Storie de Il Gladiatore |
Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo l’Immortale
IL CORAGGIO
IL PRIGIONIERO
Sapeva
perfettamente quale sorte lo attendeva. A meno di un miracolo, lo avrebbero
fatto fuori. Contrariamente a quel che gli avevano inculcato fin dalla più
tenera età, non erano invincibili, quelli come lui. Prova ne era il fatto che
un’armata di straccioni aveva avuto ragione dell’esercito regolare, e passi
quello italiano, ma i Tedeschi! I Tedeschi erano una macchina da combattimento
invincibile, infatti il Duce aveva promesso alla Nazione che un paio di mesi di
guerra e qualche cadavere avrebbero permesso all’Italia di sedere a fianco dei
vincitori al tavolo della pace, traendone inimmaginabili vantaggi. E gli
Italiani se l’erano bevuta, anche se i mesi erano diventati anni, anche se la
macchina da guerra tedesca non era riuscita ad aver subito ragione del nemico,
anzi, faticava a portare avanti quell’opera di conquista tanto rapida quanto ineluttabile
a proposito della quale tanto si era favoleggiato.
Si bevevano tutto quanto, era stato insegnato loro a tributare onori quasi
divini al Duce e avevano finito col ritenere invincibile anche lui. Avevano continuato a crederci in parecchi
perfino dopo l’8 Settembre, quando la situazione era precipitata e il Paese si
era ritrovato spaccato in due, gli Anglo-Americani a Sud, i Tedeschi a Nord, il
Re in fuga da Roma, il Duce catturato e imprigionato, quindi evaso, grazie al
non certo disinteressato aiuto dei comandi germanici...
Chissà che fine aveva fatto. Uno degli uomini che lo tenevano prigioniero
gli aveva detto che Mussolini aveva tentato di fuggire infagottato in una
divisa della Wermacht[1], ma era stato riconosciuto, bloccato e
fucilato a Dongo. La sua amante, la Petacci, quella bella brunetta, aveva
scelto di morire con lui. E con lui erano morti parecchi dei suoi tirapiedi. I
cadaveri erano stati appesi a gambe all’aria ed esposti in bella mostra a
Milano, in piazzale Loreto, perché chi ancora non ci credeva ci credesse. E si
rassegnasse. Era vero? Era falso? Nemmeno lui sapeva più a chi e a che cosa
credere.
E’ finita. Il mondo per cui hai combattuto, ammazzato e rischiato la
pellaccia non esiste più, Bertarelli. E siccome c’eri anche tu, tra coloro che
sghignazzavano mentre quelli della Gestapo
torturavano e picchiavano a morte i partigiani, tra coloro che
avallavano le rappresaglie dei nazisti, dieci italiani per un tedesco, e la
deportazione degli ebrei, e la legge marziale, e il terrore, e… Beh, la fine
che farai è la stessa del tuo Duce. Una raffica di mitra, e per te sarà chiusa,
ma chiusa davvero. Forse finirai anche tu a testa in giù e gambe all’aria in
una piazza della tua città, e la gente ti guarderà come si guarda un porco scannato,
con un misto di odio, pietà e ribrezzo… Gli errori si pagano, Bertarelli.
Strano. Pur con un piede e mezzo nella fossa, l’uomo non riusciva a
concentrarsi sulla sua fine prossima ventura, come se tutta quanta la faccenda
non lo riguardasse. O forse era perché gli altri se n’erano andati, e lo
avevano lasciato solo con lui. Quanto tempo era passato? Quasi quindici
anni, si ritrovò a pensare, guardandolo attraverso le lenti rotte degli
occhiali da miope. Quindici anni, eppure non era cambiato di una virgola. Alto
e dritto, i grossi muscoli che gli esplodevano sotto il liso maglione nero che
indossava e che, dal lezzo di sudore che emanava, si sarebbe detto se lo
tenesse addosso dal maledetto 8 Settembre…
-Non vuole brindare con me alla vittoria, Bertarelli?
Era stato preso e torturato dai nazisti, pochi mesi addietro. L’avevano
ridotto male, gli era stato riferito, eppure era ancora lì, con una bottiglia
di vino in mano, le gambe infilate in un paio di logori pantaloni di fustagno e
quel maglione puzzolente, incollato al largo torace da lottatore. Alla
vittoria… O alla mia fine prossima ventura?
-E’ passato tanto tempo dall’ultima volta… Bertarelli. Carlo Bertarelli.
Terza B del Liceo-Ginnasio “Emiliani”, anno scolastico 1930-31… Allora soffriva
di vertigini e trovava mille scuse per non arrampicarsi sulle pertiche e sul
quadro svedese. Ricorda?
Ricordo. Ricordo il batticuore, e il rossore, e la vergogna, e il terrore
che qualcuno se ne accorgesse… Ricordo tutto quanto, come se fosse ieri e non
quindici anni fa.
Era passato tanto tempo, e quante cose erano cambiate! Ma non lui. A conti
fatti, doveva avere una cinquantina d’anni e non ne dimostrava più di trenta.
Che strano. Non riusciva a guardarlo negli occhi, eppure erano tante le cose
che avrebbe voluto dirgli. Aveva i capelli lunghi sul collo, le guance e la
gola sporche di barba, le mani piene di graffi e di calli. Era curiosamente
identico e diverso da come se lo ricordava. Era bellissimo. Come allora.
IL QUADERNO NERO
-Questo è suo,
Bertarelli. I miei uomini l’hanno trovato in fondo a un cassetto della sua
scrivania.
Cercavano le prove inconfutabile che era un traditore, un boia, un
repubblichino[2], cosa peraltro nota a tutti, uno che per
salvare il culo aveva scelto di stare dalla parte dei tedeschi assassini, e
invece adesso era lì, pallido come la morte, e a momenti gli avresti sentito
battere i denti, mentre il suo interlocutore sfogliava velocemente quel
quaderno dalla copertina nera dove lui aveva annotato chissà quali misteri,
quali piani, quali tranelli… Era redatto in segni stenografici, e quegli
scarabocchi misteriosi avevano
ingannato chi l’aveva scovato rovistando in fondo ad un cassetto segreto del
suo scrittoio. Poteva essere qualcosa di importante, una prova schiacciante
contro di lui, se ce ne fosse stato ancora bisogno.
-Vedo che si è sposato. - Fece il partigiano senza staccargli di dosso quel suo sguardo trasparente e gelido. Non era armato, ma i suoi occhi tagliavano come lame di coltello. Non li aveva dimenticati, nonostante fosse passato così tanto tempo. Leggermente socchiusi, un filino strabici. Belli e mutevoli, ora azzurri, ora verdi. Gli occhi di una tigre. Occhi capaci di cambiare espressione senza che la sua faccia muovesse un muscolo. Se si fosse dedicato alla carriera cinematografica (quante volte si era domandato come mai non lo avesse fatto, con il fisico che si ritrovava), Massimo Meridio sarebbe potuto diventare il più grande attore mai apparso sugli schermi. Altro che Rodolfo Valentino e Douglas Fairbanks. Altro che Amedeo Nazzari, Fosco Giachetti e Osvaldo Valenti. Altro che Vittorio De Sica.
