IL BUCKANIERE

L'attesa

Erano gli anni 70. Il lavoro di mio padre ci aveva portato da Roma ad una cittadina di provincia del nord, Pavia, densa di nebbie d'inverno e di zanzare d'estate, ma, almeno apparentemente, sicura e protetta per dei bambini in quegli anni cosi' duri nelle grandi città'. Era tanto tempo che io e mio fratello ad ogni capriccio mettevamo su' il solito disco con i nostri genitori: "Mamma ,papa' perché' non possiamo avere un cane?". La risposta era sempre la stessa: "Guido (mio fratello, sei anni all'epoca) e' ancora troppo piccolo e tu (dieci anni) non sei ancora abbastanza grande per prenderti davvero cura di un animale. Poi era arrivato un grande alleato: il nonno. Era venuto a vivere con noi con la nonna perché' aveva bisogno di certe cure che facevano al Policlinico di Pavia.
Nonno aveva avuto decine di cani di ogni tipo: aveva fatto il vigile del fuoco e aveva tenuto in caserma decine di mascotte che saltavano sull'autopompa alla partenza per gli interventi, aveva avuto in 20 anni cinque cani tutti suoi, tutti abituati alla massima libertà', andavano e venivano come gatti. Finche' un giorno ad uno ad uno non erano tornati più' e -,diceva nonno- tutti insieme stavano aspettando che un giorno, lontano lontano ,lui arrivasse in quel posto magnifico dove giocavano liberi per stare per sempre con loro (una specie di ponte dell'arcobaleno).
Fu nonno a portarmi al gran cospetto della famiglia riunita per un solenne giuramento cui avrei tenuto fede molto più' da bambina che da adulta: il tavolo tondo del tinello mi sembrava peggio del grande tavolo della commissione degli esami di 5° elementare che avevo appena sostenuto. Mamma ,nonna e la tata severissime da un lato, papa' e nonno più' sorridenti dall'altro, mio fratello imboscatissimo andava e veniva come se la cosa non lo riguardasse più'.
Se mi prenderete un cane prometto solennemente che sarò io ad occuparmi di lui, prometto che gli insegnerò' ad essere bravo e pulito, che lo porterò' a spasso e dal veterinario e che imparerò' a fargli la pappa, dissi d'un fiato guardando mio nonno dritto negli occhi come cercando aiuto.
Ma il nonno doveva aver già' lavorato ai fianchi della commissione perché' la risposta dei miei fu "Va bene vedremo se potrà' essere quello il tuo regalo per Santa Barbara".
Ero senza fiato, Santa Barbara in una famiglia di vigili del fuoco e per me che ero cresciuta in caserma e che in onore della santa patrona del fuoco ero stata chiamata Barbara, era davvero una ricorrenza speciale ma quell'anno sarebbe stata indimenticabile.
C'era solo un argomento da discutere ancora: che tipo di cane?
Il fronte femminile della famiglia, eccetto la sottoscritta era propenso ad accogliere un cane di piccola taglia, una di quelle pallette di pelo vocianti che io chiamavo topi e non cani. Io e mio fratello volevamo un cagnone, un grosso compagno di giochi, ma mia madre inorridiva al pensiero. Fu lei dunque a scegliere la razza e decreto': barboncino. A me e a Guido resto' solo la scelta del colore: nero.
Dopo un attimo di delusione decidemmo che la taglia poco importava, l'importante era trovare un nome. Ma quale?

L'arrivo 4 dicembre 1972

E arrivo' finalmente la mattina di Santa Barbara. Ne' io ne' Guido sapevamo se il cucciolo sarebbe arrivato proprio quel giorno, tutti tacevano nessuno ci dava retta. Tutti troppo impegnati in un giorno di festa cosi' solenne per chi ha sempre vissuto tra vigili del fuoco.
