Un bambino, un cane, un cavallo

Il 17 Gennaio 1944, intorno alle ore 14, uno stormo di dodici bombardieri bimotori B26 Marauder dell'USAAF bombardò da bassa quota Chiaravalle. Era il giorno della festa del Santo Patrono, e nonostante le restrizioni della guerra ufficialmente appena terminata, le strade erano piene di gente. Morirono oltre duecento persone, i feriti furono svariate centinaia.
Anni dopo, gli storici cercarono (e cercano) di stabilire le motivazioni di tale massacro, ma gli archivi dell'US Army, generalmente perfetti, risultarono singolarmente reticenti e incompleti sull'argomento. Il Comandante della formazione, rintracciato nel dopoguerra prima che un cannone antiaereo russo in mano coreana lo spedisse a tener compagnia alle sue vittime, affermò essersi trattato di un errore, il bersaglio era la stazione ferroviaria.
Considerando che la bomba più vicina cadde a trecento metri dalla stazione, e la più lontana ad oltre un chilometro e mezzo, che il tempo era limpido, la quota bassissima e non esisteva antiaerea, la giustificazione è del tutto risibile, ma altro non si è potuto sapere.
Per completezza storica bisogna aggiungere che nello stesso giorno e praticamente alla stessa ora la cittadina di Urbania, nel Montefeltro, subiva lo stesso trattamento; e lì non c'era neanche la stazione.

Un bambino

Avevo cinque mesi, i pannolini zuppi e piangevo come un ossesso, il viso ridotto a una maschera di polvere e lacrime; ero in braccio a mia madre, che sedeva sulla canna della bici di mio padre, che pedalava come un forsennato.
Sul portabagagli posteriore, una borsa di tela piena di pannolini e cambi di vestito, e un sacco con cinque chili di patate, troppo prezioso per essere abbandonato.
L'ultima bomba era caduta da meno di mezz'ora, una aveva centrato il palazzo accanto al mio, frantumandolo con tutti i suoi abitanti. Le vie del paese erano un inferno di polvere e macerie, le urla dei feriti riempivano l'aria insieme alla sirena antiaerea, non c'era rimasto nessuno per spegnerla.
Mio padre pedalava verso la campagna, diretto alla fattoria dove era sfollato tutto il resto della famiglia, a una decina di chilometri dal paese.
Gli altri erano tutti di Ancona, ed erano sfollati da tempo perché la città incassava bombardamenti quotidiani da svariati mesi; noi eravamo rimasti in paese perché non vi era (si pensava) ragione di temere bombardamenti e perché mio padre doveva ancora recarsi al lavoro all'Officina delle FS ad Ancona, peraltro ridotta a un cumulo di rottami.
Ma il posto in campagna c'era, e li correvamo a rifugiarci.
Ho letto delle sistemazioni di fortuna degli sfollati in campagna: la nostra, più che di fortuna, era fortunata, per via di una peculiarità dei casoni di campagna della Vallesina. Le case, a due piani a pianta rettangolare, erano tutte sormontate al centro da una sorta di torre ad un solo piano, spesso tanto larga da essere praticamente un terzo piano.
Munita di alcune finestre, aveva una porta che dava nel vuoto, sormontata da un supporto in ferro per una carrucola.
Il fatto è che nella Vallesina, fino agli anni trenta, era fiorentissimo l'allevamento del baco da seta; era quindi pieno di gelsi secolari e quella strana aggiunta alle costruzioni veniva denominata "bigattiera".
Ora, in marchigiano "cittadino", bigatto è sinonimo di scarafaggio; in campagna venivano così chiamati invece i bachi da seta.
Il pavimento di questi stanzoni veniva ricoperto da un alto strato di foglie di gelso, e li venivano messi al pascolo i bruchi, che mangiavano a più non posso, per poi rinchiudersi nel loro prezioso bozzolo.