-Sì, mi sono sposato. Cinque anni fa. - rispose lui, rigirando la sottile
fede d’oro che gli brillava all’anulare. - Ho anche un figlio, un maschietto di
tre anni. Si chiama Marco.
I denti bianchi e forti gli erano balenati per un attimo, quando le labbra
si erano arricciate nella parodia di un sorriso. Poteva anche darsi che il
partigiano si facesse venire degli scrupoli, a mandare all’altro mondo un padre
di famiglia, pensò, ma era difficile. Essersi sposato, aver rovinato
l’esistenza sua e di quella povera ragazza che era mite e sciocca come una
pecora e non si era accorta mai di niente poteva non essere servito neppure a
mettere al sicuro la pellaccia in un frangente come quello. Eppure, quando gli
aveva detto che il suo bambino si chiamava Marco, era come se una scintilla di
tenerezza avesse riscaldato lo sguardo freddo del nemico che lo teneva
prigioniero.
Gli altri partigiani erano armati di mitra e di fucili e avevano sudici
fazzoletti di tela rossa legati intorno al collo. Doveva trattarsi di una
brigata garibaldina. Comunisti. I più spietati. Forse, lui era il capo. Ne
aveva l’aria e l’autorevolezza. Gli altri lo chiamavano con il suo nome di
battaglia, un nome che gli si addiceva: Gladiatore.
-Tenga, Bertarelli.
Gli restituiva il quaderno nero. Lo metteva nelle sue mani, perché dei
segreti che custodiva non gliene importava niente. Gli aveva sorriso
nuovamente, prima di dirgli: è pieno di strafalcioni, si vede che lei non ha
molta dimestichezza con la stenografia, Bertarelli. Erano passati quindici
anni, eppure, era come se fossero ancora alunno e professore, l’uno di fronte
all’altro, e le guance gli prendevano fuoco, mentre lui lo fissava con quegli occhi
chiari e imperturbabili, perché aveva scoperto il suo segreto, ammesso non
avesse nutrito qualche sospetto sul suo conto già da molto tempo prima, e non
era un piano di battaglia, la prova tangibile di un tradimento, no, niente del
genere, solo una vergogna da nascondere a qualsiasi costo.
RICORDI
Suo padre non era
molto d’accordo sul fatto che lui tenesse un diario, come le signorine. Lo
avrebbe rimproverato che perdeva tempo, invece di studiare, come era suo
dovere. Quell’anno doveva sostenere l’esame di maturità e un’eventuale sua
bocciatura era da ritenersi inammissibile. Il professor Bertarelli aveva dei
piani precisi sul suo conto, piani che non potevano essere rallentati o
intralciati da un incidente del genere. Per nulla al mondo: maturità a diciannove
anni; laurea in giurisprudenza a ventitré; esami da procuratore appena
possibile; matrimonio entro i ventisei, come raccomandava il Duce, e quel che
diceva il Duce a casa sua era da ritenersi sacro.
Suo padre. Un
infarto se l’era portato via un paio di anni prima, quando ancora era lecito
sperare, e in ogni caso giusto in tempo per vederlo laureato, accasato, padre a
sua volta e membro a tutti gli effetti del suo prestigioso studio legale. Era
un po’ presto per arrivare alla docenza universitaria, ma ci sarebbe arrivato,
e avrebbe seguito le sue orme passo passo. C’era di che essere orgogliosi di
quell’unico figliolo, arrivato inaspettatamente dopo dieci anni di matrimonio
infecondo, serio, studioso, ligio al dovere, fedele alla Patria e al Duce…
Carlo Bertarelli.
Avvocato. Capitano della milizia repubblicana di Salò. Uomo perbene,
trasparente come una lastra di cristallo… O no? Gli altri non sapevano. Lui sì.
Lui e il nemico, il capo partigiano che lo teneva prigioniero e che non lo
avrebbe lasciato andare, perché il tempo era passato, le circostanze cambiate,
lui non era più il giovane, cordiale professore di ginnastica amico dei suoi
studenti, era qualcosa di molto diverso, era…
Era un ricordo,
impresso indelebile nella mente, pensò Bertarelli sfogliando distratto le
pagine del quaderno nero. Era ciò che lo aveva spinto a parlare a un foglio di
carta delle sue emozioni e delle paure che gli mangiavano l’anima, come le
signorine svenevoli nei film dei telefoni bianchi. Era ciò che lo aveva spinto
ad entrare in un negozio puzzolente di muffa dove si vendevano libri usati, a
comprare per pochi centesimi un manuale di stenografia ad uso delle scuole
commerciali, tutto unto e senza copertina e ad imparare alla bell’e meglio
quella sorta di codice cifrato atto a proteggere da occhi indiscreti il suo
segreto. Suo padre aveva brontolato, quando se n’era accorto. Lasciala agli
asini delle scuole tecniche, la stenografia, gli aveva soffiato fra i denti,
come un gatto infuriato. Non era roba per lui, quella. Lui sarebbe diventato un
grande avvocato, come suo padre. Avrebbe ereditato il suo studio, i suoi
clienti, forse anche la cattedra di Diritto Civile all’Università… Perché
perdeva tempo? Perché non studiava quel che avrebbe dovuto studiare e si
gingillava in cose futili, come un fannullone?
Mio cugino Giovanni oggi mi ha accompagnato da Egle.
E’ stata la mia prima volta con una donna.
La sua prima volta,
già. Quella che avrebbe fatto di un ragazzo un uomo. La puttana aveva la pelle
bianca, le tette grosse e le cosce forti. Si chiamava Marietta, aveva una
vocina melensa, l’accento veneto e gli occhi storti. Quel che era successo
nella stanza ovattata e silenziosa del casino di Egle non gli era piaciuto, ma
non dipendeva dalla scarsa avvenenza della donna e neppure dalla sua
inesperienza se con lei aveva combinato poco e la sua prima volta non l’avrebbe
ricordata con tenerezza e con nostalgia, a distanza di anni. Adesso sei un
uomo, gli aveva detto il cugino Giovanni battendogli la mano sulla spalla. Lui
gli aveva indirizzato un sorriso timido e tutte le sensazioni che si prendevano
a pugni nel suo stomaco e nel suo cervello le aveva diligentemente annotate in
caratteri stenografici sul quaderno nero.
Non era bella, e puzzava di sudore. Ma temo che con
lei o con un’altra sarebbe stata la stessa cosa. La verità è che… Credo che non
mi piacciano le donne, ecco.
C’era un termine
ben preciso, nel dialetto genovese, per indicare gli anormali, i pervertiti che
si sentivano attratti da quelli del loro stesso sesso: bülicciu. Una brutta parola, che faceva pensare a qualcosa di
viscido, floscio, corrotto e maleodorante come i cartocci di pesce guasto che
le vecchie lasciavano ai gatti, nei carruggi[3] dell’angiporto. Se i suoi genitori avessero
saputo, sarebbero morti di crepacuore. Se i Padri Somaschi, nel cui istituto
avrebbe di lì a pochi giorni iniziato a frequentare l’ultimo anno del liceo,
avessero saputo, lo avrebbero scacciato come un lebbroso. Se i suoi amici
avessero saputo… Come se non bastasse, la legge lo vietava. Agli uomini era
consentito solo essere uomini per intero, non ibridi malriusciti. E per chi non
era abbastanza forte da nasconderlo, c’erano il carcere e il manicomio. Forse
era giusto che così fosse.