Quale che fosse il giorno della settimana noi a Santa Barbara non si andava a scuola. E gia' era sufficiente per far festa. In compenso pero' almeno nella mattinata dovevamo sottoporci ad un lungo rituale: messa nel garage autopompe appositamente svuotato per accogliere la cittadinanza, esibizione dei vigili dal castello di manovra (a due anni mi e' capitato di fare la mascotte e di "volare" nel telo di sicurezza dall'alto del castello in braccio ad uno dei veterani, una sensazione di magnifica incoscienza che mi sembra di poter riprovare a volte pensandoci),vestitini eleganti della festa (una vera tortura) e pranzo solenne che iniziava con la preghiera del vigile del fuoco, che ancora so a memoria.
La mattinata passo' dunque secondo copione e dopo pranzo (papa' era a quello ufficiale con tutta la truppa e le autorità') ricevetti i regali del mio onomastico. Per quel giorno mi ero dunque messa il cuore in pace. Guido era andato al doposcuola ed io mi ero attaccata al telefono per sapere dai compagni cos'era successo in mia assenza a scuola.
In quel momento entro' papa'. Reggeva con una mano una gabbia per uccellini o criceti, ma era troppo grossa per tentare di nasconderla dietro alla gambe come cercava di fare. Non vedevo bene la gabbia, ma non pensai al cucciolo. Che ci doveva fare un cucciolo di barboncino (come voleva mia madre)in una grande gabbia per uccelli?
Fu solo quando papa' fu vicino e senza parlare depose la gabbia ai miei piedi che vidi in un angolo una palletta di pelo nero di cui non si distingueva ne' muso ne' coda tanto era raggomitolata.
Emisi un urlo tale che tutto il resto della famiglia accorse spaventato e il cucciolo si raddrizzo' mostrando gli occhi più' dolci che ,ancora oggi che ho due cani che amo alla follia, io abbia mai visto ad un cane. Fu amore a prima vista: il piccolo si fece subito prendere dalle mie manine e si fece avvolgere in un abbraccio infinito.
Era caldo ,morbido e un po' tremante. Papa' mi spiego' che veniva da Milano, lo attendeva per la mattina ma era incappato in una manifestazione ed era rimasto bloccato. Probabilmente si era spaventato di tutti quei rumori e scossoni. Ma adesso era qui e da come si rilassava tra le mie braccia, sembravo piacergli. Tutti si avvicinarono per carezzarlo e per stringere me e lui in un solo abbraccio. Solo mia madre guardo' mio padre come se l'avesse fatta grossa perché' dalle dimensioni del cucciolo si era già' accorta che si trattava di un bellissimo barbone medio. Noi volevano un cane grosso, mamma un barboncino nano, papa' ci aveva accontentato tutti. Corsi a prendere Guido al doposcuola. Avevo un loden blu, misi il cucciolo nel cappotto facendo sporgere solo la testina.
Quando Guido lo vide i suoi occhi di bambino presero a scintillare: ci abbracciammo stretti, tutti e tre, tre fratelli, il nostro piccolo era arrivato; per quasi 14 anni saremmo stati davvero tre fratelli, solo che lui il cucciolo avrebbe coperto più' ruoli per noi di quanto noi potessimo fare per lui. Fu il nostro compagno di giochi, il nostro primo sorriso del mattino, le corse ed il nascondino nel cortile della caserma asciugo' le nostre lacrime disperate di adolescenti e infine ci lascio' andar via troppo stanco per seguire i nostri colpi di testa giovanili.
Quel giorno iniziarono anni bellissimi e sono convinta che siano stati belli ed equilibrati anche grazie a lui,quel cucciolo che fino a quel momento non aveva un nome.

Il nome

Il primo aggettivo che ancor oggi mi viene in mente per il migliore amico della mia infanzia e' morbido.
