Storie de Il Gladiatore

Storie ispirate dal film Il Gladiatore

Lettura sconsigliata ai minori di anni 18

 

 Massimo l’Immortale

BYZANTHIUM

Seconda parte

di Lalla Usai

 

IL MESSAGGIO

 

Bisanzio, Anno Domini 523

 

“…mein Herr?”

Come una furia, il giovane, grosso soldato goto ancora rivestito della sua corazza e armato della sua lunga spada si mise a picchiare sulla robusta porta chiusa con tutta la forza dei suoi pugni, quasi avesse voluto buttarla giù, e fiondarsi senza domandare permesso dentro gli appartamenti nei quali doveva esserci il suo comandante, visto e considerato che non era stato possibile trovarlo in nessun altro luogo tra quelli dov’era logico potesse trovarsi in quel momento. Un corriere impolverato e sudato, in sella ad un cavallo altrettanto impolverato e sudato, gli aveva messo in mano un rotolo sigillato con la ceralacca, ingiungendogli di consegnarlo quanto prima possibile, nelle mani di Massimo Decimo Meridio, il Comandante delle guardie del Basileus. Nelle sue e in quelle di nessun altro, il messaggio era personale e riservato, guai se un estraneo lo avesse aperto e letto. Ma il pericolo non sussisteva, visto che il ragazzo non sapeva né leggere né scrivere e che, per quanti sforzi avesse fatto il Comandante nel tentativo di impartirgli un minimo di istruzione, lui non aveva neppure imparato a scarabocchiare le sua firma. Anzi, a stento aveva compreso quanto il corriere a cavallo, che gli si era rivolto in latino, gli aveva detto a proposito del suo superiore e di quella cartaccia.

 

“…Mein Herr?” Hagen aveva diciannove anni, il colorito roseo, i capelli biondo paglierino e la testa più dura di un mulo. Gli altri non lo giudicavano troppo sveglio, ma era forte e se la cavava a menare le mani e far roteare lo spadone, come tutti i Germani. Il Comandante gli voleva bene. Avevo un amico che si chiamava come te, tanti anni fa. Diventava triste, quando gliene parlava, e allora Hagen capiva che quell’amico che portava il suo stesso nome doveva essere morto. Il Comandante era un bell’uomo sulla trentina, con il viso incorniciato da una gran criniera di riccioli castano chiari, due spalle enormi, gli occhi azzurri come ce li avevano loro, gli impavidi guerrieri del Nord e non i rammollacciati romani che erano stati i padroni del mondo e ormai non sapevano più combattere. Portava al collo un lacciolo di cuoio con appesa una zanna d’animale e un medaglione d’argento con la testa di un lupo sbalzata sopra. E i soldati Alemanni e Goti che ubbidivano ai suoi ordini ma non riuscivano a pronunciare correttamente il suo nome lo chiamavano Wulf. Lupo. Lui non sembrava aversene a male, anzi, non sembrava nemmeno un maledetto romano, con quei capelli che gli arrivavano alle spalle, quegli occhi azzurri e quel corpo poderoso.

 

“Mein Herr?!” L’abbaiare di Hagen si stava facendo stridulo, lo sbattere dei pugni sulla porta furibondo. “il Comandante? Sarà andato a puttane. Che credi, che dentro le brache non abbia quello che abbiamo noi?”

Lo rispettava, anche perché lui rispettava i suoi uomini, ma una cosa del genere non s’era mai sognato di metterla in dubbio, tuttavia quella missiva doveva consegnargliela prima possibile. A lui e a nessun altro, il corriere era stato chiaro in proposito.

Già, doveva essere andato a puttane. Non aveva una moglie, né una relazione fissa, malgrado fosse un così bell’uomo e piacesse molto alle donne, con qui capelli lunghi ma sempre puliti e ben pettinati, la barba curata, i vestiti eleganti che odoravano di nardo e di sandalo. Forse aveva sempre quell’aria triste perché era solo, per scelta o per forza.

 

La porta non era chiusa a chiave dal di dentro. Visto che bussare era stato inutile, perché non entrare senza tante storie? Hagen  la spinse, entrò. Gli appartamenti del Comandante erano arredati con semplicità spartana e anche il fatto che non amasse il lusso lo rendeva diverso da tutti coloro che bazzicavano la Corte Imperiale, fosse stato solo per pulire le latrine.

Nell’aria aleggiava l’odore del fumo delle torce e l’aroma sottile delle essenze di nardo e sandalo di cui faceva un uso discreto. Poche gocce soltanto. Il Comandante detestava la sporcizia e i cattivi odori e aveva costretto i suoi uomini a lavarsi regolarmente e a non ungersi i capelli con il grasso. Un uomo truccato e profumato come una baldracca non è un uomo, diceva sempre. Ma ma non è due volte uomo solo perché è unto come una frittella e puzzolente di burro rancido; capace che avesse ragione, erano legioni le donne che gli correvano dietro. Alle loro narici delicate senza meno risultava più gradito l’aroma sottile e discreto del nardo piuttosto che il lezzo del sego, delle pelli conciate male e del sudore stantio.

 

Hagen scostò la tenda pesante che nascondeva l’alcova e le guance rosee gli diventarono rosse come il fuoco. L’aveva trovato, finalmente, il Comandante che aveva cercato come un’anima persa in giro per tutto il Palazzo, ma forse sarebbe stato meglio per lui non averlo trovato. Non era un uomo che perdesse le staffe con facilità, ormai lo conosceva bene, ma si sarebbe arrabbiato, quella volta, eppoi era forte come un toro, e chi lo avrebbe tenuto? Giaceva completamente nudo, le vergogne a malapena nascoste dalla coscia affusolata della più bella creatura che mai gli fosse stato dato di vedere, una nubiana nera come la notte, dai lineamenti delicati e dai seni superbi, nuda anche lei, e languida nell’abbraccio con cui gli si stringeva contro, dopo l’amore.

 

“Mein Herr… Forse ho fatto male a cercarti, ma mi hanno detto di consegnarlo subito…a  te e a nessun altro.”

Massimo sorrise, allungando la mano per prendere la pergamena.

“Se ti hanno ordinato di consegnarmela immediatamente, ubbidendo hai fatto il tuo dovere, Hagen. Ma adesso sparisci: non lo vedi che sono occupato?”

Gli rispose parlando nella sua lingua, che conosceva benissimo, e aggrottando le sopracciglia, che aveva chiare, folte e spettinate. Sembrava arrabbiato sul serio, ma si capiva che scherzava, non foss’altro che per tentar di vincere l’imbarazzo. Invece di andarsela a cercare come sosteneva quel pettegolo del suo amico Rakimer, se l’era portata in casa, la puttana. Già, in quel che il Comandante teneva nascosto nelle brache non c’era un bel niente di diverso rispetto a quel che ci teneva lui o tutti gli altri uomini, le sue necessità e le sue esigenze erano perfettamente identiche, anche se aveva abbastanza denaro, o abbastanza fascino, perché no, da potersi permettere che a soddisfarle fosse una donna come quella negra stupenda che gli si strofinava contro, sensuale e languida come una gatta.

 

Prima di lasciare quella stanza Hagen aveva lanciato un’ultima, rapida occhiata alla donna. Belle tette, pensò. Che il Comandante avesse buon gusto in fatto di donne, era una cosa che nessuno aveva mai messo in dubbio.

 

GIUSTINO

 

-Vieni qui, Massimo… Avvicinati.

Giustino allungò verso il comandante delle sue guardie la mano carica di anelli. Era la mano tozza di un contadino, quella, segnata dalle spaccature e nera d’una sporcizia che non veniva via, la stessa di quando, ragazzo, pascolava le capre nei magri prati della Macedonia prima d’arruolarsi per disperazione nell’esercito del Basileus. Ne era passata parecchia, d’acqua sotto i ponti, e Giustino aveva fatto carriera: da semplice soldato a ufficiale, da ufficiale a generale… Da generale a imperatore, ed era riuscito a rimanere l’uomo grossolano e volgare di sempre. Non sapeva né leggere né scrivere e, malgrado fosse avvolto di seta e carico di gioielli, aveva l’aria sporchiccia e puzzava sempre un po’. Difficile, per chi non lo sapeva, credere che era quello che era. Ma non sembrava che potesse importargliene più di tanto.

-Allora?

-Avrei bisogno d’una licenza, Sire.

Giustino fece per alzarsi dal seggio, ma non completò l’operazione. Quella maledetta gamba non cessava un istante di dargli fastidio. La gotta, avevano sentenziato i medici. La gotta e una vecchia ferita di guerra che non era mai guarita del tutto.

-Di una licenza? Lunga o breve?

-Questo non dipende da me.