Sarò forte abbastanza da tenermi tutto dentro. Non
sarà facile, lo so, tener nascosto un segreto del genere per tutto il tempo che
Dio mi darà da campare. Dovrò imparare a fare credere di essere quello che sono
tutti gli altri… soffocare dietro un’apparente normalità i miei istinti. A
fingere di essere ciò che non sono. E che non sarò mai.
IL PROFESSORE DI GINNASTICA
L’anno scolastico
1930/31 non iniziava sotto i migliori auspici. E non solo per l’esame di
maturità, che avrebbe imposto agli studenti ritmi di lavoro pesanti, attenzione
costante, assenze ridotte all’osso e impegno totale nello studio. Il primo
giorno di scuola, padre Antonio Venturi, il direttore, era entrato in classe
con una faccia che metteva paura e aveva comunicato agli allievi che il
professore di ginnastica era deceduto.
-Una malattia tanto
grave quanto improvvisa.
Non aveva aggiunto
altro.
Non lo amavo, ma mi dispiace. Dispiace sempre quando
qualcuno che conosci se ne va.
Il professor De
Dominicis era un sottufficiale della Regia Marina a riposo[4], un napoletano piccolo e arcigno abituato a
pretendere dai suoi allievi la disciplina che, in servizio, aveva preteso dalle
sue reclute, e non aveva mai mostrato una grande simpatia per il figlio
dell’avvocato che aveva un sacco di soldi, vestiva come un milord, viveva in
una bellissima villa ad Albaro, veniva a scuola in Lancia Lambda Torpedo
guidata dallo chauffeur in divisa e
non riusciva a fare quattro flessioni di seguito senza che gli venisse il
fiatone. Quando si arrabbiava con lui lo chiamava “signorinella” e i compagni
ridevano. La signorinella dice che se si arrampica sulla pertica gli viene la
vertigine, eh?! Dice che il quadro svedese gli fa girà a capa… Dio, come ridevano, i maledetti. Avesse potuto, li
avrebbe ammazzati sull’istante, quando ridevano così. Loro, e quel dannato
napoletano con la faccia da scimmia e i mustacchi tinti.
De Dominicis
sarebbe stato dimenticato in pochi giorni. Il funerale, la messa in suffragio
nella cappella dell’istituto, con loro apparentemente attenti invece persi in
chissà quali pensieri. Come sarebbe andato il primo compito di greco, visto
che, durante le vacanze, credevano di essersi dimenticati tutto o quasi? E come
sarebbe stato il nuovo professore di ginnastica?
Sedute in prima
fila, la signora e la signorina De Dominicis piangevano, nascoste nelle loro
luttuose gramaglie. La figlia doveva avere una ventina d’anni, ed era carina.
Ti piace, gli aveva domandato Parodi, quello dell’ultimo banco, che era stato
bocciato tre volte di seguito e si dava le arie del ganimede perché era il più
vecchio della classe, fumava e s’imbrillantinava i capelli. Lui aveva accennato
di sì con la testa e lo aveva invitato a tacere. Siamo in cappella, Parodi, un
po’ di contegno…
Oggi, lezione di ginnastica. La prima con il nuovo professore.
Non avrebbe mai
creduto che potesse essere… così. I giovani insegnavano nelle scuole statali,
non negli istituti religiosi. I preti pagavano male i docenti laici, sicché
erano quasi sempre costretti a reclutarli tra quegli insegnanti in pensione che
avevano voglia o necessità di lavorare ancora per qualche anno. Ma quello era
diverso: poco più che trentenne, portava una maglietta bianca che gli aderiva
al torace come una seconda pelle, i calzoni della tuta e scarpe da tennis.
Aveva in tutto e per tutto l’aspetto di un campione sportivo: piglio deciso,
voce stentorea, grossi muscoli, una bella abbronzatura. Lo sguardo di Carlo
Bertarelli si posò per un istante sulle sue grandi mani forti. Niente anello al
dito, pensò. Non è sposato, chissà come mai. Meglio così, gli venne fatto di
pensare. Anche se non voleva.
Il nuovo insegnante di ginnastica si chiama Massimo
Meridio. Sicuramente non è di qua, ma dall’accento non si riesce a capire da
quale parte venga. Parodi dice che secondo lui è sardo. Macché, ho detto io, i
sardi sono piccoli, scuri e hanno un mucchio di u nel cognome. Comunque avrà
trent’anni circa e… Dio mio, è l’uomo più bello che abbia mai visto. Capelli
castani, occhi verdi. No, non proprio verdi. Più azzurri che verdi. Ha il corpo
modellato come una di quelle statue greche fotografate sui libri di storia
dell’arte. Darei tutto quello che ho per essere come lui.
Sta in un carruggio
dalle parti dei Macelli di Somiglia[5], in una di quelle brutte case vecchie. Vive
solo, anzi, no, sta con un cane lupo grosso come un vitello che mette paura a
guardarlo.
Un uomo solo, che
veniva da chissà dove e non poteva permettersi neppure l’affitto di una casa
decente. A scuola ci andava in tram. Quando ci si mettono, in pochi giorni gli
studenti riescono a conoscere vita morte e miracoli dei loro professori. E a
ricamarci sopra.
Sapevo che sarebbe capitato, prima o poi. E che non
sarebbe stato facile nasconderlo. Divento rosso e balbetto, se mi rivolge la
parola. Vorrei sentire su di me le sue mani e posare le mie su di lui, ma
quello che desidero e che sogno è impossibile. Nessuno deve accorgersi di
quello che sono. Nessuno. Mai.
Meridio aveva modi
gentili e un sacco di pazienza. Non sbeffeggiava gli allievi meno capaci,
com’era stato solito fare la buonanima di De Dominicis. Non si era mai sognato
di ridere dei suoi chili in più, della sua goffaggine e della paura che aveva
di farsi male. Non lo aveva mai chiamato “signorinella” e fatto sprofondare
dalla vergogna di fronte ai compagni che ridevano come tanti matti.
Lo amo per la sua bellezza. E per il suo cuore grande.
Lo amo. Ecco che l’ho detta, quella parola che non avrei voluto dire mai.
NON DOVREI
Oggi quella canaglia di Parodi ha portato in classe un
paio di fotografie con le donnine mezze nude. E’ roba che viene da Parigi, ha
detto. I miei compagni tutti a darsi via dalle risate matte, finché non è
arrivato padre Fossati per la lezione di filosofia e allora ha dovuto far
sparire tutto. Sarebbe stato un bel guaio, se si fosse fatto pescare… Io
comunque non so che cosa ci trovino di tanto interessante, in quelle porcherie.
A me fanno schifo.
