Camillo Vittici vitt@spm.it
Roberto
Quegli occhi, quegli occhi così belli e così tristi, quegli occhi così grandi e così lucidi di lacrime. Quegli occhi non li avevo visti mai così. Lacrime di gioia, forse. Lacrime d'emozione, certo. Lacrime che mai avevo visto solcare il viso giovane e scarno del mio uomo. "Che c'è, Giulio ?" Scosta la coperta, mi si siede accanto e stringe forte le mie mani nelle sue. "Che c'è, Giulio ?" Non ti va di parlare. Forse non vuoi parlare. Poi, dopo un silenzio che mi pare non debba mai finire, a voce bassa e con le labbra che tremano, mi dici : "È Down !" Down, che sarà mai ? Eppure quel nome non mi è nuovo. Down... vuol dire che... "Il nostro Robertino è Down. Li chiamano... mongoloidi." Un groppo mi chiude forte la gola e le parole s'infrangono, naufragando, contro un muro di sgomento. Chino il capo e l'appoggio alla sua spalla e lascio che le lacrime modellino macchie di rimmel sul suo colletto bianco. Solo il rumore della porta che s'apre d'improvviso e lo scalpiccio di passi leggeri trattengono i singhiozzi ; l'infermiera mi adagia il piccolo fra le mani e lo avvicina al seno. Eppure... eppure non scorgo nulla che lo differenzi dagli altri che ho visto urlare e dimenarsi al di là della vetrata, nulla che possa... o forse sì, solo un lieve, impercettibile taglio obliquo della rima degli occhi. È il medico, ora, che mi parla in modo asciutto e scarno del maledetto cromosoma ventuno ; forse la nostra età non più giovane, forse un fato beffardo, forse un Dio crudele. Ma perché proprio a noi, a me ? Solo io so quanto ti avevo atteso, solo Giulio sapeva quanto intenso fosse stato il bisogno d'un figlio che sgambettasse attorno, che giocasse infinite partite al campetto appresso casa, che un giorno, forse, avrebbe calcato le sue orme sicure nella strada che aveva per lui tracciato. Quei sogni si sono infranti come uno specchio in mille scaglie, neppure il più geniale artigiano del mondo lo avrebbe potuto riparare. Eppure stai crescendo, come gli altri ; spalanchi i grandi occhi e mi sorridi, come gli altri ; passeggi accanto a me, come gli altri, canti canzoni di bimbo, come gli altri. E parli , Dio mio, mi parli anche se con fare incerto e se t'inceppi alle parole più grandi di te. A scuola t'han messo accanto una maestra, una maestra solo e tutta per te. Forse non sei davvero come gli altri, ma gli altri ti amano, ti aiutano, ti corrono incontro quando in auto ti lascio al portone e ti chiamano a gran voce. "Vieni Roberto che si gioca ; vieni, Roberto, che oggi ci sono le proiezioni." E tu sorridi loro e poi li segui come il più piccolo pulcino d'una covata di primavera e con loro sgambetti e sali i quattro gradini afferrandoti al ferro. E scompari al di là dell'androne per questa vita nuova Oggi ho dovuto allungarti i calzoni, quindi, anche se più lentamente e impercettibilmente, stai diventando grande. Scorgo una strana peluria che ti frastaglia il volto, stai diventando finalmente adulto. Hai due mani forti, due braccia che quando mi stringono mi fanno male. Nessun uomo, nemmeno Giulio, mi han mai stretto con tal dolce violenza. È il tuo modo di dirmi che mi ami, anche se non l'ha mai detto a voce, la tua maniera di aggrapparti alla vita, perché io sono la tua vita, la tua maniera di esser figlio, perché sono io tua madre, donna che ora non potrebbe fare a meno di te. Ti ho visto, ieri, sfogliare con sguardo curioso e intenso le pagine d'un giornale di tuo padre. Donne svestite, esuberanti nelle forme e accattivanti nel sorriso e t'ho visto fremere e irrigidire e portare inconsciamente la mano dove l'uomo si sente uomo. Perché tu sei uomo, uomo con impulsi e sensazioni d'uomo e uomo che, forse, interamente uomo non sarà mai. Eppure altri come te han incontrato donne che li hanno scelti e li hanno amati al di là del marchio e del crudele lotto del destino e han deciso di continuar la vita tenendosi per mano. Ti guardo ormai robusto, mentre la barba incolta ti veste d'uomo vero. Ti guardo e dico grazie a Dio d'avermi regalato te, così come sei e così come sarai, così come t'avevo pianto e, forse, maledetto in quella stanzetta linda d'ospedale, così come ora ti vedo e ti conosco, per come sai amare, magari a modo tuo, per come hai colmato questa casa, per come ci sorridi aggrappandoti alla vita senza guardare a nessun domani. Ora so, Dio mio, il dono che m'hai fatto, grazie e così sia.
Camillo Vittici vitt@spm.it
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(Danilo Curci)
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