a provocargli un istante di nausea subito ricacciata indietro, non il beccheggio della nave, né la fame che il tè dolce e i biscotti erano riusciti a placare solo in minima parte.

 

- E io vi ringrazio di quel che avete fatto per me.

 

Gli era debitore della vita, pensò l’altro, e di tutto quanto il resto. Anche degli abiti. A bordo, non ne aveva trovati di foggia occidentale adatti alla sua taglia, gli disse, ma dovette ammettere che quelli gli stavano proprio bene: colui che si trovava di fronte era un bel giovane europeo o nordamericano, dagli occhi azzurri, di buona statura e corporatura formidabile. Poteva avere al massimo trentacinque anni, e parlava l’inglese così correntemente da lasciar supporre senza possibilità di equivoci che quella fosse la sua lingua madre. Non doveva trovarsi da quelle parti da molto tempo: la sua pelle non era abbastanza sciupata e incartapecorita come capitava ai bianchi costretti a vivere sotto quel sole spietato. I suoi uomini l’avevano pescato in mare qualche giorno prima più morto che vivo, disidratato, ustionato dal sole e dalle meduse, le braccia e le gambe sanguinanti per i morsi dei pesci. Era talmente malconcio che non si capiva nemmeno a quale razza appartenesse, tra le molte che popolavano l’Arcipelago, e se e quanto sarebbe riuscito a sopravvivere, nelle condizioni in cui si trovava. Invece ecco che, dopo pochi giorni, gli stava dinanzi perfettamente guarito, disinvolto ed elegante nel suo abbigliamento da gentiluomo indiano, senza che la più piccola bruciatura gli deturpasse la bella pelle chiara e compatta. Poteva essere il caso di parlare di miracolo. O, più semplicemente, quell’individuo aveva la forza e la resistenza di un bue. Chissà chi era.

 

- Potrei conoscere il vostro nome… signore?

- Max Merritt.

- Bene. Sarei lieto di avervi mio ospite a cena.

 

Il tono era quello di chi è abituato a comandare ed enfatizzava le parole movendo le mani con gesti lenti, misurati e pacati. Erano grosse e nodose, coperte fin quasi alle unghie di peli e di lentiggini. Non certo le mani di un aristocratico, pensò Merritt, a cui niente sfuggiva. Sembravano piuttosto quelle di un artigiano o di un bottegaio, nonostante al mignolo della sinistra scintillasse un massiccio anello d’oro, nel quale era incastonata una corniola con incisa la solita figura stilizzata di un animale che sembrava un felino. Perché non si presenta, come ha chiesto di fare a me? Si domandò da sé solo. Forse è un uomo conosciuto, ed è convinto che io sappia chi è. Non si rende conto che vengo da lontano? Che il mio mondo non ha niente a che vedere con il suo?

 

L’altro notò la sua perplessità, e fece ammenda con un sorriso del suo comportamento poco cortese. Il mio nome è James Brooke. Gli disse infine. James Brooke. Colui che i nativi chiamavano “Il Leopardo di Sarawak” e i giornali europei “Il rajah bianco” e “Lo sterminatore di pirati”. Una leggenda vivente di cui, non ricordava in quale circostanza, aveva letto, o sentito parlare. Dovrò chiamarlo milord, o altezza, o che accidente…

 

- Vi manderò a prendere tra mezz’ora. Spero non resterete deluso dall’arte culinaria del mio cuoco o dalla qualità della mia modesta cambusa. Sta di fatto che, in mare più che altrove, l’ospitalità è sacra. Mi auguro che, questa almeno, l’apprezzerete.

- Certamente…milord.

- E mi raccomando. Niente formalismi tra di noi. Quelli lasciamoli agli inferiori: e voi non siete un suddito o un sottoposto, ma un ospite, mio giovane amico.

 

SAMIRA

 

Le dita di Max Merritt percorsero lente la solita, ossessiva sagoma stilizzata incisa sulla testata del suo letto. Sarebbero venuti a prenderlo, di lì a poco, perché il rajah si riteneva onorato della sua compagnia, o, più probabilmente, gli premeva di poter scandagliare con discrezione, servendosi di qualche scusa plausibile, i segreti che l’enigmatico naufrago piovuto chissà da dove si portava appresso. Come non diffidare di uno sconosciuto scampato per caso alla morte e, soprattutto, guarito con una rapidità che aveva del miracoloso da gravi ustioni, ferite destinate di solito a infettarsi, e un terribile stato di prostrazione, dopo chissà quanti giorni trascorsi in mare aggrappato a un tronco d’albero? Bisogna essere diffidenti, se non si vuol rischiare che la fortuna ci giri le spalle. A maggior ragione se, come quel vecchio avventuriero, si è riusciti ad arrivare tanto in alto. Merritt era quasi certo che, l’indomani mattina, con le stesse intenzioni, il rajah gli avrebbe mostrato ogni angolo della nave, dal ponte di coperta alla sala macchine, decantandogli con orgoglio i pregi di quel gioiello della tecnologia moderna. O lamentandosi del buon tempo che fu se, come lui, sentiva nostalgia per lo scricchiolio del fasciame, il gemito delle funi, l’odore acuto della pece, il rumore delle vele che sbattevano nel vento.

 

Bussarono. Era ora di cena, e Brooke aveva mandato qualcuno a prenderlo: un piccolo cinese cerimonioso. O un indiano solenne e taciturno, un malese coperto da inquietanti tatuaggi… No, una donna. Eppure, i marinai non volevano femmine tra i piedi, a bordo delle navi: si diceva che portassero sfortuna. Ma al Leopardo Bianco, evidentemente ben poco doveva importargliene di quelle insulse superstizioni.

 

La ragazza si era inchinata leggermente, portandosi con un gesto pieno di grazia le mani giunte all’altezza della fronte e a lui venne spontaneo rispondere con un sorriso al suo saluto. Per contro, lei era rimasta impassibile, come comandava la creanza, da quelle parti. Gli occhi che teneva bassi gli erano sembrati verdi: una combinazione affascinante, accostati a carnagione ambrata e lunghissimi capelli corvini. Una breve occhiata gli bastò a valutarla: proprio bella, degna rappresentante di una stirpe in cui perfino i mendicanti sembravano principi.

 

- Come ti chiami?

 

Non gli rispose, e Max si pentì del suo gesto forse non scortese ma di certo impulsivo: le donne orientali, pudiche e riservate, non parlavano con uomini sconosciuti. A maggior ragione, pensò, se erano nobili. E quella sicuramente lo era: non fosse bastata l’eleganza fiera del suo portamento, tale l’avrebbero qualificata i gioielli fastosi e preziosissimi che l’adornavano come un reliquario barocco. Poteva trattarsi addirittura della moglie del padrone di casa. Il quale era ben più che maturo, ma in Oriente capitava spesso che uomini alle soglie della vecchiaia sposassero ragazzine neppure uscite dall’adolescenza. Era assodato che l’amore c’entrasse poco, come capitava da sempre, e non solamente lì, in mezzo al caldo, agli acquitrini e alle insidie di quel mondo che non era il suo. In ogni caso, se le cose stavano così, perché il vecchio avventuriero che si era fatto re si permetteva di trattarla peggio di una cameriera, mandandola in giro per la nave a informare gli ospiti che la cena era servita?

 

Max Merritt aggrottò le sopracciglia, un po’ perplesso, un po’ indignato… E lei gli sorrise. In fondo, lui se l’aspettava, era abituato da sempre ad attirare l’attenzione delle donne, per quanto algide, intangibili e caste potessero essere. Denti bianchissimi, occhi fieri. Fu l’espressione, a colpirlo, ancor più della preziosa, rara tonalità di verde delle iridi, che scintillavano imprigionate tra il bianco delle cornee e il nero delle ciglia sottolineate da spesse righe di kajal[4]. Occhi fieri da regina spodestata, da amazzone sconfitta ma non sottomessa. Occhi capaci di reggere lo sguardo di un uomo senza sfuggirlo.

 

- Il mio nome è Samira.

 

Gli disse, facendogli cenno di seguirla. Forse in inglese sapeva dire solo quello, ma si era espressa con buona pronuncia. Aveva caviglie snelle e fianchi sottili ma torniti che dondolavano provocanti mentre lo precedeva camminando con grazia. Carica di gioielli. Pensò Max Merritt. E poco vestita, considerato come i veli multicolori che l’avvolgevano sottolineassero, più che nascondere, le linee eleganti del suo corpo snello. Un abbigliamento poco coerente con la sua indole schiva e pudica, ma non con il caldo torrido di quelle contrade. E lo spettacolo che offriva era tutt’altro che disprezzabile, su quello non poteva esserci alcun dubbio.

 

OSPITE D’ONORE

 

Era stato lo stesso Brooke ad invitarlo ad accomodarsi, con un cenno della mano. La sala era piccola, ma arredata con lo stesso sfarzo della sua cabina, pensava l’uomo, guardandosi intorno. L’ospite d’onore doveva essere lui, anche se il rajah non sedeva da solo, alla sua tavola.

 

- Vi presento il dottor De Witt, signore.

 

Il medico di bordo. L’unico altro bianco sulla nave, oltre a loro due. Alto, secco, di colorito verdognolo, lo scrutava con occhi piccoli scuri e acuti quasi sotterrati da un paio di sopracciglia incredibilmente folte e cespugliose.

 

Brooke si dimostrò un anfitrione abbastanza sollecito, attento a tener viva la conversazione, malgrado non fosse facile, con uno sconosciuto capitato lì chissà da dove e ancora scombussolato per via della brutta avventura appena trascorsa e il suo vecchio amico, un tipo taciturno e così screanzato da non staccar gli occhi di dosso all’ospite neppure mentre mangiava. Il rajah ostentava un gagliardo appetito, quell’altro piluccava con aria quasi schifata le pietanze che venivano servite da ragazzetti indigeni seminudi e timidi come conigli, un’accozzaglia di vivande delle più svariate provenienze, dalla zuppa di tartaruga al paté di fegato d’oca, dal pollo tandoori al nasi-goreng[5], dalle pinne di squalo in gelatina al pudding con l’uvetta, il tutto innaffiato da splendidi vini, su cui faceva spicco un Porto del 1852 dolce come il miele. Il Leopardo di Sarawak gli aveva spiegato che il suo cuoco, un tonkinese[6], se la cavava egregiamente sia con la cucina orientale che con quella britannica e francese.

 

- E io voglio godere di tutto quel che mi offre il mio mondo… E questo mondo.