Perché tu non sei
come loro, già, sei talmente pudico che se fosse piombato in classe
all’improvviso il padre Fossati, o qualcun altro dei preti dell’Istituto mentre
tu sbraitavi contro i tuoi compagni e quelle bagasce di Parigi fotografate
sulle cartoline che si passavano sghignazzando, avrebbero detto questo sì che è
un bravo ragazzo che ama Dio e ha il cuore puro, non voialtri debosciati e
anime perse… Gli venne in mente una barzelletta scollacciata che il solito
Parodi aveva raccontato un paio di giorni prima, provocando l’ilarità generale.
“Un intero battaglione di alpini si reca dal cappellano per la confessione del
precetto pasquale. Tutti rivelano al sant’uomo di essere stati a letto con La
Rosina, causando la sacrosanta indignazione del sacerdote e i suoi strali
contro i peccati della carne. L’ultimo dei giovani militari, però, confessa
solo colpe veniali e il cappellano, dopo essersi complimentato con lui per la
sua rettitudine, lo invita a dirgli il suo nome, in modo da poterlo citare come
esempio agli altri nella predica. E lui si presenta: Antonio La Rosina sior capelan…”
Avevano riso tutti
quanti. Anche lui aveva dovuto farlo. A denti stretti, ma aveva dovuto farlo.
Padre Fossati
parlava di Hegel e Fichte e lui non stava neppure a sentirlo. L’ora successiva
ci sarebbe stata lezione di ginnastica. Cercò di concentrarsi senza riuscirci
sull’Idealismo tedesco, ma il pensiero andava implacabilmente a Meridio con il
fischietto appeso al collo, le maniche della maglietta arrotolate sui bicipiti,
le guance abbronzate sporcate appena da un’ombra di barba, e quei meravigliosi
occhi chiari, così trasparenti che era possibile leggerci dentro. E se lui
avesse letto dentro i suoi quel segreto che voleva a tutti i costi nascondere?
Per la prima volta in vita sua, Carlo Bertarelli non maledisse gli occhiali da
miope che era costretto a portare dall’età di dieci anni e a causa dei quali i
compagni l’avevano dileggiato con i nomignoli di “cicala” e “quattrocchi”.
Sono un porco. Un anormale. Un mostro. Un folle
irrecuperabile. Un’anima persa. E sembro chissà che razza di angelo a chi ha
cura della mia educazione solo perché non sbircio le gambe delle ragazze che
girano in bicicletta o le tette delle puttane parigine in fotografia.
Se solo avessero
saputo. Se solo avessero potuto entrare un attimo nella sua testa, leggerci i
pensieri che facevano a pugni lì dentro, non devi, non devi, non devi… Potresti
smettere di pensarci, ma la verità è che non vuoi. Non hai forza di volontà.
Sei un mostro, un pervertito, un anormale destinato a soccombere ai suoi vizi…
Eppure, non vedeva l’ora che arrivasse la mattina per incontrarlo, per
guardarlo mentre lo salutava sorridendogli, e immaginava che quel sorriso fosse
indirizzato a lui soltanto.
Mi piace il suo modo di fare. Si rivolge a noi dandoci
del lei, ma lo fa per rispetto, non per piaggeria. Non gliene importa niente se
siamo i rampolli della Genova bene, se frequentiamo una scuola esclusiva,
vestiamo come principi e giriamo su macchine che sembrano transatlantici, sono
sicuro che si comporterebbe così anche se fossimo i figli dei camalli[6] del
porto. Da quando c’è lui, sono perfino migliorato, riesco ad arrampicarmi sulle
pertiche senza che mi giri la testa, e… Forse è perché non mi canzona se non ci
riesco.
Aveva deciso di
riuscirci, e c’era riuscito. Stringendo i denti, facendosi rosso come un
tacchino, vincendo le sue vertigini e le sue paure. E quando Meridio gli aveva
detto “Bravo, Bertarelli” s’era bevuto come fossero stati nettare e ambrosia
quelle due parole pronunciate con il fare cameratesco che gli era consueto. Lui
non aveva esitato a dimostrare ai suoi allievi quanto fosse abile alle pertiche,
alle parallele e al cavallo. Era agile come una scimmia, malgrado non avesse
meno di trent’anni suonati e si trascinasse addosso una zavorra fatta
d’ottantacinque chili buoni di muscoli.
“Bravo,
Bertarelli”. Dava del lei ai suoi allievi, e non per piaggeria, perché sapeva
bene di chi fossero figli quei ragazzi che gli stavano di fronte, ma non gliene
fregava un fico secco. La buonanima di De Dominicis, invece, dava del tu a
tutti quanti, neanche fossero stati bimbetti delle elementari, e se li trattava
a pesci in faccia, era per l’invidia che sentiva nei loro riguardi, lui che non
era nessuno e doveva spaccare il centesimo per mettere assieme il pranzo con la
cena.
-Domani pomeriggio
si va in piscina, ragazzi.
Buona idea, quella
del professore, visto che faceva ancora caldo e che loro avevano bisogno di
distrarsi un po’ dall’esame, spettro che già incombeva minaccioso, malgrado le
lezioni fossero riprese soltanto da pochi giorni. In piscina a nuotare. Il Duce
desiderava che tutti i giovani italiani fossero messi in grado di farlo ma lui,
Bertarelli Carlo, figlio di uno squadrista[7] della prima ora, non ne era capace. Aveva
paura dell’acqua. Vergogna.
Il coraggio non si
compra, s’era detto da sé solo, ma quando il professore gli aveva chiesto se
sapeva nuotare non aveva avuto l’animo di dirgli di no. Ci sarebbe andato anche
lui, in piscina con il professore e con i suoi compagni. E in quanto a trarsi
d’impiccio se fosse finito invischiato in qualche situazione antipatica, aveva
sempre la scappatoia di fingere un improvviso malore: chi non è coraggioso sa
mentire bene, di solito.
Ieri a momenti la facevo grossa…
-Se avesse detto la
verità, forse i suoi compagni non le avrebbero fatto lo scherzo di buttarla in
acqua, Bertarelli.
Invece loro lo
sanno eccome che io non so nuotare. Siamo cresciuti nello stesso quartiere, i
nostri genitori si sono sempre frequentati, si andava in spiaggia insieme…
Eccome se lo sapevano, accidenti a loro.
Avrebbe pianto, se
non fosse stato indegno di quell’uomo che doveva fingere d’essere, per la buona
pace di tutti.
-Li farò punire:
quella che hanno commesso nei suoi confronti è una vigliaccheria bella e buona.
-Lasci perdere,
professore: non è successo niente.
-Già, forse è
meglio lasciar perdere.
Come no: un
provvedimento disciplinare, e si sarebbero giocati l’ammissione all’esame di
maturità. Bertarelli aveva ragione, meglio lasciar perdere, in fin dei conti
quello scherzo cretino non aveva avuto conseguenze. Però aveva fatto male, il
ragazzo, a non dire la verità sul fatto che non sapesse nuotare. Una bugia
detta per orgoglio, la sua. Sicuramente. A diciotto anni si ha molto più amor
proprio che cervello.
-Coraggio,
Bertarelli. Per imparare non è mai tardi.
Gli sorrise. Il
giovane rabbrividì, mentre si asciugava con l’accappatoio di spugna.
-Potrei insegnarle,
se lo desidera.