L'industria della seta morì, nonostante l'autarchia, per via di una globalizzazione ante litteram; quegli stanzoni rimasero vuoti e accolsero centinaia di sfollati, in miniappartamenti ricavati stendendo teli e lenzuola su fili tesi trasversalmente.
Noi del terzo millennio ci potremmo chiedere: e i servizi? No problem, i gabinetti non c'erano neanche ai piani di sotto; per l'inverno c'era il caldo odoroso della stalla e per l'estate la frescura del dietro fratta.
Per l'acqua c'erano pozzi generosi e sicuramente non inquinati, la luce elettrica se ne andò definitivamente un mese dopo il bombardamento, per il riscaldamento c'era un posto accanto al camino per i piccoli e il calore piuttosto olezzante della stalla, dove si stava a veglia parlando e giocando a carte, mentre le donne si davano ai necessari lavori di cucito, tutte intorno a mia nonna che portava giù la sua portatile Singer, e, appoggiata al cassone delle sementi, dava consigli e risolveva problemi di alta sartoria, tipo rattoppare una toppa.
Eravamo un bel mucchio di gente: otto erano i padroni di casa, poi la famiglia della sorella di mia madre, moglie, marito e i miei due cugini di sette e cinque anni, i miei due nonni materni, lo zio professore che aveva la famiglia sfollata vicino Città di Castello ma che insegnava nel paese vicino, e ora noi tre, padre, madre e mostriciattolo frignante.
In realtà si stava bene, si mangiava meglio e tutti godevano di ottima salute: le vacche erano generose di latte, polli e conigli non mancavano, il maiale veniva coscienziosamente ingrassato e i soldi delle famiglie sfollate servivano a comprare ciò che alla fattoria mancava. Lo zio Cesare, funzionario INAIL mandato a casa perché i suoi uffici erano un cumulo di rovine, collaborava in pianta stabile ai lavori agricoli, mentre lo zio Aguinaldo e mio padre lo facevano solo nelle ore libere.
La storia di zio Cesare merita di essere raccontata; quando si dice la fortuna…
Capitano di complemento, era stato in Nordafrica fin dal 1941, e se le era proprio viste tutte, da Tobruk in poi. Alla fine del '42, era in una trincea con i suoi bersaglieri in una località chiamata El Alamein, quando era stato colto da un attacco di infezione gastrica terribile. Era stato curato alla men peggio, rimpatriato d'urgenza, e mentre al Celio lo dichiaravano inabile al servizio la sua compagnia veniva spazzata via dai carri inglesi.
La cosa lo aveva molto depresso, ma pensando ai figli era riuscito a passarci sopra e a riprendere il suo lavoro all'INAIL; era l'esperto militare di famiglia, e un paio di volte questa sua esperienza ci salvò la pelle.
Il sottoscritto, ben pasciuto e con una faccia da mela cominciava a passare le sue giornate su una copertina sotto un gelso secolare, contendendo a Poldo, il bracco del padrone di casa, fette di mela e tozzi di pane: prima li ciucciavo io, poi li finiva lui; ma spesso avveniva il contrario.
I miei cugini, ufficialmente incaricati di badare a me, in realtà passavano le giornate a infastidire tutti gli animali da cortile, compreso un caprone di pessimo carattere, il che dava spesso luogo a furibondi inseguimenti in cui rischiavo di essere travolto; di solito era Poldo che digrignava i denti al caprone, invitandolo cortesemente a stare alla larga dal "suo" cucciolo. Quando poi non bastava, il povero caprone rimediava qualche mozzicone sulle zampe, estremamente convincente.
Fino alla primavera, l'atmosfera fu idilliaca; i combattimenti erano ancora lontani, di tedeschi se ne vedevano pochissimi, qualche caccia alleato veniva a fare scorrerie facendo il tiro al bersaglio sui rarissimi camion militari che osavano circolare di giorno e sulla gente nelle strade di campagna.