Gli piaceva, Massimo. Era bello, coraggioso, e aveva lo sguardo fiero e diretto di chi non sa mentire. Quanto era diverso dai cortigiani insinuanti, dai preti e dagli eunuchi di cui il suo predecessore, Anastasio, aveva amato circondarsi. Se sua moglie, la Basilissa Eufemia, fosse stata in grado di dargli un figlio, uno così gli sarebbe piaciuto. Ma figli non ne erano arrivati e Giustino si era ritrovato costretto a cavar fuori dalla sua capanna di sterpaglie in Macedonia e dalle sue capre puzzolenti Giustiniano, il figlio di suo fratello. Un ragazzo intelligente e di talento, che tutto sembrava fuorché discendere da una genia di caprai, aveva studiato con profitto e non lo avrebbe deluso, questo era sicuro.

 

-Ah, non dipende da te. E da chi altri?

-Mia zia sta molto male, Sire.

-Tua zia. Eh, già.

La storia gliel’aveva sentita raccontare tante volte: i suoi genitori erano morti nell’incendio della loro casa quando lui aveva sette od otto anni e a crescerlo era stata la famosa zia. Massimo era nato e cresciuto in un piccolo podere dell’Hispania Baetica, almeno, in quel modo si chiamava quando era ancora provincia dell’Impero d’Occidente. Adesso era territorio visigoto.

-Vorresti…riuscire a vederla viva un’ultima volta.

-O almeno gettare una manciata di terra e qualche fiore sulla sua tomba. E’ molto vecchia… E anche molto malata.

-L’Hispania è lontana. Ai confini occidentali del mondo, mi è stato detto. Oltre il mare che bagna le sue coste c’è il vuoto.

Mi piaceva sedermi sulla spiaggia e guardare le onde frangersi sulla riva, ma non ho mai pensato che oltre l’orizzonte il mondo finisse. Finis Terrae: era così che i marinai chiamavano quel promontorio. Mi piaceva pensare a quello che eravamo e non siamo più… Io ho conosciuto quei tempi, quella grandezza, ma mi tengo dentro il segreto, altrimenti passerei per pazzo. Certo, non è facile tenerselo, e nemmeno conviverci.

 

-Vai, e cerca di badare a te stesso. I Visigoti sono nostri nemici.

-Non viaggerò per quelle terre come un soldato bizantino, ma come un viandante qualsiasi. E porterò con me l’arco e la spada, sire.

Sono certo che all’occorrenza saprai bene come usarli: nello stesso modo in cui, pochi mesi fa, hai deviato la mano armata di pugnale che voleva uccidermi, Massimo… Il più fedele, leale e sincero dei miei sudditi.

 

Sincero? Solo perché non aveva mai imparato a mentire ed era più facile leggere in fondo al suo sguardo che le parole scritte sopra un libro aperto. Non hai una zia moribonda che desideri vedere prima che se ne vada per sempre, Massimo. Forse il tuo viaggio non ti porterà ai confini occidentali del mondo, dove onde che hanno il colore dei tuoi occhi si frangono sulle scogliere di un promontorio che i marinai chiamano Finis Terrae. Forse è per una donna, che mi hai chiesto di partire: una donna giovane e bella, non una vecchia arrivata al termine della sua vita.

 

NOTTE DI LUNA PIENA

 

Pentepolis, Africa Settentrionale

 

La donna si chinò sulla culla a guardare la sua bambina. Aveva piagnucolato tutto il giorno, per poi addormentarsi esausta quando il sole aveva cominciato a calare dietro le dune alle spalle della città. Sono i dentini, aveva sentenziato la vecchia Procopia, cercando di strofinarle le gengive irritate con una mistura di miele e di nepente che avrebbe dovuto lenire il fastidio e assicurarle una tranquilla nottata di sonno. Niente di grave, e le parole della vecchia serva avevano rassicurato la madre. Aveva messo al mondo ben quindici figli, e qualcosa a proposito dei bambini e dei loro piccoli malanni doveva pur conoscerla.

-E’ normale che succeda. Diventano tutti nervosi, quando stanno mettendo i denti. Per il resto, non hai da preoccuparti, Sofia è sana e robusta, sta crescendo proprio bene.

 

La piccola, che dormiva nella sua culla avvolta dalla zanzariera, era grossa, pienotta, con tanti capelli e le guance colorite. Una creatura placida, sana e appagata, a cui la vita aveva sorriso fin da quando i suoi occhi s’erano aperti sul mondo. Non ha sofferto quel che ho sofferto io, pensò la giovane donna, accarezzandole piano la guancia vellutata. Non soffrirà quel che sto soffrendo ancora.

 

-Vai a coricarti, despoina.[1] Tua figlia adesso dorme e non ha bisogno di te. Vuoi che ti prepari qualcosa che ti aiuti a prender sonno?

No, le rispose la padrona con un cenno deciso della testa volto a scoraggiare ulteriori domande e consigli non richiesti. Procopia trovava strano che quella donna giovane, bella e ricca, avesse deciso di allattare personalmente la figlia, invece di affidarla a una balia. Ti si carieranno i denti, le aveva detto. Ti si indeboliranno le ossa. Diventerai brutta e il padrone…

…E il padrone non ti vorrà più e non avrà remore per mandarti via, visto che non sei sua moglie ma solo la sua concubina. Doveva averlo pensato, anche se si era trattenuta dal dirglielo.

-Che ci fai ancora qui? Non ho bisogno di niente.

 

La luna piena e le stelle illuminavano il buio cupo della notte. Il silenzio era rotto soltanto dall’abbaiare acuto degli sciacalli, oltre le mura della città, e da quello più grave dei grossi cani che montavano la guardia davanti alle tende dei beduini. Era una piccola città, Pentepolis. Una città fatta di case costruite di fango impastato con l’acqua e calcinate dal sole feroce del deserto che si estendeva, immenso e misterioso, alle sue spalle. Ma Acebalo il ricco mercante non l’aveva portata a vivere in una casa di fango, quando l’aveva convinta a seguirlo. Il suo palazzo di marmo, decorato con splendidi mosaici e circondato da un giardino che sembrava fiorito per miracolo in quella terra arida e rossa, era il più bello della città, assai più lussuoso e raffinato della residenza stessa del Governatore. Non avrebbe potuto immaginare niente di simile quando, bambina, si coricava con la pancia vuota o, giovinetta, era costretta a barattare il suo corpo con il cibo e con l’acqua. Eppure…

 

Eppure non mi basta. Forse sono malvagia e ingrata: ma non mi basta.

Pentepolis era una piccola, sporca città africana infestata dalle mosche, dove la noia si respirava con l’aria rovente del giorno e il freddo della notte. Il palazzo era una prigione dorata e Acebalo un uomo mediocre, che sembrava interessato solamente a incrementare i suoi guadagni e a gettare le basi per una futura, prestigiosa e redditizia carriera politica nell’ambito locale. E per una vita nella quale, forse, non ci sarebbe stato posto per lei né per la loro figlia bastarda.  Prima o poi, l’avrebbe messa alla porta, con la scusa che la loro relazione illecita gli avrebbe potuto rovinare la carriera. Sposarla? Non ci aveva mai sperato, neppure quando, i primi tempi, Acebalo era, o forse sembrava soltanto, pazzo di lei.

 

Il buio e il silenzio quieto della notte stellata non riuscivano a conciliare il suo sonno e la donna si ritrovò a pensare a tante cose. A Bisanzio. All’odore salmastro che si respirava nei pressi del porto Bosphoreion, alla folla variopinta e stracciona, alle pareti incrostate d’oro delle basiliche, al mercato, all’Ippodromo, ai Palazzi Imperiali, così sontuosi e distanti che la maggior parte degli abitanti della città poteva solo immaginarli. Perfino agli sguardi vacui dei soldati barbari che uscivano ubriachi dalle bettole. Sentimento strano, la nostalgia, capace di farti sognare con rimpianto un passato che non dovresti rimpiangere, eppure… Le sue dita indugiarono a giocare con la perla nera che le pendeva sul petto, appesa ad una sottile catena d’oro. Lasciare quell’uomo per Acebalo, rifletté serrando forte le palpebre sugli occhi, era stato l’errore più madornale della sua vita. Non ha niente da darmi, aveva pensato allora, anche se il bene più prezioso che possedeva, la libertà, era da lui che le veniva. E lei l’aveva lasciato per un uomo avido e danaroso che le aveva donato gioielli d’oro, una figlia e nessuna certezza. In vita mia, è troppa la fame che ho patito… Lui non l’aveva perdonata, gliel’aveva letto negli occhi, l’ultima volta che erano stati insieme: verdi, azzurri e dorati come il mare, incapaci di mentire, incapaci di nascondere qualcosa, fosse gioia, fosse tristezza…

 

Teodora rabbrividì, al refolo di vento freddo che soffiava dal deserto, e si strinse nel mantello che l’avvolgeva. Sarebbe fuggita via, pensò. Come una ladra. Come un’ingrata.