Lui aveva scosso la
testa, scrollandosi i capelli fradici come un cane da riporto che esce dalla
palude. Quest’anno non è il caso. Magari più in là. E poi… Non credo che
riuscirei a vincere la paura che ho dell’acqua. E’ un qualcosa che mi porto
dentro fin da piccolo.
-Essere coraggiosi
non significa non avere paura, Bertarelli: significa mettersi in condizioni di
vincerla.
-Allora, beh…
forse. Ma non adesso.
Avevo otto anni quando, durante le vacanze in
campagna, caddi dentro un torrente e venni ripescato da un contadino. Da allora
mi è rimasto attaccato addosso il terrore dell’acqua, ma forse lui ha ragione,
mettendoci la mia buona volontà potrei riuscire a dominarla e a vincerla.
Erano altri gli
impulsi che lui sapeva bene di non essere in grado di dominare. E che gli
avrebbero rovinato la vita, prima o poi. Ma era stato bello quando il
professore s’era tuffato nella piscina per ripescarlo e gli aveva fatto passare
un braccio sotto le ascelle, stringendolo a sé. Potessi morire adesso, morirei
felice, aveva pensato. Lo avrebbe scritto sul quaderno nero, tutto quello che
sentiva allora, in caratteri stenografici, perché nessuno potesse violare in
qualche modo il suo segreto: né i suoi genitori, né i suoi insegnanti, e
neppure i suoi compagni che, ne era sicuro, nel silenzio delle loro belle
stanze arredate con gusto si toccavano tra le gambe pensando alle bagasce
parigine delle fotografie. Lui guardò il bel viso di Meridio, il largo petto
muscoloso spruzzato d’una peluria sottile su cui pendeva un canino di animale
legato ad un lacciolo di cuoio, le mani grandi e forti, le gambe solide, la
protuberanza del sesso, disegnata implacabilmente dalla stoffa dei calzoncini
da bagno. E inghiottì a fatica il suo respiro per nascondere le emozioni che
provava.
Non dovrei. Non dovrei, lo so. E’ arduo lottare contro
se stessi sapendo di dover soccombere.
LATINO E GRECO
Il primo trimestre
era andato e la pagella sarebbe stata la solita, senza infamia e senza lode,
non fosse stato per la vergogna di quelle due insufficienze, come aveva detto
suo padre saettandogli un’occhiataccia. Tutti sei. Cinque in greco. Quattro in
latino.
Era peggiorato:
prima riusciva ad agguantare la sufficienza anche in quelle due discipline
ostiche, ma questa volta evidentemente non si era applicato abbastanza. Era
l’anno della maturità, quello, e suo figlio non poteva giocarselo tanto
stupidamente. Gli avrebbe proibito di andare al cinema, di uscire la domenica
con gli amici. E avrebbe chiesto consiglio ai Padri perché gli segnalassero il
nome di qualcuno in gamba disposto a dargli lezioni private. Ti do tre mesi di
tempo perché tu rimedi a queste indecenze, gli aveva detto con la sua grossa
voce tonante abituata a pronunciare veementi arringhe in tribunale. Tre mesi di
tempo, e guai a te se…
Era strano a dirsi,
eppure padre Venturi, il direttore dell’istituto, gli aveva consigliato di
rivolgersi a Meridio. All’insegnante di ginnastica. E’ molto più colto di quel
che si potrebbe credere e ha un’incredibile padronanza delle lingue antiche,
gli aveva detto. Usa il latino con la stessa disinvoltura dell’italiano. Se la
tradizione dell’Istituto non imponesse che ad insegnare le lingue antiche debba
essere un religioso, non esiterei a offrirgli la cattedra di greco e latino.
Ha un’incredibile
padronanza delle lingue antiche, aveva pensato l’avvocato Bertarelli recandosi
a casa sua quel pomeriggio. E un disperato bisogno di denaro. Diversamente, non
vivrebbe in una casa coi muri scrostati e il cesso sul ballatoio, in un
quartiere puzzolente di pesto e baccalà ammollato. E’ un cattivo fascista. Non
ha il distintivo al bavero della giacca. Senza meno, non è neppure iscritto al
Partito. Diversamente, con le belle qualità che gli si attribuiscono, a
quest’ora sarebbe uno stimato docente universitario, non un poveraccio che si
guadagna la fame insegnando ginnastica in un liceo di preti. Fosse un buon
fascista, dovrebbe avere moglie e figli, invece di dividere casa sua con un
cane. Sono i cattivi fascisti, quelli che si attaccano alle bestie come fossero
esseri umani. Loro, già. O, peggio, i nemici che tramano nell’ombra contro il
regime e contro la persona del Duce. Cerchi di ficcargli in testa la consecutio temporum e quello che non sa,
ed eviti di parlargli di politica. Mio figlio di tutto ha bisogno in questo
momento fuorché di ulteriori distrazioni. La pagherò bene, e con la massima
puntualità.
Con lui non avrebbe
parlato di politica. Ma di vita sì, in quei pochi minuti di intervallo che
intercorrevano tra la fine della lezione e l’arrivo della Lambda Torpedo
guidata dall’autista in divisa che veniva a prenderlo per riportarlo a casa.
Casa sua era
squallida e brutta proprio come aveva immaginato: un androne buio impregnato
d’odore di aglio e stoccafisso, i muri scrostati, la scala stretta, con i
gradini consumati da centinaia e centinaia di anni e di passi.
Dentro, la luce era
abbastanza, ma i mobili vetusti e le mattonelle sconnesse.
-Si accomodi, Bertarelli,
la stavo aspettando.
Non perdere tempo
in chiacchiere, Carlo. Gli aveva raccomandato suo padre. Eppure, lui moriva
dalla voglia di parlarci, con quell’uomo bello e giovane, che aveva lo sguardo
franco e della vita sapeva più cose di quante ne sapesse lui. Con quell’uomo
che lo avrebbe capito, se avesse deciso di aprirgli il suo cuore, ne era
sicuro.
-Tanto per
cominciare, vediamo di non pensare al greco e al latino in termini di lingue
morte, Bertarelli. E’ un errore che commettono molti studenti, questo, e anche
qualche professore. E finisce col diventare il sistema migliore per detestarle.
Cerchi di pensare al latino come… come veicolo di comunicazione, ecco. Come una
lingua nella quale era anche possibile chiacchierare… litigare… parlare d’amore
ad una donna… imprecare se qualcosa andava storto… Insomma, dire o scrivere
qualcosa di diverso dalle solite orazioni e dai soliti saggi storici e
filosofici su cui gli studenti devono rompersi la testa per cercare di cavarne
qualcosa.
Che fosse un uomo pieno di vita e di energia lo
sapevo. Non avrei mai immaginato che fosse anche così colto. De Dominicis era
un ignorante. Del resto, anche mio padre dice sempre che la cultura non è
indispensabile per far piegare la schiena o arrampicare su una pertica quattro
ragazzini sfaticati. Ma lui è eccezionale in tutto. E mi è bastato guardarlo
una volta soltanto per saperlo.
Cicerone e Seneca?
Predicavano bene ma razzolavano malissimo. Tacito? Scrittore brillante, ma
storico di parte. Cesare? Un politico avveduto, ma l’uomo era divorato
dall’ambizione e dalla lussuria.