 

Forse Max Merritt se lo immaginò soltanto, il fugace sorrisetto lascivo che per un attimo aveva stirato sui denti le labbra del vecchio avventuriero. E pensò che il suo edonismo non doveva limitarsi a quelle pietanze indigeste. Alludeva forse… alla donna? Accoccolata a gambe incrociate su una pila di cuscini di seta, la splendida creatura pizzicava un grosso strumento a corde da cui sortiva una nenia soporifera, ostentando la solita espressione che si sarebbe detta apatica, non fosse stato per gli occhi verdi come smeraldi che mandavano lampi.

 

- Perché la signora non siede a tavola con noi? Potrei invitarla?

 

- Sarebbe estremamente sconveniente. In ogni caso, Samira mangerà più tardi. - lo rimbeccò l’arcigno dottor de Witt. E Brooke si affrettò ad alleggerire il gelo che per un attimo era calato sulla sua tavola con un “Non siete di qui, certe cose non potete saperle…” Il prologo della domanda a cui, per tutto il pomeriggio, s’era arrovellato di cercare una risposta credibile.

 

- Da dove venite, Mr. Merritt?

 

- Da Perth. Sono americano di nascita, ma mi trovavo in Australia per studiare la fauna locale. Sono un naturalista. Per mia disgrazia, il mercantile su cui ero imbarcato ha fatto naufragio e, dopo diversi giorni passati in compagnia di pesci d’ogni genere, dai delfini agli squali, eccomi qui sano e salvo.

 

Un naturalista imbarcato su una nave che aveva fatto naufragio. Che la causa del disastro fosse da attribuirsi a uno scoglio affiorante, a una tempesta o ai pirati, poco importava; stava di fatto che il giovanotto pescato in mare più morto che vivo doveva essere l’unico superstite: una sorta di curioso Robinson un po’ troppo grosso e forte per essere sul serio quel che diceva. E, cosa che non guastava, parecchio ignorante riguardo alla fauna marina, convinto com’era che i delfini fossero pesci. Uno studioso? Macché. Un soldato, piuttosto. O perfino, con quelle spalle larghe e quei terrificanti bicipiti che gli esplodevano sotto l’impalpabile casacca di seta, un lottatore, un pugile professionista. Anche se non aveva il naso camuso e i denti rotti e i suoi modi erano troppo civili, il linguaggio troppo pacato per appartenere a qualcuno che si guadagnava da vivere menando le mani.

 

Un ragazzetto di otto o nove anni entrò nella sala da pranzo reggendo a fatica un vassoio più grande di lui, che traboccava di colorati frutti tropicali. Inchinandosi al cospetto di James Brooke, gli si rivolse in un inglese zoppicante, chiamandolo orang. Un brivido percorse il corpo di Max Merritt. Per quel che aveva detto, il servitorello si sarebbe ritrovato con la schiena scorticata a nerbate, magari proprio sotto i suoi occhi... Non era la prima volta che si gli capitava di dover assistere a spettacoli simili, pensò, storcendo la bocca.

 

- In nome dell’ospitalità, vi chiedo di perdonarlo. E’ solo un bambino.

 

Brooke esplose in una gagliarda risata.

- Il ragazzo non intendeva insultarmi. Orang significa semplicemente signore.

 

- Come Orang Utan significa signore dei boschi. - Gli fece eco, con la sua voce stridula, il dottor De Witt.

 

- Perdonatemi, ma ho temuto davvero che il ragazzo volesse insultarvi. Non conosco la lingua locale, tuttavia so che gli oranghi sono mostruose scimmie gigantesche e ferocissime che popolano le foreste dell’Asia sud orientale.

 

Il dottor De Witt lo guardò con aria interrogativa. Forse avrebbe voluto dirgli certo, gli oranghi sono scimmie. Ma non sono né gigantesche, né tantomeno ferocissime. Si tratta invece di creature timide, miti ed estremamente intelligenti che, se catturate da cuccioli, si affezionano al loro padrone e possono venir facilmente ammaestrate. Non gli disse nulla, per dovere di cortesia. Lasciandogli nondimeno il dubbio che avesse capito tutto di lui: compreso il fatto che mentiva.

 

L’ENIGMA

 

Notte stellata, calma di vento, mare piatto come una tavola. Non mancava molto a Kuching[7], alla meta, pensò James Brooke sollevando la testa. Si sarebbe rovinato gli occhi, se avesse continuato con l’abitudine malsana di leggere alla luce della lanterna ad olio, il dottor De Witt aveva ragione. Cavò di tasca l’orologio. Erano le undici passate, ma non aveva sonno.

 

Bussarono alla porta.

- Dormite?

- No.

- Sono qui perché sento il bisogno di parlarvi, James.

 

Per parlargli. Ma di che? Per metterlo in guardia da qualcosa di diverso dal mangiare troppo, dal rovinarsi gli occhi leggendo al lume incerto di una lanterna a petrolio o dal fumare quei pestilenziali sigari nei quali il tabacco si mescolava alla ganja[8] pakistana? Avete quasi sessant’anni, dovreste cominciare a non pretender troppo da voi stesso…Uh, al diavolo, lui non aveva bisogno dei suoi consigli, gli avrebbe detto, non fosse stato perché la buona creanza glielo impediva. Avete ragione, a una certa età la tentazione di mollare tutto è forte, dottore. Ma devo stringere i denti e andare avanti per la mia strada… Perché la vita non avrebbe più senso, se dessi retta ai miei anni e ai vostri consigli.

 

- Il naufrago.

 

Ma era davvero quello che diceva? Non gli era giunto all’orecchio niente che dicesse di un naufragio, tra il mar di Sulu, del Borneo e di Sulawesi. E sì che da quelle parti le chiacchiere facevano in fretta a propagarsi. Ma forse l’uomo mentiva. Come aveva mentito su tante altre cose.

 

- Non è un naturalista. Se lo fosse, saprebbe che ciò che ha scritto a proposito degli oranghi Edgar Allan Poe[9] sono solo le fantasticherie di un patetico ubriacone. E poi… Mentre vaneggiava in preda alla febbre, parlava in latino. Può sembrare strano, ma è proprio così.

 

- Ma che ragione avrebbe di mentire?

 

Era come loro, un bianco. Chiuse gli occhi, e lo rivide con il pensiero fermo in piedi, il corpo imbottito di muscoli eppure così agile, così straordinariamente elegante negli abiti di gentiluomo indiano, lo sguardo d’acciaio che studiava attento la sciabola d’arrembaggio del rajah bianco, appesa alla parete. Un interesse un po’ sospetto, il suo, per un naturalista. In quanto al resto, sì, agli sproloqui in latino che il dottore gli aveva sentito mentre la febbre se lo mangiava vivo, c’era una spiegazione logica anche per quello. Capita che il delirio, come una tempesta, riporti a galla relitti dimenticati, brutti ricordi che appartengono al passato. Lezioni che non riusciva a ficcarsi in testa, una fanciullezza funestata da un precettore troppo severo… Era tale e quale a loro, non c’era motivo per temerlo. Un bianco. Come Rui Yanez De Gomera.

 

Rui Yanez De Gomera. Che fosse maledetto. E forse lo era stato davvero, dal destino, da Dio o dal demonio. Dacché lui e i suoi avevano scacciato i pirati dal loro covo era come se l’avesse inghiottito il nulla. E insieme a lui il suo degno compare, il Principe di Shaia. Anche se la Tigre di Mompracem, qualcosa di sé gliel’aveva lasciata. O, meglio, gli aveva permesso di prendergliela. Senza lottare, come se fosse morto dentro. Perché è possibile morire e restare vivi, questo ben lo sapeva.

 

- E’ pieno di cicatrici, dappertutto. E ha un marchio a fuoco, sulla schiena: una volta, si marchiavano così gli schiavi, i galeotti… E i traditori.

 

Il Leopardo di Sarawak si morse la bocca. I tempi erano cambiati, e non solo perché adesso non era più unicamente il vento a spingere le navi sull’Oceano. Eppure, nella civile Inghilterra c’era ancora l’abominio della morte per squartamento[10], nel destino dei traditori. E l’Australia, da dove il naufrago aveva detto di venire, era Territorio della Corona.

 

- Se gli chiederete di dirvi chi è veramente non parlerà, questo è certo. Ma conosco un modo molto efficace per sciogliergli la lingua…

 

Lord Brooke sorrise. Anche a lui era venuta in mente la stessa idea.

 

IL RITO DEL PASSAGGIO

 

Il mattino dopo, Brooke gli aveva mostrato la nave, tutta quanta, dal ponte di coperta alla sala macchine, orgoglioso di quella come di tutte le altre cose che era riuscito a conquistarsi, dalla fama di nemico spietato della pirateria al suo regno di selvaggi che si estendeva lungo la costa occidentale del Borneo.

 

Tutto l’equipaggio, aveva osservato Max Merritt, era formato da gente del posto: cinesi gli ufficiali addetti alle macchine, malesi il nocchiero e il nostromo, dayaki*[11] quelli della ciurma, uomini non molto alti ma prestanti e di bell’aspetto, con i lunghi capelli neri adorni di perline e penne di bucero[12] e l’espressione feroce. Non si trattava di semplici marinai, ma di combattenti che la guerra l’avevano nel sangue e il sangue erano abituati a versarlo a fiumi, rischiando all’occorrenza anche la loro pelle con irridente indifferenza. Tatuati e seminudi, erano armati fino ai denti con lucenti parang[13] affilati come rasoi e cerbottane di bambù con le quali sparavano sui nemici nugoli di piccole, micidiali frecce la cui punta era stata intinta nell’upas[14]. Esse non infliggevano ferite mortali, ma un semplice graffio era sufficiente per spedire un uomo all’altro mondo fra atroci sofferenze. Perché quella, aldilà di ogni apparenza, era una nave da guerra. E Brooke gli mostrò con orgoglio i cannoni. Sono americani, proprio come voi. Gli disse. Appena usciti dalle acciaierie di Pittsburg e rappresentano il meglio che la tecnologia moderna possa offrire in materia di armi.

 

Max Merritt ripensò alle parole che Brooke gli aveva detto, quella mattina. Stanotte attraverseremo l’Equatore. Già, l’Equatore. Qualcosa che non esisteva nella realtà, un punto immaginato dall’uomo alla metà esatta della terra, la linea di demarcazione tra due mondi.