 

IL BEDUINO

 

Il bramito profondo dei dromedari, il tonfo sordo dei loro passi sulla polvere della strada annunciavano l’approssimarsi della carovana, prima ancora che la luna piena illuminasse con la sua luce pallida la sagoma dell’animale di testa.

Era una magnifica bestia dal mantello candido, in groppa alla quale se ne stava appollaiato uno di quegli uomini del deserto, solenni e silenziosi, con cui Acebalo intratteneva da tempo proficui rapporti commerciali. Uomini strani, intabarrati di nero, la metà inferiore del volto nascosta da una pezza blu che non si toglievano mai davanti agli estranei e gli occhi taglienti, sottolineati da una spessa riga di bistro, occhi misteriosi e senza espressione come quelli dei ghepardi dai collari d’oro che i cacciatori sguinzagliavano all’inseguimento delle gazzelle. Pastori di cammelli, abili artigiani dalle cui mani uscivano pregevoli tappeti e raffinati gioielli d’argento. Predoni, sinistri come fantasmi e silenziosi come gli spiriti del fuoco e della sabbia che erano i loro dei, perché, anche se drizzavano strane croci sulle selle delle loro cavalcature, i Tuareg non adoravano le tre Persone della Santissima Trinità ma idoli falsi e bugiardi.

 

Il dromedario di testa si fermò proprio davanti alla casa di Acebalo, e lasciò passare gli altri, non meno di una cinquantina, alcuni montati da uomini, altri carichi di masserizie, che incedevano solenni, preceduti dai grandi levrieri  che aiutavano i nomadi nella caccia e tenevano le bestie selvatiche alla larga dalle loro tende.  L’uomo che lo montava alzò gli occhi al terrazzo, l’attenzione attratta da un lieve rumore, una biscia tra le sterpaglie, l’arrampicarsi di un geco sul muro…

Perché si sarà fermato proprio qui? Pensava Teodora, mentre un brivido che non era causato dal vento del deserto le attraversava il corpo. Si strinse più forte nello scialle di lana, senza staccare gli occhi dall’enorme dromedario bianco che se ne stava immobile come una statua di sale fuori dal muro che circondava il giardino della sua casa.

L’uomo che lo montava si era voltato e sicuramente doveva aver guardato in alto con i suoi occhi bistrati e distanti, inquadrati tra il turbante e il taguelmoust[2] che gli nascondeva la metà inferiore della faccia. Aveva sempre avuto paura degli uomini del deserto, lei. Sembravano spettri. Sarebbero stati capaci di tagliarti la gola per rubarti un pugno di monete. Eppure… Un pensiero insistente le crebbe nella testa, del tutto indipendente dalla sua volontà. Rientrò dentro, si chinò a guardare la sua bambina nella culla. Dormiva profondamente, di certo la mistura che a base di papavero e miele che la vecchia Procopia le aveva strofinato sulle gengive per lenire il fastidio dei dentini che spuntavano le aveva conciliato quel sonno di piombo, dopo una giornata intera trascorsa a piagnucolare e agitarsi.

 

Non posso lasciargli le sole cose che mi ha dato, pensava Teodora muovendosi inquieta e silenziosa nella stanza buia. Aprì il baule, ci frugò dentro a tastoni e le dita non impiegarono molto a trovare quel che cercava: una fascia di seta, all’interno della quale aveva cucito alcuni dei suoi gioielli: aveva scelto i più piccoli e i più preziosi, i più facili da tenere nascosti. Barattandoli, avrebbe avuto di che vivere, in attesa di tempi migliori, quando fosse tornata dove intendeva tornare. Si legò la fascia intorno ai fianchi, sulla pelle nuda. Gli abiti avrebbero nascosto tutto quanto.

 

Il dromedario bianco e il beduino nero erano ancora immobili sotto la luna, accanto al muro di cinta della villa di Acebalo, come se fosse proprio lei quella che aspettavano.

Non so neppure chi è. Potrebbe stuprarmi e uccidermi, potrebbe riportarmi indietro per intascare una lauta ricompensa, una volta saputo chi sono. Ma sento che devo farlo, o questa casa e questa città saranno la mia prigione per sempre.

Si chinò sulla culla, prese in braccio la piccola Sofia che continuava a dormire, l’avvolse nella coperta. Non posso lasciargli le cose che mi ha dato. Pensava mentre scendeva le scale in punta di piedi, mentre, con il cuore in gola, attraversava il giardino e alzava il catenaccio di una piccola porta secondaria nascosta dai rampicanti, l’ultimo baluardo tra lei e la libertà.

 

LA STRADA PER ALESSANDRIA

 

La donna si muoveva circospetta, come ansiosa d’essere scoperta, e al beduino in sella al dromedario bianco non fu difficile comprendere che stava fuggendo. Da qualcosa. O da qualcuno, più probabilmente. Vestiva con semplicità e aveva la testa coperta da un cappuccio. Forse doveva ringraziare la distanza e il buio, di questo, ma sembrava giovane. Probabilmente era anche bella, si muoveva con agilità e con grazia, malgrado l’ansia e la paura impacciassero i suoi movimenti non meno del fagotto che teneva tra le braccia e che aveva tutta l’aria di un neonato addormentato.

 

-Salute a te, Kyrie[3]

Si era rivolta a lui in greco e l’uomo, grazie al cielo, l’aveva capita. Anni a battere quelle piste, dal deserto al mare, anni impiegati a trattare affari con le genti della costa gli avevano dato una sufficiente conoscenza di quella lingua così diversa dalla sua.

-Dove si ferma la tua carovana?

Prima di risponderle, il beduino fece inginocchiare il suo dromedario, smontò di sella e le si parò davanti. Non si capiva molto di lui, intabarrato com’era nel barracano e nel mantello, la testa avvolta in un ampio turbante, il taguelmoust a proteggergli il naso e la bocca dalla sabbia del deserto e dagli spiriti maligni. Sembrava più giovane che vecchio, dalla postura eretta e dall’atteggiamento fiero, ma il buio della notte e l’abbigliamento che indossava potevano anche ingannare. Quel che non ingannò Teodora fu l’elsa della corta spada tuareg che faceva capolino dalla sua fusciacca: un uomo armato e pericoloso. Un predone. Ma ormai si era messa nelle sue mani e non poteva tornare indietro.

 

-Alessandria d’ Egitto.

-Bene. Posso sperare che mi porterete fin lì… pagando, naturalmente?

L’uomo assentì con un cenno della testa. Non fece domande, e si limitò a scostare la coperta dal visetto della piccola Sofia, che continuava a dormire placidamente.

-Bel bambino. E’ tuo?

-E’ una bambina.

 Teodora strinse più forte la piccola Sofia, temendo che quell’uomo potesse farle del male con un solo sguardo, anche se non sembrava animato da cattive intenzioni. Parlava poco, ma aveva modi gentili, e una bella voce.

-Ci accamperemo fuori città e passeremo lì il resto della notte. Ci sono diversi giorni di cammino da qui ad Alessandria. Non puoi seguirci a piedi e sarebbe ora che cominciassi ad abituarti al passo del cammello. Sai cavalcare?

Teodora negò, scotendo la testa. Beh, non importa, tanto non è la stessa cosa, le disse l’uomo. Chiamò quindi uno dei suoi e nella loro lingua gutturale gli spiegò quel che voleva. Una bestia docile e il baldacchino. Abbiamo una passeggera.  Una che non è mai stata sopra un dromedario.

 

-E’ un po’come andare per mare. I primi tempi può dare fastidio, poi ci si abitua.

Come se lui, un uomo del deserto, fosse salito sopra una nave, e non una volta e per caso. Sei un uomo strano, avrebbe voluto dirgli. Ma non gli disse nulla. Dimmi almeno qual è il tuo nome, perché possa sapere chi debbo ringraziare. O maledire. Ma non parlò, e salì sul baldacchino che era stato montato in groppa alla sua scomoda cavalcatura, sperando che il viaggio non fosse troppo disagevole, quell’uomo troppo infido e la strada per Alessandria troppo lunga.

 

IL CARAVANSERRAGLIO

 

Si fermarono a trascorrere la notte in un caravanserraglio a qualche miglio da Pentepolis. Teodora chiese ed ottenne dell’acqua per rinfrescarsi il viso e pulire la sua bambina: non l’aveva mai fatto, e trovò tutta quanta la faccenda, nell’insieme, piuttosto disgustosa.