-E Marco Aurelio,
professore? L’imperatore filosofo? Padre Accorsi ci ha assegnato come compito
la traduzione di un brano delle “Meditazioni”.
-Marco Aurelio è
stato un uomo grande e sfortunato.
-Sfortunato,
perché?Quando un uomo ha il potere ed il danaro dalla sua ha tutto.
Lui aveva scosso la
testa prima di dirgli che Marco Aurelio li avrebbe dati via senza rimpianti, se
solo avesse potuto, in cambio di una vita serena e di una famiglia di cui
andare orgoglioso, lui che amava la pace e aveva trascorso metà della sua vita
sui campi di battaglia, lui che credeva in certi valori e si era ritrovato
sposato ad una donnaccia e padre di una povera infelice e di un sadico pazzo.
S’infervorava, quando ne parlava, come se Marco Aurelio fosse qualcuno del suo
sangue, qualcuno che gli era caro, non una cariatide, una mummia
incartapecorita che aveva chiuso gli occhi sul mondo oltre mille e ottocento
anni prima.
-Allora lei crede…
che anche per il nostro Duce sia stato un sacrificio terribile accollarsi sulle
spalle il peso del potere?
-Basta, non
parliamone più.
La sua espressione
era quasi seccata. E lui capì che se uno con le sue qualità era costretto a
vivere come viveva, forse era vero ciò che suo padre sospettava. Gli insegni
ciò che non sa. E si limiti a quello.
-Ne prenda un pezzo
anche lei, Bertarelli. E’ squisita. Farina, acqua, olio e sale: esattamente
quel che mangiavano i nostri antichi padri, duemila anni fa.
Eh, già. Una di
quelle delizie che uscivano dalle bottegucce fumose del centro storico e che
lui non aveva l’occasione di assaggiare tanto spesso, pensò addentando e
gustando il suo grosso trancio di focaccia ancora tiepida.
Mi ha detto che viene da un posto vicino a Roma. Ma
non ha l’accento di quelle parti. Non ha proprio nessun accento regionale, come
gli attori di teatro. E la sua voce è così bella che potrei pensare che lo sia
per davvero. E gli occhi? Delle volte, mi viene da pensare che guardino aldilà
di ciò che vedono, alla ricerca di mondi ormai perduti per sempre. Mi ha detto
che i suoi erano contadini. E che sarebbero stato orgogliosi di lui, se non
fossero morti quando era ancora un bambino. I miei, invece… Non credo che mio
padre sia orgoglioso di me. Lui, fascista della prima ora, lui, grande
avvocato, si sarebbe aspettato qualcosa di più, da suo figlio. Un ragazzo
bello, spavaldo, coraggioso e bravo a scuola, invece di un piccoletto pavido
che ha la pagella macchiata da due rotonde insufficienze e ancora non ha capito
niente né della vita né di se stesso.
Lo guardò alzarsi
dal tavolo, scarruffare il pelo a quel suo grosso cane che gli aveva posato la
sesta sulle ginocchia e si beava ad occhi chiusi delle sue carezze affettuose.
Una bella bestia tranquilla, dagli occhi acuti e dalla folta pelliccia. A lui i
cani erano sempre piaciuti, ma i suoi genitori non gli avevano mai permesso di
tenerne uno. Sarebbe una perdita di tempo e ti distrarrebbe dallo studio,
diceva suo padre. I cani sono sporchi e portano malattie, diceva sua madre, che
dai microbi era letteralmente terrorizzata. Si chiama Hercules, gli aveva detto
Meridio. Non è semplicemente ciò che sembra, un grosso cane bonario. Suo padre
era un lupo dell’ Appennino abruzzese, sua madre discendeva dai mastini bianchi
che, da tempo immemorabile, custodivano le greggi. Ecco, per conto mio bambini
e animali dovrebbero crescere insieme. Dagli animali possono venire grandi
lezioni di vita.
Quelle che non mi
hanno dato genitori severi e distanti, insegnanti che credevano di educarmi
umiliandomi… Come la buonanima di De Dominicis, che Dio l’abbia in gloria. Mi
chiamava signorinella davanti a tutti, e… E faceva male. Nessun insegnante
dovrebbe permettersi di umiliare un alunno che sbaglia.
Più il tempo passa, più gli voglio bene. E’ come se il
suo cuore celasse un segreto che vorrei scoprire. Oggi gli ho chiesto come mai
non è sposato e lui mi ha risposto che non se la sente di coinvolgere una donna
in una vita come la sua. Non ho capito che cosa intendesse dire e… Curioso,
l’ho guardato e l’ho immaginato vestito come un centurione romano. Come Marco
Vinicio, quello di “Quo vadis?”
LA FINE DELL’ESTATE
Settembre stava per
portarsi via gli ultimi brandelli dell’estate più lunga della sua vita.
L’incubo degli esami, il sollievo di averli superati a giugno[8], senza infamia e senza lode… La media del sei
non era un granché e suo padre aveva brontolato, ma all’università sarebbe
stato tutto diverso, come pedalare in discesa, e i piani che l’avvocato
Bertarelli aveva studiato per lui sarebbero proceduti senza intoppi. La laurea,
il praticantato, il matrimonio… Già, anche quello. E dopo due mesi noiosi di
noiose ferie trascorse in campagna, erano cominciate le feste noiose, con i
pasticcini e le bibite, il grammofono che gracchiava le canzoni di Alberto
Rabagliati e Ferruccio Tagliavini[9], le ragazzette agghindate come bambole che
ballavano tenute d’occhio dalle mamme e dalle zie zitelle. Tra quelle
ragazzette avrebbe trovato la moglie adatta a lui: caruccia senza essere troppo
bella, fine senza essere troppo intelligente, brava padrona di casa senza
troppi grilli per il capo, amante della famiglia e dei bambini… Anche prendere
moglie, farsi una famiglia era parte integrante dei suoi doveri di uomo e di cittadino.
Carlo Bertarelli si
morse le labbra, si rotolò sulla sabbia ruvida e grossa, che gli grattava la
pelle e guardò verso il mare. Parodi stava uscendo dall’acqua. Si sarebbe
sdraiato vicino a lui e avrebbe cominciato a parlare.Di donne, naturalmente,
dopo avergli sciorinato i suoi progetti: non si sarebbe iscritto
all’università, perché era un uomo d’azione, lui, e non avrebbe perso altro del
suo tempo prezioso a scaldare i banchi. Avrebbe tentato di entrare
all’Accademia Militare, e ci sarebbe riuscito, suo padre aveva gli agganci
giusti… Alle ragazze piacciono gli uomini in divisa, gli aveva detto,
strizzando l’occhio.
Entrarono nella
cabina a cambiarsi, prima uno, poi l’altro. Per cambiarsi, e per buttare
l’occhio, attraverso qualche fessura malandrina, a quel che succedeva
dall’altra parte. Le cabine, specialmente adesso che era settembre e gente al
mare ne andava molta di meno, erano diventate un luogo ambito dalle coppie in
cerca di tenerezza. Sembrava che Parodi si divertisse molto a spiare l’intimità
degli altri.
-Entra e butta un
po’ l’occhio dall’altra parte, Bertarelli. Ne vale la pena.