 

La notte era calda, e non aveva sonno. Non mancava molto alla meta, e non era accaduto nulla che fosse degno di nota, dacché lo avevano pescato in mare e caricato su quella nave. Calma piatta, assenza di vento. Il piroscafo del rajah continuava a procedere lento come se non avesse fretta, i motori al minimo, la bandiera che pendeva floscia sull’asta del pennone: la sagoma di un leopardo, bianca come uno spettro, contro il nero della notte. Il vessillo del Re Bianco che non aveva fretta di tornarsene nel suo regno.

 

Domani. Gli aveva detto mentre entrambi guardavano il mare, affacciati al cassero di poppa. Domani saremo nel mio palazzo, e avrete finalmente dei vestiti decenti, da europeo e non da selvaggio. E lui s’era schermito con un’alzata di spalle e un sorrisetto sghembo. Il suo palazzo. Immaginò un fortilizio di mattoni cotti dal sole, all’interno del quale sicuramente campeggiava un trono fatto con canne di bambù, coperto da vecchie pelli tarlate e stracci di calicò. E in quanto ai vestiti, che non si preoccupasse di procurargliene altri, quelli andavano benissimo: in quel clima torrido, costituivano, ben più dello scomodo e paludato abbigliamento europeo, un ragionevole compromesso tra comodità e decenza.

 

L’acqua che un cerimonioso servitore gli aveva versato in una coppa d’argento e posato sul comodino era diventata calda e sapeva di fango. Quel Brooke che si era fatto re doveva essere ricco. Forse viveva in un fortilizio di mattoni crudi e quando teneva udienza posava le natiche su un trono di bambù e pelli puzzolenti, ma non c’erano dubbi che lo fosse. La sete di ricchezze e di potere è da sempre l’ingranaggio che muove il mondo. Sicuramente, per essere arrivato dov’era arrivato, quell’individuo doveva essere di quelli che pensavano meglio sovrano d’un regno di pitocchi che suddito di un grande impero. E, soprattutto, che una vita fatta di tranquille certezze e di giornate tutte uguali non valesse la pena di essere vissuta.

 

Devo scriverle. Pensava, mentre guardava aprirsi la porta della sua cabina. Devo trovare la maniera di avvertire Dora che sono salvo, e al sicuro, lontano dalla sofferenza e dal disonore, su una nave che mi sta portando a Kucking. Nella tana del Leopardo Bianco.

 

°°°°°°°°°°°°°°°°

 

- Samira…

 

Teneva una lanterna in mano, e mai lui avrebbe immaginato potesse sorridergli in quel modo. Brooke gliel’aveva mandata per celebrare il Rito del Passaggio, perché quella notte la sua nave avrebbe cavalcato la linea dell’Equatore. E bisognava festeggiare.

 

Era coperta da un telo leggero di batik drappeggiato intorno al corpo e dai suoi lunghissimi capelli sciolti e gli sorrideva, maliziosa e invitante, senza parlare. Posò la lanterna su un tavolo basso, posizionandola in modo tale che la illuminasse, accentuando quella bellezza che gli portava in dono, come aveva comandato il signore e padrone, Brooke, il Leopardo di Sarawak.

 

Non disse nulla, limitandosi a sorridere e lasciandogli il dubbio che non conoscesse, nella sua lingua, che poche parole imparate a memoria. Ma colui che si era trovata davanti doveva piacerle davvero, rifletté Max sorridendosi da sé solo, mentre Samira gli infilava le mani nello scollo della camicia e gliele faceva scorrere sulla pelle del petto con gesti pigri e provocanti. E di certo non avrebbe respinto quel dono che il Rajah gli mandava, come non aveva respinto il cibo, i vestiti, l’ospitalità e le cure. Il suo corpo aveva bisogno anche di quello, per dimenticare l’inferno da cui era riuscito a fuggire.

 

Era splendida, e non conosceva pudore, pensò guardandola togliersi di dosso quello straccetto multicolore che la copriva a malapena, e stringersi contro il suo corpo caldo. Aveva i seni turgidi, i capezzoli duri. Le piaceva quel che le sue mani, le sue labbra e la sua lingua le facevano provare. E quando fosse giunto il momento di aprire le gambe perché lui glielo cacciasse dentro fino in fondo, non lo avrebbe fatto solo perché era quel che le era stato ordinato. Max sorrise, e la donna dovette credere che l’aveva fatto per lei, non per se stesso.

 

L’uomo ripensò alla sua prima volta, un mare di tempo prima. Era accaduto lungo il confine settentrionale, quando aveva sedici anni, e lei più del doppio. Era una puttana, una di quelle che andavano con i soldati. Lo aveva sempre fatto per denaro, per un tozzo di pane, senza concedere niente di sé, come se dar piacere a un uomo equivalesse a lavargli i panni sporchi. Ma con quel bel ragazzo dai capelli scuri e dagli occhi azzurri era stato diverso… E glielo aveva fatto capire. Quel ricordo apparteneva alla prima delle sue molte vite, ma i secoli non erano bastati a cancellarlo. Si chiamava Edwige, aveva gli angoli degli occhi segnati da rughe sottili come graffi e qualche filo bianco tra i capelli castani.

 

Anche Samira avrebbe voluto lasciarglielo capire, con gesti e gemiti che dicevano più di mille parole. Le piaceva, lo sconosciuto che la schiacciava sotto il suo peso o si lasciava cavalcare da lei. Le piacevano la sua bellezza austera e mascolina, lo sguardo franco, i tratti delicati, il corpo possente, l’odore caldo della pelle. Era bravo a farla godere, anche se non c’era tenerezza nei suoi gesti, e le sue carezze erano quelle ruvide di chi ha bisogno di sfogare nel corpo di una donna una fame troppo a lungo patita e troppo a lungo rimasta insoddisfatta. La fame che si placa nel corpo di una puttana, non di un’amante o, men che meno, di una moglie.

 

Nel delirio dell’amore gli uomini parlano, le aveva detto James Brooke. E lei avrebbe dovuto ascoltarle attentamente, le parole dello straniero dagli occhi azzurri, perché con ogni probabilità avrebbero raccontato la verità sul suo conto. Come le cicatrici che testimoniavano i segreti della sua vita: un marchio a fuoco nella parte alta della schiena, un tatuaggio raschiato via dal braccio, segni di artigli tra il collo e la spalla… Artigli di tigre, già: conosceva quelle ferite, un paio di volte le era capitato di doverle curare. O, più spesso, di vederle sui cadaveri di coloro che non avevano avuto la fortuna di incontrare una tigre e poterlo raccontare.

 

L’olio non si era consumato dentro la lanterna e la luce illuminava il corpo di bronzo di Samira, il viso stravolto negli spasimi di un orgasmo senza tenerezza. Guardami in faccia, le aveva detto, e non era ancora uscito da lei. La sua voce era dura, gli occhi freddi come pezzi di vetro.

 

- E dimmi, bellezza… A quanti altri uomini James Brooke ti ha servita come dessert?

 

Non comprendeva la sua lingua, Samira. Quindi non era uno strumento per carpire i suoi segreti, ma, semplicemente, un dono di cortesia e ospitalità, come il cibo, i vestiti e il letto. Il dono d’una notte di piacere da parte di James Brooke, il Leopardo di Sarawak, a Max Merritt, naufrago disperato e bugiardo.

 

E’ quasi impossibile guardare una tigre negli occhi e sopravvivere. Ma Samira non abbassò i suoi, e lasciò che quelli di lui la scrutassero dentro, bruciandola e ferendola. Si morse la bocca per non piangere e gli restituì uno sguardo altrettanto duro e freddo. E’ difficile sopravvivere all’incontro con una tigre. Quasi impossibile. A meno che, come in uno specchio, le pupille di vetro ambrato della belva non riflettano l’ immagine di un suo simile.

 

CHIUNQUE VOI SIATE

 

Il Palazzo Reale di Kuching era una solida costruzione priva dello slancio e dell’eleganza tipici degli edifici orientali ma circondata da un lussureggiante giardino non molto diverso dalle propaggini di foresta che arrivavano a lambire la periferia della piccola città. Brooke gli aveva raccomandato di guardarsi dai serpenti velenosi, che potevano annidarsi anche lì. Com’era solito fare con tutti i suoi ospiti.

 

Max Merritt, il naufrago. Non si era lasciato sfuggire nessuno dei suoi segreti, tra le braccia della bella Samira. Eppure, il corpo vigoroso che gli aveva visto, spiandolo di nascosto mentre si lavava, le cicatrici che gli segnavano la pelle non mentivano sul suo conto. Quello non era un naturalista. Quello era… Era qualcuno o qualcosa che avrebbe scoperto presto, si disse da sé solo.

 

James Brooke lo guardò e rivide con gli occhi della mente Rui Yanez de Gomera, il traditore del suo mondo, il migliore tra quelli possibili, della sua civiltà, della sua razza. Chissà se era vivo o morto. Se marciva all’inferno o consumava il resto della sua esistenza trascinandosi tra fumerie d’oppio e bordelli di infimo ordine, in qualche angolo remoto e maledetto dell’Arcipelago. In ogni caso, quell’altro non gli somigliava, aveva gli occhi azzurri, era un po’ più alto e molto più giovane. Ma sapeva che non poteva fidarsi della sua parola, chiunque egli fosse: il Rajah di Sarawak aveva parecchi nemici e dietro un qualsiasi sconosciuto dall’aria innocua poteva celarsi un pericolo mortale, un serpente velenoso nascosto in mezzo ai fiori del giardino dietro casa.

 

La sera prima, nonostante i reiterati consigli del servitore che gli era stato messo alle calcagna per accondiscendere ai suoi desideri ma anche per tentar di carpire i suoi segreti, quel… Max Merritt se n’era andato in giro per la città, e si era infilato in un vicolo buio e semideserto dove un individuo forse in preda ai deliri dell’amok*[15] lo aveva aggredito, minacciandolo con un coltello. Quasi senza scomporsi, facendo esclusivamente uso dei suoi pugni, gli aveva impartito una lezione che l’altro non avrebbe scordato fosse pure campato mille anni, anche per i quattro denti e il naso rotto che gli era venuta a costare.

 

- Non dovevate andarvene in giro col buio, questi posti sono pericolosi e un bianco forestiero e sprovveduto potrebbe attirare su di sé sgradevoli attenzioni. Ma… mi è stato riferito che avete saputo bene come difendervi.

 

Brooke gli piantò gli occhi negli occhi. Se stava mentendo, l’altro avrebbe distolto lo sguardo, abbassandolo a terra. Non lo fece.

 

- Delle volte, vedete, mi riesce difficile credere che voi siate semplicemente un naturalista. Se non lo sapessi perché siete stato voi stesso a dirmelo, giurerei che siete qualcosa…di molto diverso.