A tal proposito, si era stabilito una specie di codice; giacché tutti i militari avevano divise scure, i contadini e gli altri viandanti si vestivano il più possibile di chiaro, sperando che i piloti capissero la differenza. La cosa sembrava funzionare: spesso il caccia scendeva col motore urlante verso l'impietrito contadino, poi all'ultimo istante il pilota "richiamava" il velivolo e si allontanava oscillando le ali in segno di saluto.
Oggi come oggi sono più propenso a credere che la sopravvivenza fosse più che altro affidata all'ottima conoscenza che tutti avevano di fossi e fratte in cui nascondersi…

Un cane

Intanto erano arrivati i "prigionieri polacchi", in realtà disertori dell'esercito tedesco, e fu una gara fra tutti i contadini per nasconderli a rotazione nelle diverse fattorie.
Anni dopo lo zio Aguinaldo mi spiegò come stavano le cose.
Alla caduta della Polonia, una consistente fetta dell'esercito polacco e una gran massa di volontari fu traghettata in salvo in Inghilterra, dove andò a formare il Corpo di Spedizione del famoso Generale Anders. La borghesia medio-alta, pesantemente antisemita, vide con un certo favore le deportazioni di ebrei da parte dei nazisti, e rimase a casa accettando di buon grado l'occupazione. Poi, quando le cose volsero al peggio, si ritrovarono arruolati a forza nell'esercito tedesco e spediti sul fronte russo. Lì combatterono per salvare la pelle; la scelta era tra una fucilazione tedesca e una dei russi, che per vecchi conti da regolare non prendevano prigionieri.
Comunque, in un inusitato empito di piètà e anche perché i russi, quando sapevano di aver davanti polacchi attaccavano a testa bassa finché non li avevano sterminati, i comandi tedeschi pensarono bene di trasferire i reparti polacchi sul fronte italiano.
In un ambiente decisamente meno ostile, cominciarono le diserzioni.
Il "nostro" polacco era un ex caporale nonché professore di lettere classiche, e quindi le comunicazioni le teneva mio zio…in latino e greco.
Stette parecchio nascosto nel "rifugio antiaereo" costruito da zio Cesare e da mio padre, una piccola forra coperta da grossi tronchi, a loro volta coperti da un metro di terriccio e mimetizzati da un'inestricabile groviglio di rovi, poi passò "in carico" ad altre fattorie.
Intanto i tedeschi lo cercavano, sulle prime in maniera alquanto blanda, poi, col fronte che si avvicinava e il passaggio dei reparti operativi, in maniera più intensiva.
A condurre le ricerche era la "forza di occupazione" di Chiaravalle: una trentina tra soldati di sanità e addetti al casermaggio, con un camion e un anfibio Wolkswagen.
Il capitano che li comandava conosceva bene lo zio Aguinaldo, l'unico che parlasse tedesco ed essendo anche lui professore di lettere in una scuola vicino Monaco, spesso lo fermava per strada per lunghe chiacchierate in tedesco o in latino.
Una mattina, all'alba, più che il rumore dei veicoli ci svegliò Poldo abbaiando furioso, seguirono gli urlacci dei soldati che imponevano a tutti di scendere sull'aia e di allinearsi contro il muro della stalla.
Sulle prime non prendemmo la cosa molto sul serio, erano gli stessi soldati che si sbronzavano nelle osterie del paese e venivano a cercare "camera lardo", la dispensa, che trovavano inesorabilmente vuota.
Ma il capitano spiegò a mio zio che, suo malgrado e per via degli ordini ricevuti, il polacco doveva saltar fuori a tutti costi, o ci sarebbero state rappresaglie.
Per via indiretta la richiesta fu ripetuta più e più volte al capofamiglia, che ovviamente rispondeva di non saper nulla, finché il sergente che interrogava si inferocì e mollò un pugno all'anziano contadino, sbattendolo a terra.