Lui. C’era una
donna tra le sue braccia. Una bella donna con le unghie laccate e i capelli
acconciati come Assia Noris[10]. I due si baciavano appassionatamente, e non
solo sulla bocca. Lei si era tirata giù il costume fino alla vita, e gli teneva
le mani serrate fra i riccioli della nuca, mentre lui le succhiava le tette.
Poi i ruoli si erano scambiati, e adesso era la donna che lo baciava.
Dappertutto.
Carlo Bertarelli
sentì l’urto del vomito salirgli in gola, come quando il medico gli cacciava in
bocca il manico del cucchiaio per abbassargli la lingua e controllargli le
tonsille. Arrossì e riuscì soltanto a borbottare tra i denti sei un porco,
prima di andarsene. Settembre si era portato via gli ultimi brandelli
dell’estate, e non quelli soltanto.
SEGRETI
-Vuole che le
faccia portare qualcosa da mangiare?
Bertarelli scosse
la testa in un cenno rapido di diniego. La cortesia dell’uomo che gli stava di
fronte lo inquietava e innervosiva più che non gli sguardi biechi degli altri.
Loro mi odiano, lui riesce a stemperare l’odio che sicuramente prova per me
nella pietà. Perché mi conosce. Perché ha letto i miei segreti, sul quaderno
nero.
-Lasciateci soli.
Gli altri avevano
ubbidito senza fiatare, compreso il piccoletto nervoso armato di mitra che si
faceva chiamare Drago, lo guardava di traverso e aveva sempre qualcosa da
recriminare.
Perché, adesso,
voleva stare da solo con lui? Per rinfacciargli, parola per parola, attimo per
attimo, tutto quel che aveva scoperto di lui, o che semplicemente la lettura
del suo diario aveva confermato? Per dirgli che il coraggio non si compra e non
si vende e che, a maggior ragione non si dimostra infilandosi la divisa di un esercito
fantoccio o assistendo senza batter ciglio alla tortura di decine e decine di
uomini in una delle tante “ville tristi” requisite allo scopo dalle SS?
Perché lo ha fatto,
Bertarelli? Che bisogno aveva di dimostrare al mondo quello che non era? Il fatto
di portarsi a letto uomini e donne non ha impedito al Macedone di conquistare
il mondo. Epaminonda e Pelopida, il politico e il generale che fecero grande
Tebe, erano amanti, e non avevano mai cercato di nasconderlo. Lui si era
lasciato cucire addosso la vita dagli altri, aveva ricusato di essere se
stesso, aveva nascosto il suo segreto dietro un matrimonio, una famiglia, una
divisa… Non se lo fosse portato via un infarto, il grande avvocato Bertarelli,
docente universitario e fascista ante marcia, sarebbe potuto andare orgoglioso
di suo figlio.
-E’ da molto che
non vede la sua famiglia?
-Un anno. Sono
sfollati a Campo Ligure.
-Le mancano,
immagino.
Bertarelli gli aveva voltato le spalle. No, non mi
mancano, la moglie che non potevo amare, il figlio che quasi non conosco, la
madre che ha ossessionato la mia adolescenza con l’incubo dei microbi e delle
malattie. Loro sono orgogliosi di me, invece. Del soldato coraggioso che ha
indossato la divisa e impugnato il fucile per difendere la Patria dai banditi. Loro non sanno niente di me.
Sono stato bravo a tenere nascosto il mio segreto.
-Ce l’ha ancora
quel suo bel cane?
-Sono passati tanti
anni, Bertarelli. E gli animali non vivono molto, questo lo sa bene.
Il suo sguardo
l’aveva avvinto come una catena di ferro. Quell’uomo nascondeva un segreto. Un
segreto che lui non avrebbe scoperto mai, anche perché, con ogni probabilità,
non gli avrebbero lasciato molto tempo da vivere. Era bello e giovane come
quindici anni prima, invece lui era invecchiato, gli era cresciuta la pancia,
parecchi capelli se n’erano andati e in mezzo a quei pochi che restavano ce
n’erano tanti bianchi. Ecco, era questo il suo segreto, continuare a restare
quello che era stato, a dispetto del tempo che passava, a dispetto della guerra,
a dispetto di tutto.
-Che cosa mi
succederà, adesso?
-Niente. Li vede
questi vestiti?Sono modesti e non troppo puliti, ma dovrà cambiarsi la roba che
porta addosso, se non vuole rischiare, quando uscirà di qui. Dopo, potrà
raggiungere suo figlio, in un modo o nell’altro. Sono convinto che la sta
aspettando.
E… E poi? Non osava
chiedergli che cosa sarebbe potuto accadere ancora, adesso che la guerra era
finita ma l’odio non si era spento. Scioglieremo le bande e consegneremo le
armi, secondo le disposizioni del Comando Alleato e del Governo provvisorio. La
guerra è finita, Bertarelli.
La guerra era
finita. La vita gliel’aveva lasciata, pensò, e la sua faccia si torse in una
smorfia sarcastica. Gli altri dovevano essere andati a donne. A pavoneggiarsi
con le armi in pugno un’ultima volta, prima che le autorità li costringessero a
consegnarle. Prima che le autorità obbligassero Meridio a sciogliere la sua
banda. Le ubbidiranno, professore? Mi ubbidiranno. Tutti quanti? Ne è sicuro?
Anche quello piccolo e nervoso, che lei chiama Drago?
Aveva
un’espressione seria, lo sguardo fermo, un ventaglio di rughe sottili agli
angoli degli occhi trsparenti. Anche la sua vita sarebbe cambiata, si ritrovò a
pensare Bertarelli, guardandolo di straforo. Quale segreto si nascondeva,
dietro la sua pelle fresca, i suoi capelli folti, la sua non comune bellezza,
contro la quale sembrava che il tempo non potesse nulla? Uscirà da qui e andrà
anche lei a cercarsi una puttana per festeggiare e per dimenticare, professore?
-Quella è la porta,
Bertarelli. Adesso se ne vada, prima che…
Vuole dimostrarmi
la sua generosità mettendo una pietra sul passato, professore? Magari quando
tutto quanto sarà finito si dedicherà alla politica e andrà dicendo in giro che
è venuto il tempo di dimenticare quello che è stato, che nel rancore e nella
vendetta non c’è nessuna grandezza… Come un eroe dei tempi passati. Come
qualcuno di quei personaggi di cui dovevo tradurre a fatica le gesta, quando
andavo al liceo e non riuscivo a ficcarmi in capo il greco e il latino.
-Drago!
-Lui di qui non
esce vivo. E’ un nemico del popolo ed è al popolo deve pagare il suo debito.
-No. E’ disarmato.
-Togliti dai piedi,
Gladiatore.
-Sta a sentire,
Drago…
-Non sto a sentire
nessuno.
-La guerra è finita,
Drago. Ragiona. Quello che tu chiami giustizia, la giustizia vera lo
considererebbe un omicidio…
-Sei troppo bravo
con le chiacchiere, tu, per essere uno di noi.
-Lo sono stato e lo
sono. Quello che non sarò mai… è un assassino a sangue freddo, Drago. E adesso
vattene, ubbidisci al tuo capo.
