Claude Monet: "Cattedrali", tutti i colori della luce

 

 

“Nelle sue profondità, nei suoi slanci verso l’alto, nelle sue possenti pieghe o nei suoi spigoli vivi, il flutto dell’immensa marea solare che accorre dallo spazio infinito si rompe in onde luminose che colpiscono la pietra con tutti i colori del prisma o appaiono placate in lucenti oscurità.”

Georges Clemenceau

 

 

                                             

 

 

E’ con la scuola impressionista, di cui il parigino Monet (1840 – 1926) fu uno dei primi e massimi esponenti, che nell’arte si afferma la sovranità della luce e del puro colore.

 

Nella serie delle “Cattedrali” (1894), Monet impiega una tecnica pittorica completamente nuova. Mentre in passato applicava il colore frizionandolo in piccole macchie, ora sovrappone le pennellate così da formare uno spesso strato crostoso. Da vicino, quindi, le tele appaiono granulose, un miscuglio incoerente di colori, ma se ci si allontana la composizione prende corpo, precisandosi nei particolari. Il motivo è rappresentato in diverse ore del giorno e con diversa illuminazione, dalla lieve foschia del primo mattino allo sfolgorio accecante del sole di mezzogiorno; dalle lettere scritte alla moglie Alice traspare il suo metodo di lavoro, l'accanimento e la fatica con cui affronta l’opera: "E’ veramente difficile, ma non mi fermo. Sono a pezzi, non ne posso più, ho trascorso una notte piena d'incubi: la cattedrale mi precipitava addosso, sembrava blu, rosa o gialla...".

 

 

 

Con questo articolo, apparso su “La Justice” del 20 maggio 1895, George Clemenceau, famoso giornalista francese, decretava il trionfo di Claude Monet in occasione della prima esposizione della serie dedicata alla facciata occidentale della cattedrale di Rouen.

 

Una luce di tutti i colori

La rivoluzione delle “Cattedrali”

di Georges Clemenceau

 

Chiedo scusa ai professionisti, ma non posso resistere al desiderio di fare, per un giorno, il critico d’arte. La colpa è di Claude Monet. Sono entrato nella galleria di Durand-Ruel per vedere ancora una volta con tutta calma gli studi della cattedrale di Rouen che avevo già avuto la gioia di vedere nello studio di Monet a Giverny, ed ecco che questa cattedrale dalle molte facce l’ ho portata via con me, senza sapere come. Non posso liberarmene. Mi ossessiona. Devo parlarne. E, bene o male, ne parlerò. […]

L’oggetto, di per sé privo di luce, riceve dal sole la vita, e ogni capacità di impressione visiva.

Ma le onde luminose che lo avvolgono, che lo penetrano, che lo fanno irradiare nel mondo, sono in perpetua turbolenza: sciabolate di lampi, nebbioline di luce, tempeste di splendore. Che sarà del modello sotto questa furia di atomi viventi attraverso la quale traspare, attraverso la quale ci è manifesto, grazie alla quale, per noi, “esiste” realmente? Ecco ciò che adesso va necessariamente visto, ciò che la pittura deve esprimere, ciò che l’occhio deve scomporre e la mano ricomporre.

E’, in effetti, quanto ha intrapreso l’audace Monet con le sue venti tele della cattedrale di Rouen, suddivise in quattro serie che denominerei: serie grigia, serie bianca, serie iridata, serie azzurra: Con venti tele dagli effetti diversi, appropriatamente scelti, il pittore ci ha dato l’impressione che avrebbe potuto, che avrebbe dovuto farne cinquanta, cento, mille, tante quante i secondi ancora concessi alla sua vita, se la sua vita potesse durare quanto il monumento in pietra, e in più la sensazione che a ogni battito del suo polso potesse fissare sulla tela altrettanti momenti del modello. Per tutto il tempo che il sole resterà su di lei, ci saranno tanti modi di essere della cattedrale di Rouen quante scansioni del tempo l’uomo sarà in grado di effettuare. L’occhio perfetto li distinguerebbe tutti perché si riassumono in vibrazioni percettibili anche per la nostra retina. L’occhio di Monet, precursore, ci precede e ci guida nell’evoluzione visuale che rende più penetrante e più sottile la nostra percezione del mondo. […]

Della tecnica non dico niente. Non è affar mio. […] Ciò che importa è che vedo sorgere il monolito [della cattedrale] nella sua potente unità, nella sua autorità sovrana. Il disegno compatto, netto, matematicamente preciso sottolinea, con la concezione geometrica dell’insieme, sia l’organismo delle masse, sia gli spigoli vivi del groviglio scultoreo […].

Abilmente scelte le venti differenti condizioni di luce, le venti tele si dispongono in un certo ordine, si dividono in categorie, si completano secondo un compiuto percorso evolutivo. Il monumento, grandiosa testimonianza del sole, dardeggia il cielo con  lo slancio della sua massa autoritaria offerta agli assalti della luce. Nelle sue profondità, nei suoi slanci verso l’alto, nei suoi possenti recessi o nei suoi spigoli vivi, il flutto dell’immensa marea solare accorre dallo spazio infinito, si rompe in onde luminose che colpiscono la pietra con tutti i colori del prisma o appaiono placate in chiare oscurità. Da questo incontro nasce la luce, la luce cangiante, vivente, la luce nera, grigia, bianca, azzurra, porpora, tutte le gamme di luce. Il fatto è che tutti i colori sono bruciati di luce, “ricondotti”, secondo l’espressione di Duranty, “all’unità luminosa che fonde i sette raggi prismatici in un solo lampo incolore che è la luce”.

Appese al muro, le venti tele sono venti rivelazioni meravigliose, ma la stretta relazione che le lega sfugge, temo, all’osservatore frettoloso. Ordinate in base alla loro funzione, rivelerebbero la perfetta equivalenza tra l’arte e il fenomeno: il miracolo. Immaginatele disposte su quattro pareti così come lo sono oggi, ma in serie di transizione di luci: la grande massa nera all’inizio della serie grigia che via via diventa sempre più chiara, la serie bianca che va dalla luce sfumata alle precisioni splendenti che proseguono e si completano nei bagliori cangianti della serie iridata, i quali si addolciscono nella calma della serie azzurra e si dissolvono nella divina nebbia turchina.

Allora, con un ampio colpo d’occhio che abbraccia il tutto, avrete, in una folgorazione, la percezione della cosa fuori del comune, del prodigio. E quelle cattedrali grigie, che sono di porpora o di azzurro violentato d’oro; e quelle cattedrali iridescenti, che sembrano viste attraverso un prisma girevole; e quelle cattedrali azzurre, che sono rosa, vi daranno tutt’a un tratto la visione duratura non più di venti, ma di cento, di mille, di un miliardo di aspetti diversi della cattedrale di sempre nel ciclo immenso dei soli. Sarebbe la vita stessa, così come può essercene comunicata la sensazione nella sua realtà più intensa. Ultima perfezione d’arte fin qui mai raggiunta.

 

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