E li Poldo perse la testa.
Fino a quel momento era rimasto accanto al suo padrone, spaurito e con la coda fra le gambe; quando lo vide colpito e gettato a terra, lanciò una specie di ruggito e con un balzo addentò il tedesco al braccio.
Per qualche istante il grosso tedesco non seppe che fare, poi con l'altra mano riuscì ad afferrarlo per la collottola e a lanciarlo lontano.
Poldo si rimise prontamente in piedi e si apprestava ad attaccare di nuovo, ma il soldato accanto al capitano alzò il mitra e gli scaricò addosso una raffica.
Poldo stramazzò con un guaito.
Per lunghi attimi tutto rimase in un silenzio congelato; poi il capitano, senza neanche guardare, mollò un terribile manrovescio al soldato che aveva sparato, facendogli volare via elmetto e mitra. Poi si avvicinò a Poldo, che ancora guaiva, estrasse la pistola e guardò il contadino; quello fece un breve cenno di assenso e il capitano sparò il colpo di grazia.
Poi si rivolse a mio zio, che guardava impietrito e gli chiese che cosa ne pensasse: mio zio si riscosse e cominciò:
- Quando cominciamo a prendercela con gli animali…-
- Vuol dire che siamo diventati peggio delle bestie. Giusto, Herr Professor-
Poi, a urli, fece risalire i suoi uomini sul camion, e i due veicoli si allontanarono in una nuvola di polvere.
Io piangevo per gli spari, i miei cugini pure, perché avevano capito che Poldo era morto; a loro fu consentito di seppellirlo, con l'aiuto del padre e di uno dei contadini, sotto un gelso secolare ai margini del campo.
Papà, mani d'oro, trovò una tavola, ci incise sopra "Poldo 1944" e il coraggioso cane ebbe la sua lapide.
Trent'anni dopo la lapide era ancora li, in marmo e con una foto del cane: era stata una delle ultime volontà del vecchio capofamiglia.

Un cavallo

Intanto il fronte si avvicinava: il tuono delle artiglierie era continuo, la notte dietro le colline a sud-est era un lampeggiare continuo.
I tedeschi, per l'ultima battaglia della zona si arroccarono nel paese di Filottrano; gli Alleati pensavano di risolvere il problema col metodo "one foot", ovvero bombardare finché non restavano muri più alti di trenta centimetri, un piede, appunto. Gli ufficiali italiani del Corpo Cobelligerante si indignarono per l'ennesimo scempio di un gioiello medievale, e chiesero di risolvere loro la questione; così, senza alcun bombardamento, i paracadutisti della Brigata Nembo investirono il paese e scacciarono i tedeschi "dopo due giorni di furiosi combattimenti casa per casa", così recita la lapide posta all'ingresso delle mura del paese.
I tedeschi si ritirarono rapidamente, nottetempo; dopo i mezzi pesanti, i piccoli reparti e gruppi di retroguardia, attrezzati in maniera vieppiù scalcinata: niente più veicoli motorizzati, ma carretti a traino animale, o addirittura a mano, con sopra mitragliatrici, munizioni e zaini.
Tutti i carretti e i cavalli venivano requisiti, e questo accadde anche a Giorgio.
Giorgio era un decrepito cavallo che i contadini tenevano in stalla per affetto più che per utilità; pare che fosse venticinquenne, come attestato dai suoi lunghissimi incisivi.
Due soldati tedeschi lo portarono via attaccato ad un carro normalmente trainato dal bue, ignorato perché troppo lento, e che Giorgio riusciva appena a trascinare.
Zio Cesare seguì, con perfetta tecnica da commando, i due tedeschi, che portarono trionfanti il cavallo al loro piccolo reparto, fermo li vicino.
Un sergente esaminò, scotendo la testa, la povera bestia, poi gli scoprì gli incisivi, sparò un paio di insulti all'indirizzo dei due razziatori, lo staccò dal carretto e lo legò ad un alberello.