 

Il rajah di Sarawak osservò le sue labbra contrarsi un istante, tra il sorriso e la smorfia.

 

- Infatti sono qualcosa di molto diverso.

- E che è bene…tenere nascosto?

- Lo consiglierebbe il più elementare buonsenso.

- Siete un uomo misterioso: forte e risoluto come un lottatore, ma dite di essere un naturalista. Poi vi tradite da solo definendo pesci i delfini e mostri ferocissimi gli oranghi. Quindi, beh… Forse ho poca immaginazione, e ce ne vorrebbe invece parecchia per raffigurarsi un uomo di scienza con i vostri bicipiti, le vostre cicatrici, la vostra risolutezza. E, perdonatemi, la vostra ignoranza.

- E voi, come tutti, vedete il pericolo in quel che non conoscete o non riuscite a comprendere.

- Il pericolo…Ma anche il fascino irresistibile dell’ignoto, signor Merritt.

- Mi avete raccolto, curato, sfamato e ospitato. La vostra gentilezza non merita di essere ricambiata con la moneta della menzogna. Qualche giorno fa, mi avete chiesto da dove venissi e io vi risposi da Perth. Ma la verità è che vengo dalla colonia penale di Norfolk, dove scontavo trent’anni per omicidio. Sono un evaso…Milord.

 

Lo disse senza ironia, ma non ebbe il coraggio di chiamarlo con il titolo del quale si era impadronito in circostanze che solo lui sapeva. Come non c’era ironia nelle parole con cui il Leopardo di Sarawak aveva risposto al suo interlocutore, meglio un omicida che un pirata. Ammesso fosse verità, anche quella. La colonia penale di Norfolk distava parecchie miglia dal punto in cui era stato tratto in salvo, ed era un luogo dal quale sarebbe stato pressoché impossibile evadere. Lui c’era riuscito.

- Scommetto… che c’era di mezzo una donna.

- Già. Una donna che quella carogna di suo marito trattava peggio di una pezza da piedi.

- E voi avete fatto giustizia.

- Mi sono accollato una colpa che non era mia. In realtà fu lei ad ucciderlo. Senza volerlo fare di proposito, credo. Lui le aveva messo le mani addosso per l’ennesima volta e lei, per difendersi, lo colpì al collo con le sue forbici da lavoro… E lo fece fuori.

 

Ma con quel che aveva passato, poveretta, non meritava di finire i suoi giorni con una corda alla gola o, peggio, rinchiusa in una prigione da cui non sarebbe uscita viva. E Merritt, il cavaliere errante, Merritt l’eroe dal cuore generoso, pur di scagionarla si era autoaccusato di un delitto che non aveva commesso. Una storia perfino toccante, non fosse stata completamente improbabile. Ma la forza dell’amore può spingere anche l’uomo più freddo, razionale e spietato a comportamenti assurdi. Com’era capitato al principe di Shaia. Il fiero pirata, il suo mortale nemico, una decina di anni prima aveva conosciuto per caso la graziosa nipote del Residente britannico, lord Guillonk, e perso la testa per lei. D’altro canto, la ragazza aveva rotto il fidanzamento con un bravo giovane di ottima famiglia ed era fuggita con lui, facendosi rinnegare dal nonno che pure l’adorava e diventando l’argomento di conversazione preferito nei salotti pettegoli di tutta la Colonia, che mai era stata turbata da uno scandalo di quelle proporzioni. Finché quell’amore proibito e maledetto non li aveva perduti entrambi.

 

- L’amavate?

-No. Era una donna dura, silenziosa e aveva un bel po’ di anni in più di me. Non era bella, e non solo non l’ho mai amata, ma neppure desiderata né, men che meno, posseduta.

Vedete, non so se credervi o no. I vostri occhi non mentono, ma forse siete capace di nascondere le emozioni così come siete stato capace di fuggire dall’inferno di Norfolk e di resistere per giorni e giorni in mare, aggrappato a una zattera di tronchi, con il sole che vi bruciava, l’arsura che vi prosciugava fin dentro le budella e gli squali che vi ballavano intorno aspettando di cogliere il momento opportuno per sbranarvi. Ma nessuno potrebbe negare che avete avuto coraggio. E questa, per me, è la sola verità che conta. Chiunque voi siate.

 

- Voglio proporvi di restare. E di aiutarmi in quella che è la missione che mi sono imposto, rendere sicure queste acque liberandole dalla malapianta della pirateria. Ho bisogno di uomini coraggiosi, forti e abili con le armi che si battano al mio fianco.

 

E voi lo siete. Quale che sia il vostro passato. Perché, in fin dei conti, non c’è poi quella gran differenza tra un assassino e un uomo che si è fatto re. Il potere si paga quasi sempre con il prezzo del sangue. Come la giustizia.

 

Lo guardò chinare la bella testa riccioluta, abbassare gli occhi. Doveva aver capito che la sua offerta mascherava in realtà un ricatto. O accetti di rimanere al mio servizio, o farò in modo di rispedirti a Norfolk. E di lì non riuscirai più a fuggire, colpevole o innocente che tu sia.

 

IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI

 

Non sapeva perché gli aveva detto di sì. Probabilmente, perché non sapeva dove andare e al Rajah di Sarawak doveva qualcosa. Non la vita, ma questo particolare era lui soltanto a conoscerlo.

 

- Furto, incendio, saccheggio assassinio. Questa gente non conosce altro. E’ un’eredità di sangue che si trasmettono di padre in figlio. Morto uno, un altro ne nasce. Peggiore del primo. E’ quello che mi era stato detto, quando ho incominciato. Ma i casi della vita mi hanno insegnato che tutto quello che viene dall’uomo ha un principio e una fine. Una fine che può essere dilazionata…O affrettata.

 

- Perché il nostro è il migliore dei mondi possibili? Perché la nostra razza ha una missione di civiltà da portare avanti?

 

Max Merritt guardò il vecchio avventuriero abbassare gli occhi, prima di rispondergli “Forse” a mezza voce. Come se sapesse che in realtà quello era un alibi. Una scusa che veniva tirata in ballo da quando esistevano il mondo e gli uomini. Perché le vere ragioni erano altre.

 

Brooke aveva distolto lo sguardo. Non credeva nelle sue parole, stava mentendo a se stesso prima ancora che all’uomo che gli stava davanti. Erano altri, i motivi che lo avevano spinto a farsi re. Motivi alquanto più pratici e plausibili. E altrettanto ignobili. Il migliore dei mondi possibili. Le armi, la forza, la sopraffazione, gli interessi economici mascherati da ideali. I mille mondi nei quali Max Merritt aveva vissuto le sue mille vite. I mille mondi da cui era fuggito. Fino all’ultimo, che presto sarebbe crollato sotto il peso delle sue ingiustizie.

 

- I malesi non sono soltanto abilissimi marinai, ma anche grandi carpentieri navali. Con il legname delle loro foreste, capace di resistere all’umidità e agli insetti, costruiscono imbarcazioni dalla carena stretta e dalle grandi vele, che chiamano prahos e che, a vento largo, filano come rondini marine.

 

Mentre raccontava, era come se una strana eccitazione gli accendesse gli occhi e le guance, togliendogli di colpo dieci anni di età. Merito… della missione che si era imposto, o del nemico che, rinfocolando l’odio di cui la sua stessa esistenza si nutriva lo manteneva giovane e vivo? Chi è il peggiore dei vostri nemici, Maestà? Quello che vi costringe a non fermarvi ancora, anche se lo vorreste, anche se ve lo impongono gli anni, ma forse quelli come voi sono destinati ad essere sorpresi dalla morte mentre rincorrono la loro ossessione da un mare all’altro, da un’isola all’altra, coinvolti in un duello che non avrà mai fine? Perché il vostro nemico, la vostra ossessione, l’incubo delle vostre notti, la ragione della vostra vita non può essere un volgare ladrone di mare.

 

- Lui non è come tutti gli altri. O forse farei meglio a dire non lo era, perché a tutt’oggi non so se è vivo o morto. Da quando i miei uomini distrussero il suo covo, otto anni fa, è come se lo avesse inghiottito il nulla. Allora seppi che, durante l’assalto finale, era rimasto gravemente ferito… Eppure, ancora adesso, mi riesce difficile pensare che quell’uomo non ci sia più.

 

Perché, se così fosse, la vostra esistenza non avrebbe più senso? Avrebbe voluto domandarglielo, ma non lo fece, perché sapeva già quale sarebbe stata la risposta. E Max Merritt lo ascoltò in silenzio, senza porgli altre domande.

 

- Non era malese. Era un indiano di pelle chiara e di casta elevata: da diverse generazioni, la sua famiglia regnava su Shaia, un piccolo stato che confinava con il mio. Lui era l’erede al trono.

 

Shaia. Adesso non esisteva più, se non nei sogni nostalgici di qualche vecchio. Il suo sovrano aveva avuto il torto di mettersi contro Brooke, l’uomo che si era fatto re, e aveva alle spalle la soverchiante potenza dell’Impero Britannico. Ed era stato schiacciato come una formica. Ma il figlio, unico sopravissuto al massacro della famiglia reale, non aveva tratto profitto da quella lezione. Aveva giurato odio fino alla morte all’usurpatore bianco e iniziato la sua guerra personale contro di lui. E contro l’Impero, nel quale non vedeva un apportatore di civiltà e progresso, ma qualcosa di molto meno nobile.

 

- Mi è stato insegnato anche dall’esperienza che chi combatte per un ideale è avversario assai più temibile di chi lo fa solamente per il bottino.

 

Brooke chinò la testa in assenso. Dopo pochi attimi di silenzio, riprese a parlare, e gli disse di Rui Yanez De Gomera. Per quali ideali combattesse un uomo come quello riusciva difficile immaginarlo. Portoghese, di nobile famiglia, era stato ufficiale della marina militare. Non c’entrava niente con quel branco di selvaggi imbevuti di odio fanatico nei riguardi delle autorità britanniche. Era un uomo civile, un bianco. Che colui che le genti delle Isole avevano soprannominato la Tigre lo avesse raccolto in mare e salvato dopo un naufragio costituiva un particolare del tutto irrilevante, i tempi dei legami suggellati con il sangue e della sempiterna riconoscenza nei riguardi di chi ti salva la vita erano finiti da un pezzo. O forse, pensò il Leopardo di Sarawak, non era poi tanto diverso da lui, quell’avventuriero senza patria, sul cui capo pendeva una condanna a morte in contumacia comminata dalle autorità portoghesi per diserzione, tradimento e pirateria. Perché se il prestigio e le ricchezze possono tentare, prima di tutto viene l’attrazione per gli abissi dell’ignoto, il brivido dell’azzardo la cui posta in palio è la vita.