Non ricordo con precisione cosa fece quel giorno tornati a casa, oltre un numero imprecisato di pipi' e popò' esattamente dove mia madre non voleva, ma ricordo che da subito si mise a dormire di fianco al mio letto. Non ha mai preteso di salire ma e' sempre stato li' vicino: per tutta la vita sarebbe stato presente e discreto, dolce e tenero.
Un solo richiamo lo avrebbe allontanato da me: la voce di mia nonna o di chiunque dicesse "C'e' ciccino". Il ciccino per mia nonna era la carne e in orario di scuola e cioè' preparazione pasti, il mio cane era tutt'uno con mia nonna. La attendeva con ansia sulla porta quando andava a fare la spesa, le saltava festoso intorno al rientro ,soggiornava sotto il tavolo nella certezza, più' che nella speranza, che qualcosa di succulento cadesse a terra. Qualche volta riuscì' ad assestare dei tiri mancini, secondo me con la complicita' della nonna, fregandosi intere bistecche dal tavolo.
E a quel punto non lo poteva più' toccare nessuno, se qualcuno si avvicinava a lui e alla sua preda ringhiava con un suono minaccioso che nessuno di noi poteva sospettare potesse produrre.
Il rapporto che lo porto' col tempo ad essere più' il cane di mia nonna che il nostro (secondo me per lui eravamo suoi fratelli, suoi simili che si rotolavano e correvano con lui, solo meno pelosi),passa proprio attraverso quelle mattinate in cucina.
Mi ricordo benissimo, quando poi ci trasferimmo a Milano, il lungo corridoio che lui percorreva alla velocità' della luce per correre incontro a mia nonna, e la delicatezza con cui le girava intorno senza sfiorarla, consapevole della precarietà' di quelle gambette di nonna rinsecchite dall'eta'. Era una scena che mi inteneriva, sembravano invecchiare insieme quei due e conoscere l'uno le debolezze dell'altra.
Ma torniamo a quella prima sera, quando il cucciolo era ancora un cucciolo in attesa di un nome. Riuniti intorno ad un tavolo in una delle nostre solite riunioni di famiglia, restringemmo la rosa ai tradizionali nomi dati in cinquant'anni ai cani degli Ancillotti.
Niente a che vedere con i nomi che si danno oggi (il mio attuale "primogenito "si chiama Mario!),adesso i tre nomi che restavano sul piatto suonano buffi ed anacronistici come Fido: Gip (c'erano stati un Gip, un Gip secondo ed un Gip terzo),Ducci (ce ne erano stati due) e Buck (l'ultimo cane di mio padre),scritto cosi' e pronunciato come libro in inglese.
La tv era accesa mentre parlavamo: non so se ricordate una pubblicita', non ricordo di quale prodotto, che utilizzava un cartone animato in cui un pirata, con un grosso buco nella pancia, causato da una palla di cannone cantava "Son Buck, il bucaniere".
Bene ;Buck fu battezzato da noi, Buck il Buckaniere al suono di quella canzoncina. Il piccolo sembrava gradire scodinzolava e si rotolava per lasciarsi grattare il pancino. Il nome gli si adattava perfettamente: un po' pirata ,un po' gentilcane. Ebbe due soli amori: Kelly barboncina assolutamente fuoritaglia per lui, con cui fece per due lunghi anni lunghe passeggiate serali, e la carne cruda che gli passava sottobanco mia nonna. Io, Guido e lui eravamo tre fratellini felici e affiatati, come mi ricordano ancora oggi vecchie polaroid un po' stinte. Furono anni bellissimi. Fino alla fine del liceo non venni mai meno nei confronti della promessa fatta ai miei di occuparmi seriamente di Buck e lui non sembrava aversene troppo a male se le mie uscite con lui non erano piu' cosi' frequenti come una volta. Era ormai un cane maturo nel pieno del suo vigore e amava la compagnia piu' quieta e sempre appagante della nonna quanto quella rumorosa e scatenata di mio fratello che gli faceva ricoprire ruoli improbabili nei suoi giochi.