A quel punto mio zio, timoroso che qualcuno gli sparasse, si fece avanti per recuperarlo. Il sergente, ridendo, gli tese la cavezza chiedendogli in italiano maccheronico cosa se ne facesse.
- Alte freunde, vecchio amico - maccheronizzò di rimando mio zio.
- Italiani sempre cuore tenero - sghignazzò il sergente, facendogli segno di andar via.
Così Giorgio tornò nella stalla, a dividere con la mucca e i due buoi lo scarso foraggio rimasto: per fortuna i campi cominciavano a inverdire, e così il vecchio cavallo sopravvisse al passaggio del fronte.
Intanto cannoni e carri tedeschi si erano attestati sul crinale dalla parte opposta della valle, a meno di un chilometro e mezzo dalla nostra casa.
Quando una mattina gli Sherman polacchi cominciarono a scendere la tortuosa strada delle colline, furono subito inchiodati dai cannoni da 88 tedeschi, e si scatenò l'inferno.
Dopo i primi, affrettati passaggi di ricognizione di caccia e bombardieri, l'artiglieria pesante alleata si schièrò sul rovescio delle colline a sud e cominciò a scaricare una valanga di colpi sulle colline dall'altra parte della valle.
Tutti ci eravamo nascosti nel "rifugio" nella forra, i buoi e il cavallo pure loro nella forra sotto un grosso gelso pendulo.
Zio Cesare e papà, col binocolo militare di zio, seguivano fra le frasche l'andamento della battaglia.
Zio sfoggiava le sue conoscenze dei vari pezzi d'artiglieria, papà commentava con maschie parolacce e tutti e due, credo, si divertivano come pazzi.
I tedeschi si divertivano assai meno: le cime delle colline ribollivano come vulcani, il fuoco dell'artiglieria s'interrompeva solo per lasciar spazio a caccia e bombardieri che si davano ai lavori di rifinitura.
Ogni possibile camuffamento, boschetti, case rurali e altro, era svanito, la cima delle colline era un fritto misto di terra rivoltata, macerie e pezzi di armamento tedesco.
Dopo due giorni e due notti di quel putiferio, una mattina tutto tacque e i carri polacchi ricominciarono a scendere la collina…e bum, uno fu fatto secco dalla cannonata dell'unico "Tigre" che era sopravvissuto a quell'inferno ritirandosi abbondantemente dietro le colline.
Per un attimo zio e papà pensarono che sarebbe tutto ricominciato da capo, ma quel Tigre era pilotato da suicidi: una torma di cacciabombardieri si gettò furiosamente in picchiata, quasi a contendersi quell'unica preda, e il carro svanì in un ribollire di terra e di esplosioni.
Seguirono ore di silenzio, rotto da lontani stridii di cingoli, poi sulle stradine di campagna apparvero come per incanto le scout car, le jeep da ricognizione, che passavano a tutta velocità per arrampicarsi poi sulle colline a nord ovest.
Seguirono colonne di carri e trasporti corazzati, che anche loro si arrampicarono veloci sulle colline, in quella corsa all'inseguimento che si sarebbe fermata per tutto l'inverno sulla Linea Gotica.
Uscimmo dal nascondiglio per veder apparire il resto, quello che c'era dietro la macchina bellica vera e propria: una miriade di camion, ambulanze, mezzi meccanici di tutti i tipi di cui presto brulicò l'intera vallata.
Tra noi e il paese, in una grande spianata, sorse con la velocità del lampo una immensa tendopoli, un grande ospedale da campo, e il traffico di camion e ambulanze si infittì ulteriormente.
Tutti guardavano attoniti quello spaventoso schieramento di mezzi, e nonno commentava, tra l'amaro e il sarcastico - …E quell'imbecille di Mussolini pensava di vincere la guerra! -.