 

- Fu l’amore a perdere la Tigre. Come sempre succede. Un giorno, egli conobbe per caso la nipote del Residente Britannico, Marianna Guillonk. Quella donna gli entrò nel sangue. Per lei, mise in gioco la sua vita e perfino la sua reputazione di capo intransigente e incorruttibile. E Marianna lo contraccambiò, rinunciando a tutto, per seguirlo nel suo covo, l’isola di Mompracem, uno scoglio infestato di uccelli marini, capre selvatiche… E pirati.

- Doveva essere molto bella.

- I nativi la chiamavano la Perla di Labuan. Bella? Uno scricciolo di ragazza, con gli occhi azzurri e un volto da bambola di porcellana. Ma l’esperienza mi insegna che spesso gli uomini di colore sono attratti dalle donne bionde: il frutto proibito è sempre quello più goloso.

 

Max sorrise a Samira, che gli era scivolata silenziosa al fianco, per porgergli una tazza di limonata fresca. Era alta, regale, bellissima. Non apparteneva all’etnia malese, ma a quella indiana, come la Tigre. Chissà, si domandò, se intercorrevano legami di sangue tra quella venere dalla pelle ambrata e il mortale nemico di Lord Brooke.

 

Samira. Una puttana che sembrava una principessa. Un frutto che lui avrebbe potuto prendere e divorare semplicemente allungando una mano.

 

- E che ne è stato… di Marianna Guillonk?

 

- Marianna è morta. Questo lo so per certo.

 

La voce imperiosa del Leopardo di Sarawak si era incrinata, mentre gli raccontava che, prima dell’assalto finale alla roccaforte della Tigre, aveva dato l’ordine ai suoi di non farle alcun male. Invece una pallottola vagante l’aveva colpita e uccisa. Povera ragazza.

 

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Il crepuscolo avrebbe portato presto il buio, ma anche la brezza e un po’ di benedetta frescura. Max si guardò intorno, scrutando le ombre che ormai avvolgevano il giardino. “E’ ora di andare a letto” gli aveva detto la donna che stava con lui, una signora bianca di mezza età, dall’aria afflitta, e il bambino aveva fatto finta di non sentirla, continuando a giocare con una buffa scimmia di pelo rossiccio, che rassomigliava a un brutto neonato dagli occhi teneri. Un cucciolo di orango, gli disse Brooke senza sorridere. Quindi glieli presentò. “Miss Soames. E Mark. Mio nipote.”

 

Mark. Come suo figlio. Un nodo gli serrò la gola. Aveva suppergiù la sua età, otto, nove anni, e un visetto delicato, incorniciato da lunghi riccioli biondi. Non somigliava al suo bambino, morto ammazzato un mare di secoli prima.

 

Un frettoloso saluto e Mark tornò a giocare con la scimmietta, ritenendo quel forestiero barbuto e silenzioso, mai visto prima, del tutto indegno del suo interesse. Lo ammetto, l’ho viziato. Brooke avrebbe giustificato così il comportamento poco educato del nipotino che, come tutti i bambini, non amava molto i convenevoli degli adulti. O forse era semplicemente perché non avrebbe potuto dirgli quel che realmente pensava senza offenderlo. Suo nipote sarebbe diventato re, un giorno. E non doveva aver niente a che fare con un forzato evaso dal bagno penale di Norfolk, colpevole o innocente che egli fosse.

 

SEGNI DI ARTIGLI

 

E pretendeva di farsi credere un naturalista, pensò Brooke guardandolo far roteare la pesante scimitarra, il torso nudo e lucido, su cui dondolava una zanna di lupo ingiallita dal tempo, appesa a un vecchio lacciolo di cuoio logoro e ingrommato. Si sorrise da solo, pensando che, se l’arma che impugnava non fosse stato un semplice pezzo di acciaio senza filo, ai quattro dayaki agili come scimmie che gli aveva messo contro per saggiare le sue qualità di combattente, quell’uomo avrebbe potuto staccare la testa di netto con poche mosse perfettamente calibrate. Mai visto niente di simile in tutta la sua vita, o forse… In ogni caso, era quasi certo che non avrebbe più incrociato il suo cammino o la rotta di una delle sue navi, l’altro uomo che aveva visto brandire la scimitarra e battersi in quel modo. Come una belva ferita. Il principe di Shaia. Sandokan, la Tigre di Mompracem.

 

Max Merritt alzò gli occhi su di lui, mentre lasciava andare la scimitarra, che cadde a terra producendo un acuto clangore metallico. Aveva il viso corrucciato, e puzzava di sudore. Gli chiese il permesso di potersi andare a lavare. Era un uomo molto pulito. Singolarmente e stranamente pulito. Magari il lezzo del suo corpo sudato lo disturbava perché gli riportava alla memoria Norfolk, chissà… E quante storie avrebbero potuto raccontare le cicatrici che gli segnavano la pelle? Ne aveva una, tra il collo e la spalla destra, che sembrava la zampata di un grosso felino. Il ricordo del mio incontro con un giaguaro, nella jungla dello Yucatan. O con un leone nella savana africana. Chissà come gli avrebbe mentito, quell’uomo affascinante e bugiardo, pensò il rajah, se gli avesse chiesto delucidazioni.

 

Non si rividero fino all’ora di cena, e anche allora Brooke non gli domandò nulla, limitandosi a guardare quei sottili segni rossastri che gli artigli di un animale gli avevano lasciato sul collo, chissà come e chissà quando. Chi siete? Avrebbe dovuto domandarglielo e dirgli è inutile continuare ad ingannarmi, prima o poi scoprirò la verità sul vostro conto. Tutta. Ma preferì tacere.

 

Samira lo aspettava accoccolata sul letto. Lo avrebbe guardato senza parlare, mentre lui la prendeva come la prima volta, come quando Brooke l’aveva mandata nella sua cabina per rendergli memorabile la traversata dell’Equatore. Senza parlare, perché non conosceva la sua lingua, limitandosi a gemere di piacere come la femmina di un animale, tra le grosse braccia forti del forestiero, ad eccitarlo con le sue carezze, le sue labbra, il suo profumo.

 

Max sospirò. La reazione vigorosa del suo corpo gli ricordava prepotentemente quanta voglia avesse di lei. La prima volta aveva pensato che Brooke gliel’avesse messa nel letto con qualche scopo che solo lui sapeva, era evidente che non si fidava di quello sconosciuto pescato in mare, che doveva aver scoperto come il suo ospite gli mentisse, era scaltro, diffidente, e guai se non lo fosse stato. Già, gli aveva mandato la sua puttana sperando che, nell’abbandono del piacere, lui parlasse, rivelando tutti i suoi segreti. Ma Samira non conosceva la sua lingua, né lui quella di lei. Non era ciò che aveva creduto e che l’aveva spinto a prendersi il suo godimento trattandola come l’ultima delle baldracche.

 

Si morse le labbra, mentre la donna lo guardava. I suoi occhi erano fuoco liquido, la sua pelle seta scura e calda. Le sorrise, e la baciò. Con tenerezza, un labbro alla volta. Poi, con bruciante passione. Come si fa con un’amante, non con una puttana. La chiamò per nome, le sussurrò all’orecchio cose dolci e sconce, anche se lei non capiva. Ma il tocco delle sue dita, il calore umido della sua lingua in ogni rilievo, in ogni recesso nascosto e sensibile, la dolce tortura dei suoi piccoli morsi erano tutte cose che comprendeva perfettamente. Samira. Lo pensò, il nome di lei, mentre succhiava avido i suoi capezzoli scuri. Lo urlò, quando la penetrò, e venne, con lei e dentro di lei, versandole nel grembo tutto il suo seme. Lo sussurrò, quando la donna gli si strinse contro, senza schiodare gli occhi dai suoi.

- Samira, no…

La notte era lunga, lui si era appena ripreso dal precedente e la donna lo invitava a un altro abbandono, carezzandolo ed eccitandolo, chinando la testa tra le sue cosce e prendendogli il sesso nella bocca.

- Samira…

Lottò invano contro il piacere che lo stava travolgendo e che, sicuramente, a quella creatura tanto bella e fiera costava sofferenza. Perché doveva essere stato Brooke ad imporglielo, allo scopo di onorare con un dono di valore l’ospite venuto dal mare, il combattente di cui aveva avuto modo di saggiare quel coraggio che, volente o nolente, avrebbe messo al suo servizio, contro i nemici del regno di Sarawak e dell’Impero Britannico. Contro i nemici del progresso e della civiltà.

 

- Samira, perdonami. Ma quando abbiamo fame, noi uomini riusciamo a comportarci peggio degli animali. - Le sussurrò, la voce ridotta a meno di un sospiro rauco, mentre il piacere gli si scioglieva, denso e vischioso tra le gambe, sgocciolando dalle labbra socchiuse di lei.

 

Samira aveva sollevato la testa, e lo guardava.

- Perdonarti? E perché dovrei?

Aveva parlato in un inglese impeccabile e questo gli mozzò il fiato in gola proprio come ciò che la sua bocca aveva appena terminato di fargli. Allora lo capiva. Allora poteva rispondergli. Allora lo aveva ingannato, e per chissà quale misteriosa ragione, proprio come s’inganna un animale affamato e disposto a qualsiasi cosa, pur di procurarsi il cibo che placherà i morsi feroci del suo stomaco. Fece per alzarsi, ma lei glielo impedì, premendogli le mani sul petto.

 

- Nessuno mi ha costretta. Se sono venuta con te, è perché mi piaci. E tutto quello che ti ho fatto, l’ho voluto io, bianco.

 

Max Merritt storse la bocca senza scoprire i denti. Bianco, pensò. Sudicio infedele incirconciso, ubriacone e mangiatore di carne immonda, al pari di un avvoltoio[16]. Eppure Samira diceva che nessuno l’aveva costretta. Nessuno, nemmeno Brooke. Allungò la mano, gliela strinse intorno alla gola. Sarebbe bastata la forza di una sola delle sue grandi mani per spezzarle il collo.