Di Buck ricordo che non mi ha mai lasciato sola durante le mie frequenti crisi adolescenziali: quando piangevo sconsolata nella mia stanza per eventi che mi sembravano irreparabili, Buck si avvicinava discreto e leccava le mie lacrime. Quante arrabbiature ho sfogato abbracciata a lui, che tenero e docile si prestava a farmi da spalla su cui piangere e a differenza di amici troppo invadenti non chiedeva nulla e capiva tutto.
Era un cane festoso giocherellone, naturalmente sordo ai nostri ordini, ma che ci stava sempre vicino, sempre a tiro per darci chissà' quale aiuto, visto che non era un mastino.
Arrivava ovunque: sapeva aprire le porte e spostare le cose in un modo che non ho mai visto più' fare ad un cane: usava la zampina come una mano, non spingeva gli oggetti ma li tirava a se' per spostarli!
Vicino alla caserma di Milano (dove ci eravamo ad un certo punto trasferiti)c'era un campo ahimè' incolto e un giorno un povero topo (per fortuna non di fogna)decise di salire dal campo al nostro appartamento.
Era sera, stavo guardando la tv e vidi un'ombra saettare lungo il muro. Dissi con il tono più' quieto del mondo "Gurda, guarda c'è' un topo." Scatenai l'inferno: mia nonna e mia madre in piedi sul divano (come se un topo che ha raggiunto il secondo piano, non potesse salire su quei 50 cm di stoffa). Mentre mio padre brandiva una scopa nel tentativo di farlo tornare da dove era arrivato, ci accorgemmo che Buck aveva improvvisamente assunto l'aria minacciosa del segugio: insegui' il topo (manco piccolo ora che ci penso)per il lungo corridoio e come se avesse studiato un piano lo costrinse ad entrare nel bagno, senza via d'uscita. Mio padre mi raccontò che con un sol balzo ed una sola zampata lo aveva annientato. Poi lo aveva annusato ed era corso da mio padre per mostrargli la missione compiuta e per cercare conferma al suo operato. Mi sembro' infatti perplesso davanti a quel topo che non si muoveva piu', non proprio fiero di se', ma il vederci sollevati lo appagava e per tutta la sera mi resto' appiccicato in cerca delle mie carezze.
Il campo da cui era venuto il topolino era terreno di scorribanda per il buckaniere, l'anima pirata di Buck. A volte approfittava dell'essere libero dal guinzaglio per mostrarci quanto se ne infischiasse dei nostri ordini. Semplicemente ci seminava, ma sono sicura che da lontano ci teneva d'occhio. Poi ricompariva (accadeva spesso la sera tardi, quando per pigrizia scendevo in pigiama) dopo avermi lasciato mezz'ora al fresco della sera, con stampato sul muso un sorrisetto che mi ha sempre fatto sospettare che dietro quelle piccole fughe si nascondessero tentazioni o amorose o culinarie.
Lo so, proprio io che oggi scrivo documentari e dovrei mantenere l'oggettività' dello studioso sul mondo animale, vedevo sul muso di Buck un improbabile sorriso. Eppure c'era: forse erano gli occhi che ridevano, o le orecchie! Ma secondo me voleva trasmetterci la sua contentezza anche per non farsi sgridare per la fuga. Tutto in quegli anni fu talmente tranquillo e sereno che faccio fatica ad riportare alla mente anche solo pochi ricordi precisi.
La paura doveva impadronirsi di noi, come spesso accade all'improvviso.