Drago aveva chinato
la testa ispida, abbassato a terra gli occhi, prima di voltarsi di scatto e di
svuotargli addosso l’intero caricatore. A lui, non a quella carogna di un
fascista davanti al quale si era parato per difenderlo, per risparmiargli la
fine che si meritava. Il suo capo era proprio uno stupido.
La carogna fascista
ha pagato i suoi debiti al popolo. E anche il Capo, che si era intestardito a
difenderlo, chissà come mai. E colui che chiamavano Drago, l’uomo piccolo e
dagli occhi biechi, aveva gettato il fucile mitragliatore accanto ai cadaveri e
al sangue, prima di tagliare la corda. Strana faccenda, la vita:quello che in
guerra veniva considerato un atto di valore, in pace si chiamava omicidio: una
colpa per cui avrebbe dovuto pagare, se fosse stata scoperta la sua
colpevolezza. Non le aveva fatte lui, le leggi che subiva, pensò digrignando i
denti fino a farli scricchiolare.
Bertarelli aprì gli
occhi, si alzò dopo essersi scostato di dosso il cadavere dell’altro. Ha pagato
con la vita la sua generosità, pensò. Era un eroe, anche se stava dall’altra
parte: un eroe coraggioso, mica come lui, che si era finto morto e che, quando
aveva creduto che quel Drago si stesse avvicinando per finirlo facendogli saltare
le cervella con la pistola s’era pisciato addosso dalla paura. Chi l’ha detto
che morire non fa male? Adesso farò ciò che mi ha detto pochi minuti prima che
quell’altro gli sparasse: mi infilerò questi quattro stracci e uscirò fuori di
qui, per andarmene via, dove non so. Dove nessuno potrà trovarmi e rinfacciarmi
quello che sono stato anche soltanto guardandomi.
-Allora,
Bertarelli: come se li figurava gli eroi dell’antichità classica, quando
tentava di ficcarsi in testa il latino e faceva fatica a riuscirci? Mummie
imbalsamate, forse? Stereotipi paludati? Magari cani idrofobi come quel Drago
che ha tentato di ucciderla e… e non c’è riuscito?
Avrebbe pensato che
quella voce calda e grave fosse la sua, non fosse stato pazzesco anche
immaginarlo soltanto. Avrebbe pensato che i passi pesanti degli scarponi
ferrati fossero quelli dell’uomo che credeva in qualcosa di diverso da ciò in
cui lui aveva sempre creduto, eppure si era fatto ammazzare, per salvargli la
vita. Avrebbe pensato che l’odore acre che gli solleticava le narici fosse
quello del sudore che impregnava il suo vecchio maglione di lana, piuttosto che
quello di tutto il sangue che gli era uscito dal corpo… Dio mio, quanto sangue
c’è, dentro il corpo di un uomo?
-Provi ad
immaginare un uomo… Un uomo semplice, cresciuto nel culto di valori veri. Un
uomo di origini modeste che, grazie alle sue capacità, era riuscito a diventare
qualcuno… Si chiamava Massimo, come me. Al tempo del Cesare Marco Aurelio
Antonino era il comandante in capo delle legioni Felix, quelle che presidiavano
i confini settentrionali dell’Impero… Marco Aurelio lo avrebbe adottato e
designato come erede, secondo la tradizione dei suoi predecessori. Ma
l’Imperatore morì all’improvviso, senza lasciare disposizioni sulla successione
e… Ricorda la storia studiata a scuola, Bertarelli? Ricorda chi fu il
successore di Marco Aurelio?
Commodo. Quello
pazzo, che si dilettava a battersi nell’arena con i gladiatori. Quello che,
così dicevano i libri di storia, sfidava i poveretti in duelli all’ultimo
sangue dopo averli fiaccati con le droghe o feriti il tanto che bastava a
debilitarli senza che però morissero subito… Perché sarebbe stato lui a
ucciderli, tra gli applausi della folla urlante.
-Commodo odiava il
pupillo di suo padre. Fu per questo motivo che fece sterminare la sua famiglia
e ridurre lui in schiavitù. Fu per questo che… Che Massimo venne costretto a
battersi nell’arena per il sollazzo della plebaglia e di quel bastardo del
sedicente Imperatore.
Gli sembrava di
sentire il cozzare delle spade, il clangore delle catene in quella voce che non
poteva venire da un luogo che non fosse il suo cervello in confusione. Che ne
fu di lui? domandò quasi senza pensarci.
Bertarelli si voltò
lentamente, temendo di vedere ciò che i suoi occhi avrebbero visto. Lui,
Meridio. S’era strappato di dosso il lercio maglione nero e il suo corpo era
intatto, anche se lui l’aveva visto cadere colpito, l’aveva visto perdere tutto
il sangue che aveva dentro. Chiuse gli occhi, inghiottì il groppo che gli serrava
la gola, e aspettò in silenzio che l’altro continuasse a parlare. Il nome di
battaglia che si era scelto, non a caso, era Gladiatore.
-Quell’uomo si
chiamava Massimo Decimo Meridio, e morì nell’arena subito dopo aver ucciso il
tiranno, perché giustizia fosse fatta… Finché una donna perdutamente innamorata
non riportò la sua anima indietro dall’aldilà: per sempre.
Ciò che aveva
sentito era assurdo almeno come ciò che aveva visto e vissuto. Eppure, si disse
guardandolo ancora, c’era qualcosa di più assurdo dell’esistenza stessa? Grazie
al cielo, i vestiti che Meridio gli porgeva non erano imbrattati di sangue.
-Si cambi,
Bertarelli. Si cambi e vada via di qui alla svelta.
Se ne vada. E porti
via per sempre i suoi e i miei segreti.
FINE
Lalla, 29 novembre 2002
Questo racconto è dedicato a tutti coloro che hanno il
coraggio di essere se stessi, sempre e comunque. E a Genova, la città in cui
sono cresciuta e che considero la più bella e più magica d’Italia.
[1] L’esercito tedesco.
[2] Militante dell’esercito di Salò, collaborazionista.
[3] Le stradicciole strette e
tortuose del centro storico di Genova.
[4] L’unico istituto superiore per lo
studio dell’Educazione Fisica esistente in Italia era allora la Scuola dello
Sport al Celio, in Roma. La maggior parte di coloro che insegnavano ginnastica
nelle scuole erano provvisti di titoli di studio generici e spesso si trattava,
nelle sezioni maschili, di militari in congedo o di ex atleti che avevano
praticato qualche attività sportiva a livello agonistico.
[5] Rione del centro storico di
Genova.
[6] Scaricatori di porto.
[7] Fascista della primissima ora,
che poteva fregiarsi di aver partecipato alla marcia su Roma.
[8] Come ben ricordano i più anziani, i “vecchi”esami di maturità erano un affare serio: bisognava sostenere le prove in tutte le materie, dimostrare di conoscere anche i programmi degli anni precedenti e c’era il rischio concreto di finire rimandati a settembre. L’esame senza infamia e senza lode di Carlo Bertarelli non è quindi poi così disprezzabile…
[9] I più popolari cantanti di
musica leggera dell’epoca.
[10] Famosa diva del cinema dei
“telefoni bianchi”.