 

- Ringrazia la misericordia degli dei che ha reso sterile il mio seme, - le sibilò, lasciando andare la presa delle dita. - Dopo questa notte, il tuo signore e padrone non rischia di ritrovarsi padre di un bastardo con gli occhi azzurri che un forzato evaso da Norfolk ha messo in corpo alla sua donna…

 

- C’è un solo Dio, maledetto infedele. Allah il Possente, l’Invincibile, Colui che tutto vede.

 

- E che non ti ha fulminata, anche se ha visto come godevi tra le braccia di un cane bianco.

 

Di un cane che si è venduto a Brooke senza discutere. Di un cane che ucciderà quelli della tua razza. L’hai visto, questa mattina, con quale terribile forza e abilità maneggiava la sciabola senza filo che il rajah gli aveva messo in pugno? Si fosse trattato di un’arma vera, i quattro dayaki che gli erano stati messi contro non sarebbero sopravvissuti per raccontarlo. Lui, invece era stato fortunato. Perché aveva guardato la morte in faccia, chissà quanto tempo prima, pensò Samira carezzandogli il collo. E da quel duello, era uscito vincitore.

 

- Questi sono segni di artigli. Artigli di tigre. Ti ha ferito, e sei sopravissuto. In tutta la mia vita, ho conosciuto solo un altro uomo che ha avuto la tua fortuna: il Principe di Shaia.

 

NIENTE E’ CIO’ CHE SEMBRA

 

Il Principe di Shaia. Sandokan, la Tigre di Mompracem. Gli animali non uccidono quelli della loro stessa specie, le tigri non placano la loro sete bevendo il sangue delle altre tigri. E l’uomo bianco che le giaceva accanto era come lui, pensò Samira, lasciando scorrere le labbra e le mani sulla sua gola ispida di barba.

 

Era forte e coraggioso, l’uomo venuto dal mare. Forte e coraggioso, come quell’altro, colui che era stato la speranza della sua gente, prima che il baratro del nulla lo inghiottisse, e chissà se era vivo o morto. Ma non aveva messo il suo coraggio e la sua forza al servizio della libertà. Era un mercenario. Uno che combatteva per chi lo pagava meglio. Per Brooke, lo Sterminatore dei Pirati, che gli aveva promesso gloria e bottino o, semplicemente, l’aveva ricattato minacciando di rispedirlo a Norfolk, se non avesse accettato i suoi patti. Doveva essere un brutto posto per viverci, quello. E certi compromessi con la tua coscienza spesso è l’istinto di conservazione ad importeli.

- Sei la sua donna?

Era bella, quando rideva, anche se non andava all’allegria il merito d’ accenderle gli occhi di quella luce che ardeva come fuoco liquido e che non smetteva di bruciare mai. Scosse la testa, scompigliandosi appena i lunghi, pesanti capelli neri lucidi d’olio di gelsomino.

 

- E allora chi sei, Samira?

-Da queste parti, niente è ciò che sembra, straniero.

-Perché dici questo?

-Perché so come va il mondo. Sono giovane, ma ho già visto abbastanza.

- Lo pensi…anche di me?

 

Un lungo brivido attraversò la pelle di Max Merritt. Certamente Samira doveva aver intuito che c’era in lui qualcosa di strano: era evaso da Norfolk, sopravvissuto per sette giorni in mare aggrappato a una zattera di tronchi, senza mangiare e senza bere, con il sole a picco sulla testa, costantemente inseguito da una torma di pescicani pronti a cogliere il momento opportuno per sbranarlo. L’aveva visto, quando era stato tratto in salvo, disidratato, il corpo devastato dalle piaghe e dalle ustioni. De Witt, il medico di bordo, diceva che non sarebbe sopravissuto, invece… Invece era lì, sano come un pesce e perfettamente guarito.

 

- Niente e nessuno è come sembra. Nemmeno tu.

 

Merritt strinse forte tra i denti il labbro inferiore, fino a sentirlo sanguinare. E lei avrebbe notato quanto in fretta il suo sangue stagnava, come le ferite si chiudessero sul suo corpo senza lasciare traccia. Si sarebbe domandata il perché delle cicatrici, e avrebbe intuito tutto. Anche se potrebbe sembrare impossibile credere che un individuo sopravviva alla sua morte.

 

- Nemmeno… il rajah è quello che sembra?

 

- Stavi per dire il tuo uomo, non è vero? Non lo è, né mio né di nessuna.

 

Glielo raccontò, senza pudore e senza emozione. Non era la prima volta che accadeva, anche a un inglese freddo e compassato la gelosia può far saltare la mosca al naso. Era stato il marito della sua amante a pagare un sicario perché lo rovinasse. Non voleva ucciderlo, solo storpiarlo. E da quel giorno… Lui non era più stato in grado di comportarsi da uomo con una donna[17].

 

E se non poteva più comportarsi come tale con una donna, cercava di farlo con i nemici della sua causa e della sua gente. Magari per lasciare quello che aveva conquistato al bambino che, quella sera, aveva visto giocare con la piccola scimmia grinzosa che sembrava un brutto neonato. Suo nipote, Mark.

 

- Mark? Il vero nome del ragazzino è Kadeem. E’ un mezzosangue. Come me. Gli occhi verdi sono molto poco comuni, tra la mia gente.

 

Bugie che sembravano la verità, verità che sembravano bugie... E tu, sei quello che sembri, o forse… Samira si accovacciò tra le sue braccia, contro il suo petto, e gli raccontò di lei. Neonata, era stata abbandonata da chi l’aveva messa al mondo nella jungla alle foci del Gange, con la speranza che gli animali la divorassero. Capitava sovente che fosse quello, il destino di chi aveva la disgrazia di nascere povera e femmina. In più, e gli occhi verdi lo testimoniavano, non doveva essere nata da un’unione istituzionalizzata ma da uno stupro. Un soldato bianco aveva abusato di un’indigena. L’aveva messa incinta. E la figlia nata dal disonore era stata gettata via come un’immondizia.

 

- Le bestie sono state pietose con me. E anche chi mi ritrovò, un cacciatore di serpenti che mi pare si chiamasse Kammamuri, almeno così mi aveva raccontato mio padre.

 

L’uomo non poteva tenerla con sé, e l’aveva affidata a un amico, un mercante cinese che, con la sua giunca[18], faceva la spola tra l’India, la Cina meridionale e le isole dell’Arcipelago. Il quale, a sua volta, l’aveva affidata ad Anak il vasaio. Che l’aveva allevata come una figlia, fintantoché la ragazza non era cresciuta abbastanza da comprendere che quell’uomo basso, dalla pelle giallastra e dagli occhi stretti e sua moglie che gli somigliava non potevano essere suo padre e sua madre. E aveva preteso di conoscere la verità. Tutta quanta.

 

Il vecchio Anak era morto qualche mese dopo averle raccontato tutto, e anche sua moglie non gli era sopravissuta per molto. Rimasta di nuovo sola al mondo, la piccola Samira, che aveva appena una decina d’anni, era entrata a servizio presso il Residente Britannico, lord Guillonk, diventando la cameriera personale di sua nipote Marianna. La cameriera, la messaggera d’amore, la depositaria dei suoi segreti. L’aveva seguita a Mompracem, quando era fuggita con il pirata. Era stata la testimone della sua felicità, e le aveva chiuso gli occhi quando era morta. I dayaki di Brooke l’avevano scovata nascosta dentro una capanna di frasche, mentre tremava come una foglia stringendo tra le braccia un neonato dalla pelle bianca. L’avrebbero stuprata e magari anche ammazzata, non fosse stato per James Brooke.

 

- Non lo odio, anche se è quello che è. Non posso. Riesci a comprendere quel che ne sarebbe stato di me, se… Avevo dodici anni, Max. A quell’età, le ragazze bianche giocano ancora con le bambole.

 

Niente è ciò che sembra. Come nel delta di un fiume l’acqua dolce e quella salmastra si mescolano fino a confondersi, così l’amore si confonde con l’odio, l’odio con l’amore… E il bambino dai capelli biondi, quello che aveva visto giocare con il cucciolo di orango, Mark, no, non Mark, Kadeem… Era forse il neonato che Samira era riuscita a salvare? Era forse…

 

- Il figlio di memsahib[19] Marianna. E di Sandokan.

 

- Allora non è suo nipote. E’… un ostaggio, un prigioniero…

 

Il chiarore tenue della lampada ad olio non gli nascose il sorriso che era sbocciato sulle labbra carnose di Samira.

 

- Niente è ciò che sembra. La verità è che Marianna era la figlia di Brooke.

 

Lo aveva immaginato, come tutto quanto il resto. Le cose non erano andate diversamente da come accadeva dall’alba dei tempi. Agli occhi di una giovane sognatrice, un temerario avventuriero ha molto più fascino di quanto possa averne un rigido funzionario della Compagnia delle Indie sposato per calcolo e non per amore. Forse non era stato amore vero neanche quello, ma a lei aveva scaldato il cuore crederlo. La bambina poteva essere figlia del marito, o dall’altro, che importava. Contava nascondere agli occhi del mondo le conseguenze di quello sbaglio e, morendo a pochi giorni dal parto, lady Ambrosia Guillonk aveva lasciato tutta quanta l’incombenza in eredità al marito. Che aveva fatto storpiare Brooke, non appena avuta la certezza dell’infedeltà della moglie, per poi stringere i denti e placare la sua rabbia; era indispensabile che il mondo la credesse figlia sua, anche se non era facile; il destino non gli domandò di sopportare ancora per molto quel peso, il colera se lo portò via un paio d’anni dopo e Marianna… La allevò lord Guillonk. Per tacitare lo scandalo. E perché era solo al mondo. Quella bambina, agli occhi di tutti, sarebbe stata sangue del suo sangue. E, per lui, una ragione di vita.

 

Già, una ragione di vita, dopo che il suo mondo gli era franato addosso ed era un miracolo che fosse sopravvissuto. Una ragione di vita, com’era stata, per lui, la vendetta. Mille e settecento anni prima. Lo aveva urlato al cielo, dopo aver pianto tutte le sue lacrime di fronte ai cadaveri brutalizzati della moglie e del figlioletto. Allora, poteva ancora farlo.

 

Samira si era addormentata, e lui si alzò in silenzio, per non svegliarla. Anche se avrebbe voluto farlo. Anche se avrebbe voluto afferrarla per le spalle, scrollarla forte e sentire il panico correrle sotto la pelle, mentre le chiedeva, perché lo fai? E il suo sguardo sarebbe stato lo stesso della tigre che, nascosta dietro un canneto, spia la sua preda all’abbeverata.