Ma le meraviglie non erano finite.
Una mattina alcune jeep cominciarono a fare il giro del paese e di tutte le case rurali, distribuendo un volantino in italiano dove si invitava la popolazione civile a portare i suoi ammalati e feriti all'ospedale: chi non poteva muoversi doveva avvisare, sarebbe venuta l'ambulanza. Allegato c'era un altro foglietto, dove si invitavano le mamme a portare i bambini, anche se in buona salute, per una visita di controllo al …reparto pediatrico.
Il militare di famiglia ci rimase secco: che in un "combat hospital" ci fosse anche un reparto pediatrico era una cosa inaudita.
Due giorni dopo comparve sull'aia un camion attrezzato con panche e scaletta, per imbarcare malati, mamme e bambini.
L'ospedale era una bolgia infernale: mamme e bambini furono scaricati davanti a un tendone e sfilarono davanti a un banco dove veniva distribuito un biglietto numerato, un pezzo di cioccolata ai più grandicelli (ma un interprete si informava se avevano problemi gastrici) e una tazza di caffè per le mamme. Già quello bastò per far allibire tutti: non si era mai visto una tazza di cartone e una roba che all'odore era caffè, ma all'aspetto the o altro; una volta assaggiato qualcuno commentò che i surrogati del duce erano meglio, ma era caldo, dolce e tanto…
Poi cominciarono le visite: io stavo benissimo, il pediatra, attraverso una infermiera/interprete redarguì mia madre perché a otto mesi ancora mi allattava al seno, ma era l'unico cibo pediatrico disponibile.
Mi fu prescritta una pomata per la "crosta lattea" che avevo abbondante in testa, poi le mamme furono fatte sfilare davanti a un bancone dove, a seconda dell'età veniva distribuito un pacco con cibi disidratati, vasetti, creme e aggeggi vari antiparassitari.
Io avevo pochi capelli e niente pidocchi, ma i miei cugini più capelluti erano abbondantemente abitati…
Di nuovo sul camion, dove qualcuno aveva certamente annotato gli indirizzi, perché senza che nulla ci fosse chiesto ci ritrovammo, alla fine della mattinata, ognuno a casa propria.
Ora la guerra era veramente finita: tornammo a casa, per fortuna intatta, e cominciarono i tempi duri, niente soldi e niente cibo.
Dopo meno di un mese mio padre fu richiamato a lavorare alla "rail combat factory" allestita dagli inglesi a Falconara. Gli americani, che amministravano il personale, consci della situazione distribuivano "amlire" a pacchi, e adeguavano la retribuzione praticamente ogni settimana, ma al mercato ufficiale non c'era niente da comprare, e al mercato nero che impazzava i prezzi erano proibitivi.
Papà riportava sempre a casa la scatola di corned beef che veniva distribuita per pranzo, non aveva mai fame, a quell'ora…

Conclusione

Mai come in questo caso queste righe sono state scritte sul filo dei ricordi: ho messo insieme quanto mi è stato raccontato dai protagonisti adulti, di cui ora nessuno è più vivente. Naturalmente si tratta di ricordi soggettivi, che non sempre combaciano: solo quanto detto a proposito del bombardamento di Chiaravalle e di Urbania è storia documentata. Anche la cronologia è approssimativa: quanto tempo sia passato dalla presa di Filottrano all'occupazione della Vallesina non lo so con precisione, ma siccome da Chiaravalle si vedono bene i lampi dei fuochi d'artificio della festa del Santo Patrono a Filottrano, sono portato a pensare che i lampi all'orizzonte che i miei vedevano fossero quelli della battaglia intorno al paesino del maceratese. In ogni caso, come ho detto in altra occasione, i piccoli fatti della vita di ognuno cessano di esistere quando ne svanisce il ricordo: e siccome di questi eventi è bene che il ricordo rimanga…mai dimenticare!
Claudio Barbanera

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