-Non sprecare l’acqua. Nel deserto è un bene più prezioso dell’oro, Kyria.

Così le aveva parlato l’uomo delle sabbie, dopo esserle comparso alle spalle, silenzioso come un fantasma. Non voglio sprecare la tua acqua, ma non c’è cosa più ripugnante di un bambino sporco e che manda cattivo odore, non trovi? O tu non hai figli?

Lui non assentì e non negò. Chissà se sorrise, sotto il velo blu che gli nascondeva metà della faccia. Acebalo le aveva detto che i nomadi del deserto consideravano impudiche le labbra maschili, per questo le nascondevano, in presenza di estranei.

-Posso sperare almeno di avere panni puliti con cui cambiarla?

-Non hai che da chiedere e quel che vuoi avrai, mia signora.

 

Quando la lasciò, Teodora si ritrovò a pensare se fosse o meno il caso di fidarsi di lui. Era un uomo strano, come tutti quanti i suoi congeneri. Strano e talmente misterioso da non lasciar trapelare niente di sé. Non le aveva parlato mai di un compenso, eppure sapeva che quella donna, fuggita via dalla casa del ricco mercante Acebalo per ragioni che solo lei conosceva era sicuramente in condizioni di pagargli lautamente il disturbo che gli aveva causato. Forse le avrebbe presentato il conto tutto in una volta, forse… La donna rabbrividì e, per la prima volta da quando aveva preso la sua decisione, si pentì di essere fuggita. Acebalo non era giovane, non era bello, non era un granché come amante, non si era mai ritenuto vincolato a lei da un legame ufficiale, ma l’aveva fatta vivere nel lusso e non era mai stato cattivo nei suoi riguardi. Voleva bene alla piccola Sofia, sicuramente quando fosse cresciuta le avrebbe garantito una buona educazione e combinato un bel matrimonio con un rispettabile partito… Era fuggita via come una ladra da quelle rassicuranti certezze per correre appresso ai suoi sogni impossibili, aveva rovinato il suo avvenire e quello di sua figlia. S’era messa nelle mani di un uomo che non aveva mai visto in faccia e…

 

Era stanca. Avrebbe voluto dormire. Il passo dondolante del cammello e i cibi piccanti che aveva dovuto mangiare le avevano mandato in subbuglio lo stomaco. I dentini taglienti che cominciavano a spuntare dalle gengive della piccola Sofia rendevano l’allattamento un’operazione penosa, di cui se avesse potuto avrebbe fatto volentieri a meno e maledisse se stessa per non aver dato ascolto ai consigli di chi, a suo tempo, le aveva suggerito di farlo. Fosse almeno riuscita a dormire. Niente. Si alzò dal suo letto, si affacciò alla finestra. Il cielo blu cupo era punteggiato da innumerevoli stelle, il silenzio rotto dal bramito dei cammelli e dagli urli lontani degli sciacalli.

 

Non sentì i passi alle sue spalle. Lui era silenzioso come un’ombra, quando le si avvicinava, intabarrato di nero e cupo come un demone delle sabbie. 

-Adesso che l’ora è tarda e siamo soli… Sono venuto a pattuire il mio compenso, Kyria.

Teodora si voltò, sperando di guardarlo finalmente in faccia, ma nemmeno allora si era tolto il turbante, il taguelmoust e il barracano.

-Non sarò esoso.

Aveva una bella voce, bassa, dolce, ipnotica. Teodora si voltò a guardarlo. Gli occhi, pesantemente bistrati, le erano sembrati chiari, ma le ombre della notte potevano trarre in inganno.

-Voglio… Questa.

Le lunghe dita del beduino si erano attorcigliate intorno alla catena d’oro da cui pendeva una perla nera.

-No. - Gli rispose la donna, cercando di guardare dentro i suoi occhi.

-E perché? Non mi sembra di pretendere troppo.

-Tutto ma non questa… Ladrone del deserto.

Teodora si pentì per averlo chiamato in quel modo, sapeva che avrebbe potuto rischiare le conseguenze della sua ira. Era un uomo robusto, prestante. Aveva mani grandi e, anche se non era armato, poteva diventare pericoloso. Ma invece di offendersi, ridacchiò, dietro il taguelmoust.

-Si tratta forse… di un pegno d’amore?

 

Non aspettò la sua risposta, sicuro com’era che sarebbe stata un’affermazione, o un silenzio carico di risentimento. Con dita agili e leggere, cominciò a sbottonarle il corpino e Teodora avvertì un brivido attraversarle il corpo come una folgore, quando un refolo di vento freddo, prima ancora che lo facessero le mani di quell’uomo, le sfiorò le mammelle, facendole inturgidire i capezzoli.

Tieniti il tuo pegno d’amore e dammi il tuo corpo: sono capace di accontentarmi anche solo di quello.

La donna immaginò di leggere nei suoi pensieri, ma non si ribellò, e non era per paura. Chissà com’era, quell’uomo, dietro il velo che gli nascondeva metà della faccia. Avrebbe dovuto toglierlo, per giocare con la sua pelle usando anche le labbra e la lingua, prima di prenderla. Teodora gemette, ed era piacere, non paura, quando lui se la strinse contro e, attraverso la ruvida lana del suo barracano, sentì la durezza della sua erezione premerle contro il ventre. E se fosse stato sfigurato, sotto il velo? O malato di qualche morbo ripugnante? O semplicemente brutto senza remissione?

No, era sicura che così non fosse, anche perché la sua voce, il tocco delicato e forte delle sue mani le ricordavano qualcuno, e quel qualcuno era stato un uomo splendido.

 

-Porné.

Puttana. Non si era tolto il velo, e non aveva fatto niente di ciò che lei si aspettava. L’aveva scostata da sé e lasciata cadere sopra il suo letto, insultandola con la voce bassa e ringhiante di un cane feroce alla catena. Quindi si era allontanato a lunghi passi felpati e silenziosi, lasciando che il vento che soffiava attraverso  le finestre facesse fluttuare l’ ampio barracano nero che lo avvolgeva  e i lembi del suo turbante.

 

L’OASI

 

A quattro giorni di viaggio, la carovana piantò le tende in un’oasi che non doveva distare molto da Alessandria.

Quattro giorni che a Teodora sembrarono eterni. Sabbia, polvere, quei fetidi cammelli dal passo dondolante. Beduini neri. Il caldo infuocato del giorno, il gelo della notte, che penetrava nelle ossa e faceva battere i denti.

Si era domandata come mai il capo carovaniere non l’avesse più cercata. E Acebalo? Chissà, forse aveva colto al volo l’occasione per liberarsi di lei: in fin dei conti, l’irregolarità della loro situazione non giovava alle sue ambizioni.

 

Meglio così, sarà più facile per me scomparire dalle loro vite, pensò, tuffando i piedi nella polla d’acqua che un folto di canne separava dal resto del laghetto. Aveva affidato Sofia, dopo averla cambiata e ripulita, ad una ragazza del villaggio e adesso si godeva  la carezza di quell’acqua tiepida e trasparente sulle caviglie intorpidite, sui piccoli piedi sottili  che il caldo aveva fastidiosamente  indolenzito. Che bella sensazione: il sollievo di cui aveva bisogno.

Mosse qualche passo esitante nella polla tranquilla, sollevando fino alle ginocchia la sottoveste che non aveva voluto togliersi, anche se desiderava un bagno completo più d’ogni altra cosa al mondo. Non sarebbe andata più in là di quella piccola laguna che le canne isolavano, perché non sapeva nuotare e temeva che l’acqua fosse profonda. Inoltre, non aveva la certezza di non essere vista, ed era diventata curiosamente pudica, da un po’ di tempo a quella parte.

 

Non era sola, anche se le canne le permettevano di vedere senza essere vista. Un uomo sguazzava nel piccolo lago tranquillo. Uno di quei beduini neri che con l’acqua avevano scarsa familiarità e puzzavano quanto i loro cammelli. Questo, strano a dirsi, sapeva perfino nuotare e tagliava l’acqua con forti bracciate che sollevavano spruzzi di schiuma bianca intorno a lui. Nuotava verso il largo. Quindi virò in direzione della riva, dirigendosi verso il folto di canne dove lei stava nascosta. A nuoto, prima. Poi a piedi. Era nudo, e Teodora arrossì, prima di darsi da sé sola dell’idiota e di osservarlo meglio. Aveva la pelle chiara, per un beduino del deserto. I capelli grondanti acqua gli arrivavano alle spalle e sembravano più scuri di quel che dovevano essere, bagnati com’erano. Il bistro gli era scolato dagli occhi e gli sporcava di lunghe righe nere la faccia, trasformandogliela in qualcosa di simile ad una maschera spettrale. Quando fu più vicino, la donna notò la cicatrice sul collo: quattro lunghi segni paralleli, sottili come graffi. E il suo cuore mancò un battito.