 

Samira non sapeva nulla di lui. Non avrebbe potuto, era stato bravo a tenersi dentro il segreto. Perché, anche lei avrebbe faticato a credere verità le sue parole, se avesse deciso di raccontarle tutto: che stava al mondo da mille e settecento anni. Che era morto per rinascere, ad opera d’ amore e di magia. Che aveva conosciuto la potenza e la polvere, l’orgoglio e l’umiliazione, l’amore e l’odio. Che il suo nome non era Max Merritt, bensì Massimo Decimo Meridio. Che era stato contadino, soldato, generale, schiavo, gladiatore e regicida. Che era immortale.

 

YANEZ DE GOMERA

Dili, Isola di Timor, gennaio 1861

 

Saperne di quell’uomo sarebbe stato lo stesso che cercare un ago in un pagliaio. Non lo ignorava. E se lui aveva dalla sua parte tutto il tempo che voleva, non altrettanto poteva dire di quell’altro. Quanti anni poteva avere? Da quel che gli aveva raccontato Samira e dalle informazioni raccolte in giro, dovevano essere una cinquantina. Abbastanza, per un posto come quello. Chissà se camminava ancora sulla terra o se una delle mille morti che rendevano quel mondo tanto insidioso l’aveva ghermito nelle sue spire.

 

Perché lo fai? Lo aveva chiesto a Samira, e non aveva avuto bisogno di una risposta per comprendere le sue ragioni. Quante domande. Lo avrebbe chiesto anche a Rui Yanez de Gomera, qualora il destino avesse voluto che le loro strade si incontrassero. Si tolse l’ampio cappello di panama e si asciugò la fronte sudata con la manica arrotolata della camicia. Ci faceva un caldo d’inferno, da quelle parti.

 

Si sedette su un muretto di mattoni crudi, le gambe larghe, i gomiti sulle ginocchia. La strada era affollata, tanti indigeni magri, bassi e scuri, qualche cinese, pochissimi bianchi. L’aria era fetida e bollente. Poco distante da lui, un piccolo straccione giocava con un gattino rognoso. Ne aveva sentite tante, sul conto di Rui Yanez De Gomera, e la meno assurda era che stesse lì, sotto falso nome. Dili era una piccola città, si ritrovò a pensare, e i residenti bianchi dovevano contarsi sulle dita di una mano. Se lui era lì e non da un’altra parte, non avrebbe impiegato molto tempo a scovarlo. Ammesso che avesse seguito la pista giusta e il suo uomo non si fosse davvero accasato con la vedova di un marajah indiano, come qualcuno aveva cercato di fargli credere. Perché le vedove dei marajah si immolano sulla pira funebre dei mariti, e non li rimpiazzano con gli avventurieri bianchi, borbottò, prima di sputare in terra.

 

Era passato tanto tempo, dacché nei confronti di quell’uomo un tribunale militare portoghese aveva comminato la condanna a morte in contumacia per diserzione, pirateria e tradimento. Timor, per metà olandese e per metà lusitana, poteva non essere un posto tanto sicuro. Ma lo scorrere del tempo giocava a suo favore. Probabilmente la sua fisionomia era cambiata e un nome falso aveva fatto il resto.

 

Sul vicolo fangoso si aprivano le porte di alcune bottegucce da cui uscivano zaffate rancide di fritto e risatine querule. Bettole da quattro soldi, fumerie d’oppio, sale per tatuaggi e bordelli con le puttane dagli occhi dipinti esposte in vetrina. Certe erano quasi delle vecchie, altre ancora bambine. Max Merritt si sentì stringere lo stomaco da una mano di ferro, e fece fatica a ricacciare indietro un conato di vomito quando, nell’animale scuoiato appeso a un gancio da beccaio, riconobbe la sagoma di un grosso cane.

 

- I cinesi li mangiano… Siete nuovo di queste parti, Senhor?

 

La pelle del viso sembrava il cuoio di una vecchia bisaccia consunta e i denti erano macchiati di tabacco e betel[20]. Si esprimeva in un buon inglese, ma l’accento era quello cantilenante dei portoghesi. Gli occhi, profondamente infossati nelle orbite, spiccavano azzurri intensi e acuti contro le cornee venate di rosso. Occhi da marinaio, abituati a scrutare gli orizzonti lontani degli oceani, ad affrontare l’onta del sole che batte in faccia, si ritrovò a pensare Max Merritt.

 

Non sono molti i bianchi che capitano da queste parti, gli aveva detto, invitandolo ad entrare in una botteguccia ancor più piccola e scura delle altre, ingombrata per metà dalla sagoma pachidermica di un’indiana che tanfava di sudore e di patchouli[21] e portava i capelli unti raccolti in una lunga treccia. Se fosse animato da cattive intenzioni saprei ben io come sistemarlo. Inoltre, potrebbe tornarmi utile, pensò Merritt, seguendolo nel retrobottega che poi era anche la sua casa. Ma non andò come temeva, l’altro gli offrì del Madera in un bicchiere pieno di ditate e un vassoio di dolciumi collosi, dopo essersi presentato come Pedro Amaral. Un nome portoghese. Quell’incontro fortuito poteva rivelarsi prezioso.

 

Faccio il cambiavalute, gli aveva detto, e forse era una bugia o una mezza verità, perché il pudore e l’istinto di conservazione impedirebbero anche a un usuraio o a un prosseneta di rivelare a un estraneo che si guadagna da vivere prestando denaro a strozzo, ricettando roba rubata o speculando sulle prestazioni sessuali di quattro disgraziate in vendita come le bistecche di cane e le frittelle di germogli di soia che s’intravedevano nelle vetrine unte e affumicate. Ma qualunque cosa facesse, doveva conoscere parecchia gente.

 

- Conoscete un certo… Rui Yanez de Gomera?

 

Max Merritt era stato un soldato nella sua prima vita e in molte di quelle successive. Gli era stato insegnato che saper riconoscere e interpretare per tempo il più impercettibile dei gesti, la più fuggevole espressione di uno sguardo potrebbe essere questione di vita o di morte. No, non lo conosco. Aveva esitato una frazione di secondo di troppo, a pronunciare quelle parole, e si era tradito. Ma io non intendo farvi alcun male, Senhor de Gomera…Glielo avrebbe detto, non avesse temuto, implicitamente, di tacciarlo da vigliacco. Perché tutto era, o era stato, fuorché quello: anche se non aveva una causa a cui sacrificare la vita che fosse diversa dal brivido dell’azzardo e dell’imprevisto.

 

Il portoghese non proferì parola e lo guardò sbottonarsi la camicia e mostrargli la piccola croce di filigrana che gli dondolava sul petto. La riconobbe, e avrebbe voluto chiedergli come ne fosse entrato in possesso. Era al collo di un bambino senza più madre e forse anche senza padre. Me l’ha data una donna, a Kucking: un’indiana bella come un fiore, che James Brooke, il Leopardo di Sarawak…

 

- Possa essere per sempre maledetto.

 

Yanez de Gomera si lasciò andare su un vecchio divano dalla tappezzeria logora, come se, all’improvviso, tutta la fatica del mondo gli fosse crollata addosso. Lo guardò negli occhi. E gli parlò.

 

Era la croce del rosario appartenuto a sua madre, quella. La croce che aveva messo al collo del piccolo Kadeem appena nato, perché lo proteggesse dal male. Anche se il padre del bambino adorava un altro dio e lui non credeva più in niente.

 

- E’ Sandokan che cerco. So che voi sapete dove si nasconde.

 

- Sandokan… Se vive ancora , non è che un fantasma, un uomo sopravissuto alla sua stessa morte. Voi non potete capire.

 

Oh, sì che poteva capire, lui, cosa significasse sopravvivere alla propria morte! Ma non aveva tempo per spiegarlo all’uomo incartapecorito e disilluso che gli stava dinanzi, accoccolato su un divano logoro, cosparso di macchie d’unto che, dopo aver reso famoso, o famigerato, il suo nome fin negli angoli più remoti dell’Arcipelago era costretto a nascondersi dietro un’identità fittizia e vecchi abiti frusti. Yanez de Gomera è morto. No, vive in un palazzo sontuoso ed è una bellissima Maharani[22] ad allietare le sue notti… Balle. La verità che gli stava davanti puzzava di muffa, di sudore e di fallimento. Aveva le sembianze di un uomo giunto precocemente alle soglie della vecchiaia, a cui una puttana sfatta cucinava il cibo e scaldava il letto.

 

- Perché lo cercate…Senhor?

 

- Solo per fargli sapere che suo figlio è vivo.

 

Chissà chi era, quell’individuo ben piantato sulle gambe muscolose, dagli occhi felini scintillanti e dalla barba rossiccia. Sicuramente un bianco. Forse un uomo di Brooke. Sarebbe stato un azzardo fidarsi di lui? Tutta la sua vita lo era stata, pensò il portoghese. Prima di spegnersi nell’inutilità e nel niente. Perché fate tutto questo, Senhor? Avrebbe voluto chiederglielo, ma non lo fece. E l’altro gli fu grato di non dovergli rispondere.

 

Siete un folle. Lo bofonchiò tra i denti nella sua lingua, convinto che l’altro non potesse capirlo, ammesso che lo avesse sentito. Che gliene importava, se il figlio della Tigre era vivo? I motivi che spingono gli uomini ad agire sono tanti, e non sempre è la ragione a motivarli. Diversamente, Sandokan si sarebbe ben guardato dall’innamorarsi di una donna bianca, la piccola Marianna non avrebbe fatto la stupidaggine di fuggire con un fuorilegge ma si sarebbe accasata con il bravo giovane a cui era promessa e avrebbe avuto una lunga vita tranquilla invece che una morte prematura e ingiusta. E lui? Lui non avrebbe barattato le sue solide certezze con l’ignoto. Per pentirsene, e rimpiangere di non averlo fatto, fino alla fine dei suoi giorni. Come Marianna e Sandokan, se avessero dato retta alla ragione invece che all’istinto. Come lo sconosciuto dalle spalle poderose e dagli stretti occhi scintillanti.

 

IL CACCIATORE

Delta del Gange, India nordorientale, gennaio 1861

 

Si risvegliò, e non ricordava quanto tempo potesse essere passato. Proprio come quando l’avevano soccorso in mare, anche se allora erano stati un morbido letto e una lussuosa cabina a materializzarsi sotto i suoi occhi, dopo il ritorno alla vita.