 

-Teodora…

La voce di Massimo, dolce e ipnotica, la invitava ad avvicinarsi. Forse sto sognando, si ritrovò a pensare la donna, ma che fosse sogno o realtà, quella voce e poi la stretta calda delle sue braccia l’aiutò a vincere la paura che l’acqua le incuteva da sempre.

-Togliti i vestiti. Le mie mani e le mie labbra chiedono di sfiorare la tua pelle, non la stoffa dei tuoi abiti.

Le sussurrò all’orecchio. Se hai nascosto dell’oro sotto di essi, le disse ancora, non devi preoccuparti, perché taglierei la gola a chi provasse a portarti via qualcosa che ti appartiene. Questi uomini sanno chi sono. E hanno paura di me. Teodora non lo mise in dubbio, mentre serrava forte gli occhi. I predoni del deserto ti temono, Massimo Decimo Meridio. Non io, anche se avresti tutte le ragioni del mondo per essere in collera con me. Ma come hai fatto a sapere che io… che io avevo bisogno di te?

Te lo dirò, Teodora, ma non adesso. A suo tempo. E le baciò le labbra, con la tenerezza e la passione che solo lui sapeva. Era buffo, si ritrovò a pensare la donna, con i capelli incollati alla testa e il bistro che gli rigava le guance. Come gli antichi egizi, da cui forse discendevano, gli uomini del deserto si truccavano per proteggere gli occhi dal tracoma e da altre infezioni, così le aveva detto Acebalo. Quanto tempo era passato, dall’ultima volta? Sei, sette anni. Eppure, Massimo non era cambiato, era lo stesso uomo che aveva salvato sua sorellina Anastasia dalle grinfie di un orso, quasi vent’anni prima, lo stesso grazie al quale lei era riuscita ad evadere dallo squallore della sua vita… Lo stesso dei suoi sogni e dei suoi rimpianti. Non aveva un capello bianco, non un dente guasto, non un filo di grasso superfluo, non una ruga in più… Eppure, era passato talmente tanto tempo… Com’era possibile?

 

NELLA TENDA

 

Ho sognato, e sto continuando a sognare, pensò la donna svegliandosi di soprassalto. Ho sognato che quel beduino era Massimo, come se fosse possibile che…

Una folata di vento sollevò l’apertura della tenda, facendoci penetrare dentro l’aria gelida e la sabbia del deserto. Era notte, e le stelle punteggiavano un cielo che aveva i riflessi del ferro.

Teodora si strinse nelle sue coperte, quando lo vide entrare. Non l’aveva più cercata, da quando avevano lasciato l’oasi. E, di lì a qualche giorno, avrebbero raggiunto Alessandria, e il viaggio sarebbe terminato.

La luna, le stelle, i bagliori del fuoco. Chi montava la guardia davanti all’accampamento doveva attizzarlo spesso, perché se i giorni erano torridi, le notti del deserto erano invece fredde. Essendo pressoché impossibile procurarsi del legname, i beduini bruciavano escrementi secchi di cammello e la puzza era insopportabile.

Fu il bagliore di una fiammata a illuminarlo per un istante, prima che l’apertura si abbassasse e nella tenda tornasse a regnare il buio.

 

Teodora sentiva appena i suoi passi felpati, il fruscio delle stoffe che lo ricoprivano.

-Non dormi?

Si era seduto sul suo giaciglio di coperte e doveva averle sorriso, anche se il buio le impediva di vederlo.

-Neanche tu dormi. E’ il tuo turno di guardia ?

-Non ho sonno, tutto qui.

-Hai bisogno… di compagnia?

-Può darsi.

La fiamma della lucerna che lui aveva acceso gli illuminò gli occhi bistrati, la striscia di pelle chiara tra il turbante e il taguelmoust.

-Toglitelo. Mi fa impressione vederti conciato così.

Lui si tolse velo e turbante. Poi si sbottonò la tunica e la gettò in un angolo della tenda. Sotto, portava solo un paio di lunghe brache a sbuffo fermate in vita da un’ampia fusciacca: i muscoli gli guizzavano sotto la pelle a ogni minimo movimento, ma non rabbrividiva, malgrado il freddo intenso della notte. Il riflesso della fiamma fece scintillare i suoi occhi azzurri, il biancore abbagliante dei denti, il medaglione d’argento con la testa di lupo che portava al collo.

 

Teodora si sedette sul suo giaciglio, lo guardò a lungo, per quel poco che la debole luce le permetteva di vedere. Sarebbero state tante, le cose che avrebbe voluto chiedergli. Come hai fatto a sapere che avevo bisogno d’aiuto, per esempio. E poi, quanti anni hai? Più di quaranta, a conti fatti. Eppure, sei lo stesso di venti e dieci anni fa: bellissimo adesso esattamente come allora. Perché lo scorrere del tempo ti sfiora soltanto e non lascia su di te alcun segno, Massimo? Sei forse sceso a patti con il demonio?

 

La luce debole del piccolo lume danzò sul rubino che Teodora portava al dito, l’ultima cosa che la legava ad Acebalo. Quell’anello sarebbe stata il primo dei suoi oggetti che avrebbe venduto, una volta tornata a Bisanzio, e solo allora si sarebbe gettata davvero alle spalle il suo passato. Avrebbe cambiato nome, schiarito i capelli con qualche intruglio e nessuno l’avrebbe riconosciuta. Si sarebbe spacciata per una vedova benestante e chissà, forse…

 

-La porti sempre con te?

La perla nera scintillò tra le forti dita di Massimo.

-Non l’ho mai tolta e non la toglierò mai.

Quelle parole equivalevano forse a una dichiarazione d’amore? L’uomo sentì la mano di lei scorrergli sulla pelle tracciando lenti, piccoli cerchi sul collo e sul petto. Aveva molte cicatrici, addosso, come tutti i soldati. Ma due erano strane più delle altre: i segni degli artigli d’una belva tra il collo e la spalla, un marchio a fuoco sulla schiena. La prima poteva anche spiegarsi con un incidente di caccia, ma l’altra… Solo col fatto che fosse stato schiavo, anche se era difficile crederlo.

 

-Che cosa ho lasciato a Bisanzio, oltre a te? Anastasio è ancora l’imperatore?

-Anastasio è morto già da qualche anno. Adesso è il generale Giustino a sedere sul trono: un ex capraio, rozzo, volgare, sbracato e ignorante, come tutti i macedoni.

Teodora aggrottò le sopracciglia prima di sibilargli, tra il serio e il faceto, che anche i suoi genitori provenivano da quelle contrade, pertanto nelle sue vene scorreva puro sangue macedone. Lo avrei detto qualche anno fa, forse, ma adesso sei una signora, le aveva risposto Massimo. Lui, invece, non è affatto cambiato: non ha mai imparato neppure a leggere e a scrivere.

-Parli in tono molto irriverente del tuo signore.

-Lo prendo per quello che è: un buon diavolo, in fondo. Il potere non gli ha dato alla testa più di tanto. Eppoi, beh… E’ mezzo rimbambito dall’età e dagli acciacchi, quindi…

-Quindi non è lui che comanda.

-Esatto.

 

Gli leggeva la voglia, nelle labbra appena socchiuse, nei grandi occhi illuminati dal bagliore della fiamma. Non le era mai sembrato strano come quella notte, Massimo Decimo Meridio, il comandante delle guardie dell’imperatore: giovane e bello, come vent’anni prima. Non una ruga, non un capello bianco, non un dente guasto, non un filo di grasso superfluo.

 

Forse ho voglia di ascoltarti parlare più che di fare l’amore, pensava Teodora sentendo il contatto caldo della sua bocca sul collo, sull’attaccatura del seno. Forse sono cambiata, contrariamente a te. Allora, chi comanda a Bisanzio?

-Giustiniano, un nipote dell’imperatore, l’erede designato.

-Com’è?

-Quarant’anni circa,  piccolo di statura, bruno, pallido, sempre perfettamente sbarbato…Colto. Timido, casto e morigerato. Non credo che ti piacerebbe.

-Ha moglie?

-No: e penso che questo preoccupi Giustino più di quanto non preoccupi lui. Ragioni ovvie di continuità dinastica, sono vissuto a Corte abbastanza da capire al volo certe faccende. Ma a noi, ora come ora non ce ne importa niente.

Già, che ce ne importa? Pensava Teodora sfiorandogli il petto con le labbra. Sarà l’uomo più potente dell’Impero, sarà destinato a sedere sul trono, ma per me… per me tu sei molto più importante di lui, Massimo…

 

L’ASPIDE DELLE SABBIE

 

La luce dell’alba cominciava a penetrare dentro la tenda, quando Massimo si svegliò e la guardò dormire. Era cambiata, lei sì, e non solo per quegli anni che erano passati. Il suo corpo era più pieno, tornito, forse perché Teodora non era più una ragazzina sempre affamata, ma una ricca signora abituata a sontuose portate di cibo, vesti di seta, bagni caldi e profumi costosi. Si fa in fretta ad abituarsi agli agi e alle mollezze, specialmente quando ci si arriva in modo fortunoso e inaspettato, proprio com’era successo a lei.

Massimo si domandò perché Teodora fosse fuggita dal suo amante e ripensò al messaggio che gli era stato recapitato un mese prima: “Mihi necesset adiutorium tuum”.[4] Perché aveva richiesto il suo aiuto? Era convinta che non glielo avrebbe negato, nonostante quel che era successo? O, come molte donne, era anche lei convinta che gli uomini fossero completamente stupidi quando si trattava di lasciarsi imbrogliare da una donna? Accidenti se lo erano! Anche lui, il Comandante, l’Eroe, l’Immortale, non era diverso dagli altri: inutile pensare che così non fosse. Perfino adesso. Una tenda, il silenzio e la solitudine del deserto. Il seno nudo di lei, su cui posare la testa, appagati. Teodora, il suo angolo di paradiso. E l’inferno dell’uomo a cui era fuggita e che, sicuramente, nella sua bella casa di Pentepolis si stava arrovellando, domandandosi perché.

 

-E’ stata la mia ancella a mandarti quel messaggio, senza che io ne sapessi niente.

Già. Non potendo, per ovvie ragioni frequentare le signore della buona società di Pentepolis, Teodora era usa sfogare le sue malinconie confidandosi con le schiave. Quella, particolarmente affezionata e sentimentale, si era sentita coinvolta dai problemi della padrona, aveva scritto al Comandante della Guardia Imperiale senza sperare troppo nel suo aiuto, invece…

-Si chiama Fillide, è istruita, conosce il greco, il latino, sa leggere e scrivere.

-E’ bella?

-E’ nana e gobba. Non avrà mai l’amore di un uomo.

-Capisco.

-Sapeva che con Acebalo era infelice. Sapeva che lui stava per cacciarmi da casa sua. Diceva che ero di ostacolo alla sua carriera.

 

Guardami bene in faccia, Teodora. Guardami bene in faccia, perché voglio sapere se è verità o bugia ciò che mi dici. Con Acebalo eri infelice e sei fuggita: lo avresti fatto subito, se avessi potuto, ma hai dovuto aspettare sette anni. Sette anni, in attesa dell’occasione propizia. Non è un caso che tu abbia deciso, contrariamente a quanto accade tra le donne del tuo ceto, di allattare tua figlia: non saresti potuta scappare portandoti dietro una balia o un gregge di capre, se l’occasione ti si fosse presentata prima che Sofia avesse l’età per essere svezzata… Non sono nato ieri, ragazza.

 

-Mendax[5]

-Che dici?

Bugiarda. Massimo aveva dimenticato per un attimo che Teodora non padroneggiava molto bene il latino. Bugiarda e puttana. Adesso Acebalo soffriva esattamente come aveva sofferto lui, sette anni prima. Ma era in condizioni di dare del bugiardo a qualcuno, lui, se non aveva mai avuto il coraggio di raccontarle la verità su se stesso?

 

-Che dici?

Gli domandò ancora una volta Teodora, la voce languida, lo sguardo ancora assonnato. E’ un’attrice. Una che ha fatto delle bugie e della finzione il suo mestiere, pensava Massimo guardandola, bella e sensuale come una gatta sazia e sorniona.

-Pensavo… Ecco, pensavo che non manca molto alla meta.

-Sei stanco di fingerti quello che non sei?

-Odio il deserto. Di giorno ti squagli dal caldo e di notte batti i denti per il freddo, non puoi lavarti e ti tocca tenerti addosso il tuo sudiciume per giorni, questi vestiti grattano come le ortiche, il velo davanti al naso ti soffoca, e i dromedari, beh… Amo tutti gli animali, ma ai dromedari preferisco i cavalli, se devo essere sincero: puzzano molto meno.

 

Le aveva sorriso, e Teodora scordò l’espressione cupa che gli aveva velato lo sguardo, quando aveva pronunciato quella parola. Mendax. Bugiarda. Già, proprio così. Non se l’era ancora gettato alle spalle, il rancore che nutriva nei suoi confronti. E’ dura perdonare chi ti ha fatto tanto soffrire. Nemmeno Acebalo l’avrebbe mai perdonata, questo era ovvio.

Ne troverà un’altra. Una brava ragazza illibata che diventerà sua moglie e la madre dei suoi figli legittimi. Mi avrebbe cacciata via, se non me ne fossi andata. E’ così che va il mondo, Massimo, ci piaccia o non ci piaccia. Eppoi… Può anche farti soffrire, ma l’amore non uccide. Si muore di vecchiaia, di fame, di peste, di spada e di veleno. Non d’amore.

 

Già: si muore di spada, di peste, di veleno… Massimo si irrigidì, i sensi all’erta, come il lupo a capo del branco quando fiuta il pericolo. Era entrata la morte, dentro la tenda dove Teodora giaceva appagata dalle sue carezze e Sofia dormiva il sonno sereno dell’innocenza.

-Non ti muovere… Ferma dove sei e non fare un gesto…

Con gli occhi sbarrati e un urlo di terrore congelato nella gola, la donna vide le dita forti dell’uomo stringersi sul serpente, finchè la linguetta forcuta si afflosciò fuori dalle fauci e la piccola testa pendette inerte, gocciolando sangue e veleno.

-Un aspide delle sabbie.  - fece Massimo gettando fuori dalla tenda la piccola carcassa. - Il suo veleno non dà scampo. Ti morde, e in pochi minuti ti ritrovi bell’e morto.

 

L’IMMORTALE

 

-Cleopatra, la regina d’Egitto… Si lasciò mordere da uno di questi, per non cadere viva nelle mani dei suoi nemici. Dicono che se lo fosse fatto recapitare nascosto in un cestino di fichi… E che fu morsa proprio qui…

Le dita di Massimo indugiarono delicatamente sul seno di Teodora. Le piaceva, quando faceva così. Conosceva anche lei la storia di Cleopatra, irretita dall’amore di un uomo potente e vittima della sua stessa ambizione. Immaginò l’aspide delle sabbie morderle il capezzolo, e strinse gli occhi, mentre Massimo mordicchiava e leccava il suo, lasciando correre le dita sui muscoli rilevati e tesi della schiena di lui. Quanto sono stata stupida a lasciarti… A quest’ora, forse, sarei tua moglie e Sofia non sarebbe la figlia bastarda di Acebalo, ma sangue del tuo sangue.

 

Sangue…Piccole gocce scure stillavano lentamente da due piccoli fori sul dorso della mano di Massimo. Era stato morso da quel maledetto serpente. E il veleno dell’aspide non perdonava, si disse la donna, mentre un brivido gelido l’attraversò come un fulmine.

 

Vuole morire facendo l’amore con me, e finirà dannato. Pensò Teodora fremendo. Ma il corpo dell’uomo non tremava, le sue labbra non erano diventate livide né la lingua s’era gonfiata, il suo cuore batteva i colpi lenti e regolari di sempre.

-Il serpente…Ti ha morso?

-Mi ha morso. E non mi succederà niente, quindi non darti pena per me.

Acebalo le aveva raccontato, tempo prima, dell’antico re di una contrada dell’Asia Minore, di nome Mitridate. Temendo di finire avvelenato, aveva, fin da giovanissimo, cercato di abituare il suo organismo ai veleni, ingerendone piccolissime dosi ogni giorno. Forse Massimo aveva seguito il suo esempio, anche se quella pratica era, a detta della maggior parte dei medici, inutile e assurda, quando non pericolosa. Eppure, l’uomo che le giaceva accanto, ad un’ora dall’incidente, era quello di sempre, come se nulla fosse accaduto.

-Porti la reliquia di qualche santo, con te?

Lo sguardo gli si era incupito. Vestiti, le aveva detto. Poi siediti vicino a me e ascolta quello che ho da dirti: fino alla fine. E’ la verità sul mio conto, quella che mi ero preparato a dirti l’ultima volta che sono stato con te, a Bisanzio. Ma allora tu mi avevi detto che amavi un altro: un uomo ricco, che ti avrebbe dato quel che da me non avresti avuto mai…

 

-Hai mai notato qualcosa di strano nel mio aspetto e nel mio modo di comportarmi?