 

L’odore era quello greve di pesce guasto, acqua marcia e vegetali in decomposizione della palude, acuito pesantemente dal caldo afoso del mezzogiorno. Alcuni sacchi di iuta gli grattavano ruvidamente la pelle della schiena e non attutivano il contatto delle sue povere vertebre con l’incannicciata di bambù. Chi l’aveva trascinato fin lì, doveva aver creduto che la tigre lo avesse ucciso e si stava preparando a rendergli le onoranze funebri, bruciandolo e gettando le sue ceneri nel Fiume, come si usava da quelle parti. Sicuramente ignorando che i bianchi seppelliscono i loro morti e non li bruciano. E di certo sarebbe morto di paura, vedendo chiudersi neanche fossero sbucciature sulle ginocchia di un bambino le terrificanti ferite che le zanne e gli artigli della belva gli avevano aperto sul petto, sul ventre e sul collo. Perché per nessuno, in qualsiasi parte del mondo, è concepibile credere che si possa tornare dall’Aldilà invulnerabili e immortali.

 

C’era un uomo inginocchiato al suo fianco. Un indigeno magro, seminudo, con i capelli che gli arrivavano a metà schiena.

- Dove sono?

- Al sicuro, sahib[23].

 

In un posto che doveva essere la sua casa, una sorta di palafitta piantata nel fango putrido della palude. Quell’uomo era coraggioso, a starsene tutto solo in un posto simile. Certamente non aveva avuto in dono dal destino la fortuna che gli era toccata, si ritrovò a pensare Max Merritt, il cervello ancora annebbiato di chi fatica ad emergere dal nulla, il puzzo di pelo bagnato e di fiato fetido che continuava a indugiargli in gola ricordandogli che era stata realtà e non un incubo quel che aveva vissuto solo poche ore prima quando si era ritrovato faccia a faccia con la tigre. O forse a quell’altro bastava la collana di semi e piccole vertebre di rettile che gli pendeva sul petto glabro e scarno, a tener lontana la malasorte. Aveva la carnagione ambrata e i lineamenti perfetti dei bengalesi: grandi occhi neri, naso sottile, zigomi alti, labbra carnose socchiuse sui grandi denti bianchi. Un volto quasi femmineo, e l’impressione era accentuata dal fatto che, contrariamente alla maggior parte degli indiani, non portasse la barba. Eppure, non era più un ragazzo: solchi profondi gli segnavano gli angoli degli occhi e i suoi capelli erano completamente grigi.

 

- Forse dovrei dirvi chi sono.

 

L’altro lo guardò negli occhi, scosse la testa. Non devi dirmi niente, sahib. Ho visto tante cose strane, qui, e in tutti gli altri posti dove sono stato. E ho conosciuto solamente un uomo, prima di te, che sia uscito vivo e vincitore dall’assalto di una tigre.

 

Un uomo al quale non era stato concesso il dono grande e terribile della vita senza fine, si ritrovò a pensare Max Merritt mentre l’altro gli raccontava della battuta di caccia che era stato ingaggiato a guidare, diversi anni prima. La belva, sbucata all’improvviso da un cespuglio, aveva assalito il cavallo della memsahib, che era stata disarcionata. Miss Marianna Guillonk sarebbe morta, non fosse stato per l’intervento coraggioso e temerario di quell’uomo, che aveva affrontato la tigre armato solo di un pugnale. E l’aveva sconfitta e uccisa.

 

- Come hai fatto tu, sahib. Era una mangiatrice di uomini, quella. Un vecchio maschio solitario, che aveva capito quali prede facili siano gli esseri umani e tendeva agguati alle donne e ai bambini che andavano al fiume ad attingere l’acqua. Aveva già ammazzato undici persone. Tu saresti stato la dodicesima.

 

Non fossi stato quello che sono. Si morse le labbra rivide se stesso nella grande arena di Roma, inginocchiato accanto alla tigre che aveva ucciso, mentre l’altra belva, quella a cui avrebbe spaccato volentieri il cuore, non aveva zanne e artigli, ma indossava una veste di porpora, portava un serto d’oro tra i capelli, sedeva nel pulvinare[24] e schiumava di rabbia, perché l’avrebbe mandato volentieri a morte, il maledetto gladiatore, se il prezzo da pagare non fosse stato quello di inimicarsi la plebe. Che lo idolatrava neanche fosse stato Marte, Ercole redivivo. Massimo Decimo Meridio, l’Ispanico. L’invincibile. Massimo, che aveva spaccato il cuore ad una tigre, con la sua daga, di fronte alla folla urlante del Colosseo. E che, mille e settecento anni dopo, ne aveva uccisa un’altra, nell’umida, fetida, solitaria jungla alle foci del Gange, regno del sibilo, dell’agguato, del pericolo. Nella jungla dove si era inoltrato con la speranza di incontrare un uomo che non era colui che gli stava di fronte.

 

Tremal Naik. Si chiamava così. Non dovevano piacergli molto, gli uomini, se aveva scelto di vivere in quel luogo inospitale e solitario. Quegli uomini che non erano stati capaci di riconoscere il suo coraggio e la sua onestà perché aveva la pelle del colore sbagliato. Erano passati tanti anni da quando, mettendo a rischio la sua vita, aveva salvato dalle grinfie dei Thugs, gli assassini adoratori della sanguinaria Kalì dalle molte braccia, una giovane donna, figlia di un ufficiale britannico.

 

- Si chiamava Ada. Ada Corishant. L’avevano rapita per sacrificarla.

 

Lui l’aveva salvata. Se ne era innamorato, e lei aveva finto di ricambiarlo. Gli doveva la vita, in fondo. Finché Ada non era tornata tra la sua gente, quando tutto era finito com’era logico che finisse, e lui aveva deciso di vivere la sua vita nella solitudine di quel mondo extraumano, deluso e ferito.

 

Max Merritt chiuse gli occhi, per rivedere col pensiero gli occhi verdi di Samira. Era nata da quelle parti, gli aveva detto. Una bastarda, figlia del disonore, una che non doveva vivere. La figlia di un bianco che si era levato le sue voglie con un’indigena. O… la figlia di Ada Corishant e del cacciatore della jungla?

 

LA TIGRE

 

La croce. La croce di Rui Yanez de Gomera. Non era più dove sarebbe dovuta essere, ed era l’unica prova che attestasse la veridicità delle sue affermazioni, qualora avesse incontrato il Principe di Shaia, colui che le genti dell’ Arcipelago chiamavano la Tigre di Mompracem. Neppure per un attimo lo sfiorò il pensiero che Tremal Naik potesse avergliela rubata. Del resto, non aveva un grande valore venale, e l’oro non valeva nulla nel silenzio e nella solitudine del suo mondo.

 

- E’ questa che cercate… sahib?

 

Assentì con un cenno del capo, prima ancora di voltarsi al richiamo della sua voce grave. L’uomo che gli stava di fronte teneva la piccola croce d’oro tra le lunghe dita olivastre. Cercate qualcosa… che appartiene a me, a dire il vero. Di diritto, sahib.

 

Doveva essere alto quasi due metri, e lo sembrava ancora di più, snello com’era, e modestamente vestito di bianco. Portava una fascia intorno alla fronte e i capelli che gli ruscellavano sulle spalle dovevano essere stati neri, chissà quanto tempo prima. Di quel nero intenso e lucido che sfuma nel blu, come le remiganti dei corvi.

 

Aveva un volto ossuto, folte sopracciglia che quasi si congiungevano alla base del naso aquilino e gli occhi gialli come due agate. Dovevano essere stati quegli occhi obliqui e dorati, a guadagnargli il suo soprannome. Anche se il guizzo che li aveva animati con la luce dell’amore e dell’odio era ridotto ormai a un barlume, come negli occhi appannati dei vecchi. Aveva avuto una donna, un figlio, una terra e una causa per cui battersi, fino a qualche tempo prima. Adesso aveva perso tutto. Rui Yanez de Gomera gli aveva detto che si può morire pur continuando a vivere. E lui sapeva bene come quelle affermazioni potessero essere vere.

 

Max Merritt abbassò lo sguardo. Nel corso della sua prima vita, ricordò, non era morto quando il tiranno aveva ferito il suo corpo a tradimento, bensì quando l’anima gli era stata strappata via, alla vista dei cadaveri brutalizzati e crocifissi di sua moglie e del suo bambino innocente. Marcus. Mark, come il figlio della Tigre, che cresceva ignaro di tutto quanto a Kuching, allevato amorevolmente da quel nonno che di suo padre era stato il mortale nemico. Kadeem… il neonato di pochi mesi il cui ricordo che il trascorrere del tempo rendeva sempre più vago straziava il cuore di colui che era stato il terrore di quei mari, e una speranza per tanti. Certo, un dio maligno si era divertito a ingarbugliare i fili dei loro destini, ma…

 

- Sono venuto a portarvi le prove che vostro figlio vive, principe di Shaia.

 

FINE

Lalla, 07/07/04

 

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[1] Principe indiano di origine turca e di religione islamica.

[2] Nobile guerriero indiano o malese.

[3] Pasticcini da tè.

[4] Mistura di nerofumo e antimonio, usata per truccare gli occhi.

[5] Pietanze rispettivamente della cucina indiana e giavanese.

[6] Vietnamita. Allora la regione era colonia francese.

[7] La capitale del regno di Sarawak.

[8] Hashish

[9] Si allude al racconto “I delitti della Rue Morgue” in cui a un orango addomesticato sono attribuiti alcuni efferati omicidi.

[10] Il supplizio riservato ai traditori (condanna a morte per impiccagione e squartamento)malgrado non più comminato,  nel XIX Secolo non era ancora stato abrogato dal codice penale inglese.

[11] Gli indigeni del Borneo, i famigerati tagliatori di teste.

[12] Grosso uccello simile al tucano.

[13] Scimitarra.

[14] Sostanza vegetale molto velenosa.

[15] Astinenza forzata dall’oppio.

[16] I malesi professano nella stragrande maggioranza la religione musulmana.

[17] Il personaggio di James Brooke, come ben sanno i lettori di Salgari, è veramente esistito. Lo scrittore veronese non  fa cenno a questa presunta menomazione, che invece gli viene attribuita da George McDonald Frazer in “Al servizio della Regina Nera”. E io ho colto la palla al balzo: ovviamente, per questioni di coerenza narrativa.

[18] Tipica imbarcazione  a vela di origine cinese.

[19] Signora.

[20] Noce dal mallo rossastro, che in Estremo Oriente  viene masticato a scopo voluttuario.

[21] Essenza dal caratteristico aroma dolce e  pungente.

[22] Femminile di Mahrajah.

[23] Signore.

[24] La tribuna imperiale, al Colosseo.