-Sei un uomo che non passa inosservato, Massimo.

Fiero. Possente. Splendido. Come lui ne aveva conosciuti pochi. Qualcosa di strano… Il fatto che a quarant’anni passati non avesse un capello bianco, un dente guasto, un filo di grasso superfluo? Il fatto che non fosse cambiato niente, rispetto alla prima volta che l’aveva visto, quasi vent’anni prima?

 

-Chiunque sarebbe morto, se quel serpente lo avesse avvelenato con i suoi maledetti denti. Chiunque.

-Ma non tu.

-Sono morto una volta. Di pugnale e di spada. Qualcuno mi ha richiamato indietro dall’aldilà e… e non posso più morire una seconda volta, Teodora.

Non si sarebbe meravigliato se la donna fosse fuggita da lui urlando, si era detto vedendola impallidire. E, quando le aveva posato la mano sulla mano per trattenerla, si stupì invece che lei lo guardasse con occhi gelidi e gli dicesse non ti credo, tu sei pazzo. Solo Nostro Signore Gesù Cristo è tornato dal regno dei morti, ma lui era Dio, non un uomo come te.

-Uomo e Dio, mi è stato insegnato.

-Dio soltanto.

-E’ quello che sostengono gli eretici monofisiti.[6] Non sbandierarlo in giro quando sarai tornata a Bisanzio, laggiù quella gente non è molto ben vista. Ma non divaghiamo. Hai veduto tu stessa che il serpente mi ha morso, eppure…

-Eppure sei ancora qui, vivo e vegeto.

 

Nello sguardo di lei, Massimo lesse scetticismo soltanto, e non paura. Certo, era difficile credere in quello che stava per dirle, ma quando la donna accennò ad alzarsi e ad andarsene, lui la trattenne. E’ molto forte, pensava Teodora. Ed è completamente folle. Mi sono messa nelle mani di un pazzo pericoloso.

 

-Sto al mondo da oltre trecento anni. Quando sono nato, l’Impero Romano era unito e al culmine della sua potenza, sotto lo scettro del Cesare Antonino Pio. Ho visto la luce nell’Anno Novecentesimo dalla Fondazione di Roma, a Tergillium, in quella che allora era la Provincia Senatoria dell’Hispania Baetica, ai confini occidentali del mondo, e che adesso è territorio visigoto. Iniziai a quattordici anni la carriera miliare, che percorsi gradino per gradino fino a diventare, a ventotto, generale comandante in capo delle legioni del Nord, regnante il Cesare Marco Aurelio Antonino…

 

Dovrei crederti? Teodora pensò che non era il caso di contraddirlo e lo lasciò parlare. Il sangue, notò, si era coagulato sulle due piccole ferite che i denti del serpente avevano lasciato sul dorso della sua mano. L’animale doveva essere stato privato del suo veleno e al momento in cui l’aveva morso era del tutto innocuo: un trucco vecchio come il mondo che lei, figlia di un uomo del circo, conosceva bene.

 

-Ero tenuto in grande stima dall’Imperatore, un uomo giusto e saggio, che aveva in animo di adottarmi e di lasciare a me il trono, com’era consuetudine. Per questo motivo Commodo, il suo figlio legittimo, mi detestava. Poi c’era Lucilla, la figlia maggiore del mio sovrano. Da ragazzi c’eravamo amati, poi il destino ci ha divisi: lei sposò senza amore il Cesare Lucio Vero, associato al trono con suo padre, io conobbi una brava ragazza che divenne mia moglie e che mi diede un figlio…

 

Hai molta immaginazione, Massimo. E sei talmente folle da credere tu stesso nelle bugie che racconti. Teodora scosse la testa.

 

-Lo so che è difficile credermi, e non te ne faccio una colpa… Comunque, Marco Aurelio morì all’improvviso, senza lasciare disposizioni sulla successione e io… Per non farla troppo lunga, diciamo che caddi in disgrazia: mia moglie e mio figlio finirono massacrati, io diventai schiavo.

 

Ho visto il marchio a fuoco sulla tua schiena. Non mi meraviglia sentirtelo dire. Ma le tue bugie per giustificare quel disonore servono a poco, Massimo Decimo Meridio.

 

-Un tipo molto speciale di schiavo. Un gladiatore. Un uomo che veniva messo a combattere contro altri uomini per il sollazzo della plebaglia. Contro uomini, e contro animali. La cicatrice che ho sul collo è il ricordo del mio incontro con una tigre.

 

Teodora serrò forte le palpebre sugli occhi, per non guardarlo parlare, per non leggergli in faccia emozioni che sembravano venire davvero da un passato di sofferenza, non dal tentativo difficile di gabellare per verità assurde e folli bugie.

 

-Commodo era un tiranno sanguinario, che si divertiva a battersi nell’arena contro i gladiatori. I poveracci venivano dotati di armi spuntate, o drogati e feriti prima di essere gettati nell’arena, perché Cesare non poteva rischiare di farsi male mentre portava via la vita a qualcuno… Fui colpito a tradimento dallo stesso Commodo, mentre, in catene, attendevo il mio destino nelle segrete del Colosseo. E il mio destino si compì dopo che ebbi ucciso il tiranno e vendicato i miei cari e il mio signore.

 

E’ una bella storia, quella che ti sei inventato, ma non c’è verità nelle tue parole. Vuoi forse farmi credere… che sei tornato indietro dall’aldilà?

 

-Lucilla. Mi amava ancora e non riusciva a rassegnarsi alla mia morte. Si rivolse a maghi e indovini, perfino al papa dei cristiani. Fu una strega della Tessaglia a operare il sortilegio. Avevo trentatré anni quando fui ucciso e riportato indietro dal mondo dei morti. L’età che avrò fino alla fine dei secoli, Teodora.

 

Dovrei così spiegare il fatto che dimostri dieci anni in meno di quelli che hai? Sei semplicemente un uomo come tanti e hai avuto in dono dalla sorte la fortuna di sembrare più giovane di quel che sei.

 

-Non posso piangere, né generare figli. Le malattie non mi colpiscono e le ferite si chiudono senza lasciare cicatrici sulla mia pelle: quelle che ho risalgono alla mia vita precedente, tutte quante. Guardami la mano, se non mi credi.

 

I fori e il sangue erano scomparsi senza lasciare traccia. Doveva esserci, anche in quello, un qualche trucco, altrimenti… Altrimenti era tutta quanta opera del demonio. Vattene, Satana. Gli sibilò la donna, guardandolo negli occhi. Vattene e non toccarmi. Lui le sollevò il mento con la mano, le sorrise tristemente.

 

-“Anche per te c’è speranza di redenzione e sarai tra gli eletti, quando giungerà la fine dei tempi, se condurrai la vita del giusto”. Forse hai pregato davanti alla statua della persona che mi aveva detto così, tanto tempo fa: Priscilla, la mia seconda moglie, morta martire a vent’anni, durante la grande persecuzione di Diocleziano.

 

Quanto manca di qui ad Alessandria? Due giorni di cammino? Lascerò che tu da solo a Bisanzio, Massimo Decimo Meridio, creatura del male e delle tenebre. Davanti alla prima chiesa che incontreremo, le nostre strade e i nostri destini si divideranno.

 

NARSETE

 

Bisanzio, Anno Domini 525

 

-Ha conosciuto la donna della sua vita. E vuole sposarla, anche se…

L’eunuco Narsete era un personaggio importante, a Corte. Molto istruito, aveva dedicato agli studi la sua vita, dopo essersi privato volontariamente di ciò che avrebbe potuto distrarlo dai suoi impegni, e Giustino l’aveva scelto come consigliere. C’è bisogno di uomini come te, gli aveva detto, malgrado gli eunuchi non gli fossero mai piaciuti: era un ex soldato, lui, e di uomini e cavalli castrati non si era fidato mai completamente. Ma Giustino era giunto al termine della sua vita e Giustiniano, l’erede designato, era molto diverso da lui: uno studioso, un topo di biblioteca noioso e pusillanime, che solo a quarant’anni suonati aveva conosciuto l’amore. Una qualsiasi. E s’era intestardito a volerla sposare.

 

-Non è la donna per lui. E’ di bassi natali, ed ha un passato tutt’altro che irreprensibile alle spalle.

 

Massimo distolse lo sguardo dagli occhi serpentini del Gran Ciambellano. Non credo, gli disse, che a Giustino importi molto di chi suo nipote prenderà in moglie. La sua, l’imperatrice Eufemia, è stata una schiava. Disperava di vederlo accasato e non direbbe niente neppure se il suo pupillo ed erede sposasse una meretrice e le permettesse di posare le natiche sul trono.

 

-Il Principe è al centro di malevoli pettegolezzi.

-Ho conosciuto molti potenti, nobile Narsete…

Massimo si accorse che stava per tradirsi. Ho conosciuto molti potenti leggendo le loro gesta sui libri: alcuni hanno sacrificato i loro desideri al dovere e all’onore, altri… Altri hanno approfittato del potere per fare tutto ciò che volevano, fosse bene o fosse male.

-Il principe è abbastanza saggio da saper scegliere per il meglio.

Per sé. E per gli altri, sui quali non avrebbe riversato il livore dei suoi rimpianti e delle sue scelte sbagliate.

 

-Parli con ponderazione e sagacia, per essere uno che…

Uno che non si è fatto castrare per mettere le sue energie totalmente al servizio dello Stato?

Narsete aveva passato la cinquantina, era alto e corpulento, con le guance glabre, gli occhi chiari e freddi e una folta capigliatura originariamente brizzolata resa fiammeggiante dagli impacchi di henné. I suoi abiti erano di seta, e aveva un anello infilato in ciascun dito delle mani grassocce. Rimpiangeva mai quello a cui aveva dovuto rinunciare? Si ritrovò a pensare Massimo.

 

-Non è nobile e non è ricca; non può nascondere il passato che ha alle spalle. Professa l’eresia monofisita e si dice che abbia usato le male arti della magia per irretire il Principe…

-E’ molto bella?

-Parrebbe di sì. I suoi erano saltimbanchi. E’ stata prostituta, danzatrice, attrice di pantomimo. Per alcuni anni, è vissuta nelle province africane.

 

Narsete guardò negli occhi il Comandante della Guardia imperiale. Era bello, con la lunga chioma che gli arrivava alle spalle e gli occhi verdeazzurri scintillanti di pagliuzze dorate. Un Romano d’Occidente, fuggito dalla sua terra che adesso era colonia dei barbari Visigoti. Un uomo di vecchio stampo, semplice, frugale e tutto d’un pezzo, uno che non lasciava trapelare molto della sua vita e del quale poco si sapeva, nonostante vivesse a palazzo. Fossero stati tutti come lui i Romani d’Occidente, quella parte dell’Impero non sarebbe crollata sotto i colpi dei barbari e nessuno avrebbe mai sentito parlare dei regni franco, vandalico e visigoto o di personaggi come Odoacre e Thiuda l’Amalo, che i latini chiamavano Teodorico e che il demonio stesso, in sembianze di nero cavallo selvaggio, aveva trascinato con sé all’inferno.

Massimo Decimo Meridio aveva la pelle chiara, sotto l’abbronzatura, e Narsete lo vide impallidire ancora di più quando pronunciò il nome della donna.

-Teodora. Mi pare che si chiami così.

 

EPILOGO

 

L’uomo guardava, con occhi che avevano quell’identico riflesso, le onde del mare frangersi sulla baia, i gomiti puntellati sulle ginocchia, cercando di non pensare a niente. Teodora aveva coronato i suoi sogni di bambina e lui era rimasto solo. Lo sarebbe rimasto fino alla fine dei tempi, e quella sarebbe stata la sua maledizione, finché il sole avesse continuato a sorgere e la pioggia a cadere.

 

Grida concitate lo distrassero dai suoi pensieri, costringendolo ad alzare lo sguardo. Erano solo alcuni ragazzi, forse in fuga dalla scuola, che si divertivano a rincorrersi e a tirarsi addosso la sabbia, almeno, così gli sembrò di prim’acchito. Massimo ripensò a se stesso, tanti, tanti anni prima. Anche lui, allora, aveva marinato le lezioni, facendo letteralmente imbufalire il suo vecchio maestro. Era così che andava il mondo, da sempre.

 

I monelli, ragazzetti sui dieci, dodici anni, ben vestiti, sicuramente figli dell’aristocrazia e della ricca borghesia cittadine, ne inseguivano, sbeffeggiandolo e gettandogli addosso manciate di sabbia, uno altrettanto ben vestito ma diverso da loro: più piccolo di statura, con gambe tozze e corte e un visetto giallastro, schiacciato, punteggiato dalle fessure scure e lucenti degli occhi. Non giocavano con lui, ci voleva poco a capirlo. Lo deridevano perché non era come loro. La consuetudine che principi unni, khan tartari, satrapi persiani e sceicchi arabi mandassero i loro figli a studiare nelle scuole di Bisanzio con i rampolli delle migliori famiglie della città aveva ormai preso largamente piede.

 

-Lasciatelo stare. Andatevene, o vi prendo a calci nel sedere.

Piuttosto che restare ad appurare se l’uomo alto, grosso e vestito di scuro che ringhiava come un cane arrabbiato diceva così tanto per dire o lo avrebbe anche fatto, i piccoli teppisti tagliarono la corda in un battibaleno, lasciandolo solo con l’oggetto del loro dileggio. Il ragazzino aveva graffi profondi sulle guance incorniciate da ispidi capelli neri, e le fessure cupe degli occhi non davano una lacrima.

 

Lo guardò torvo, e non lo ringraziò. Disse solo “Vorrei che crepassero tutti e che questa città crollasse dalle fondamenta” in un greco abbastanza corretto.

 

-Chi sei?

-Hakan.

-Da dove vieni?

-Dall’altra parte degli Urali. Mio padre è un khan del popolo turco, mi ha mandato qui per conoscere questo mondo. Un mondo che non mi piace.

-Questa città è la capitale di un grande impero…

-Anche i grandi imperi sono destinati alla rovina. Se non la vedremo noi, la vedranno i figli dei figli dei nostri figli.

 

Massimo chiuse gli occhi e rivide se stesso faccia a faccia con Etzel[7] il Flagellum Dei. Aveva i capelli lunghi e unti, il viso schiacciato sporcato dall’ombra di una barba a chiazze, gli occhi impenetrabili, minuscoli come capocchie di spilli. Muoveva verso Roma alla testa di un esercito dove ai piccoli cavalieri della steppa coperti di pelli puzzolenti si mescolavano i grandi e biondi soldati Ostrogoti, Rugii, Gepidi e Longobardi. Pochi iugeri di campagna separavano il suo esercito da coloro che avrebbero dovuto impedirgli di mettere in atto i suoi disegni, uno sparuto gruppo di preti salmodianti, capeggiato da un vecchio dalla gran barba bianca: papa Leone Magno.

 

-Chi sei? E chi è quel vecchio?

Gli aveva sibilato il khan degli Jong-Nu[8] in un qualche dialetto germanico mettendo mano alla scimitarra. Massimo era il capo di un manipolo di soldati, mandato da Valentiniano III, Cesare d’Occidente, di scorta a un convoglio di preti  che, nella loro pazzia, speravano in un miracolo che salvasse Roma da quel demonio.

 

-Ich bin Wulf. Er, Loewe...

Lupo. E Leone. Il giovane dagli occhi di fuoco, il vecchio dalla gran criniera bianca. Massimo aveva percepito la paura, negli occhi feroci di Attila l’Unno. La paura degli spiriti che, la notte, aveva sentito aleggiare nell’aria, gemere nel vento quando, ancora bambino, ascoltava le storie dei vecchi seduti intorno ai bivacchi, fuori dalle yurte[9]. In quel giovane armato e in quel vecchio vestito di bianco albergavano lo spirito del lupo e del leone. Attila aveva alzato il braccio, prima di far voltare la sua piccola cavalcatura irsuta. Roma era salva.

 

Massimo aprì gli occhi, guardò un’ultima volta Hakan prima che si allontanasse prendendo a calci la sabbia della piccola insenatura. A dieci anni, Attila l’Unno doveva somigliargli, pensò.

 

Nell’Anno di Grazia 1453, Bisanzio, cinta d’assedio dagli eserciti del Sultano Mehemet II, cadde sotto il dominio turco. Era la fine dell’Impero Romano d’Oriente.

 

FINE

Lalla, 12 giugno 2002

 

 

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[1] Despoina=padrona

 

[2] Taguelmoust=il velo, solitamente azzurro, con cui gli uomini Tuareg nascondono la parte inferiore del viso quando si mostrano in pubblico.

[3] Kyrie=signore

[4] Mihi necesset adiutorium tuum= Ho bisogno del tuo aiuto

 

[5] Mendax=bugiarda

[6] Monofisiti= Eretici che negavano la doppia natura (umana e divina) di Gesù Cristo, attribuendogli solo la seconda.

 

[7] Etzel= Attila

[8] Jong-Nu=il popolo degli Unni

[9] Yurta=tenda dei nomadi mongoli.