La malattia

Nonostante fosse un bell'esemplare della sua razza, Buck non ha mai visto un'esposizione, ne' vi ha mai partecipato. Noi eravamo troppo piccoli e i nostri genitori troppo indaffarati e sinceramente la toelettatura dei barboni io la trovavo davvero ridicola e le mostre (lo penso ancora) qualcosa che esiste per la vanità' degli uomini invece che per il divertimento dei cani. Amavo lasciarlo allo stato brado, col risultato che alla fine dell'inverno Buck era un complicato intrico di pelo che si poteva districare solo con una tosatura a pecorella che lo rendeva la meta' della sua stazza. Avevamo l'errata convinzione che questo lo facesse sentire più' fresco e poi visto che al mare si era beccato due volte le zecche la ritenevamo una precauzione igienica necessaria per tenerlo sotto controllo Dunque per molti mesi Buck aveva il pelo lungo :fu questo che per poco non lo uccise.
Aveva 8 anni e quando andai a riprenderlo al negozio dopo la tosatura, vidi il negoziante scuro in volto. Mi disse: guarda porta il cane subito dal veterinario, perché' penso abbia un tumore. Mi mostro' che accanto all'ano del mio cagnolone c'era un ammasso sporgente tondeggiante grosso come una pallina da ping pong, netto e ora visibilissimo.
Fui assalita dal panico. Volai subito da quello che aveva fama di essere il miglior veterinario di Pavia. Non dimenticherò' mai con quanta durezza e mancanza di minimo tatto mi disse che il cane a suo parere andava soppresso subito.
Tornai a casa sconvolta e piangente: tutto sommato era la prima volta a 18 anni che mi trovavo faccia a faccia con la morte di chi amavo. Nonno, se ne era andato all'improvviso solo l'anno dopo l'arrivo di Buck e un paio di anni più' tardi anche il nonno materno che viveva a Roma, mia città' natale. Ero troppo bambina per percepire esattamente l'idea della morte. Capivo la mancanza ma tutto sommato ero riuscita ad accettarla serenamente come corso naturale per chi e' vecchio. Qualcosa di lontanissimo che non poteva toccarmi.
Ma ora ero un'adulta e Buck era un fratello, era come se la morte volesse prendersi un ragazzino che divideva quotidianamente con me la giornata, era contro natura, non riuscivo a calcolare la vera età' biologica del mio cane rispetto alla mia. Lui era per me sempre quel cucciolo morbido che stringevo tra le braccia 8 anni prima. Accadde allora per me l'incredibile. Mia madre fin dall'inizio si era dichiarata contraria all'arrivo di un cane nella nostra famiglia, secondo me (ora che siamo invecchiate entrambe tutto mi e' piu' chiaro) perché' e' sempre stata un'ipocondriaca cronica ,non tanto per se stessa quanto per i suoi figli, ogni elemento che poteva minacciarci di malattia era sospetto.
Da subito disse che lei non si sarebbe mai occupata di far scendere il cane o fargli da mangiare, ecc. E per anni fu coerente con la sua decisione. Non se la prese mai con il cane se sporcava o faceva disastri, ma sempre con noi che ce ne eravamo assunti la responsabilità'. Pero' i due non si "trattavano " per niente: Buck non faceva feste a lei, lei non si soffermava a farne a lui.
Forse ora che sono mamma ,capisco che mia madre vide il dolore di sua figlia e si mosse come un panzer decisa a fare il possibile. O forse ammise solo allora come Buck fosse anche per lei un elemento insostituibile della famiglia. Riuscì' a farmi ricevere subito a Milano alla clinica veterinaria dell'Università' dal miglior chirurgo per bestiole dell'epoca, il dott. Cheli. E finalmente capimmo qual era il problema e quale la soluzione.
Buck aveva da tempo un'ernia perineale, che aveva creato uno sfondamento della muscolatura attorno all'ano ed una tumefazione che stava degenerando. Bisognava togliere quel fascio di muscoli "marci" e ricreare una tonicita' del tessuto in quella zona. Fermo restando me lo disse subito ,che la causa primaria, quella spinta nervosa che sfondava la muscolatura non poteva essere rimossa. Ma ci sarebbero voluti anni perché' il problema si riformasse. Era molto più' di quanto sperassi: solo che Buck doveva sottoporsi ad una lunga operazione ed io avevo paura per il cuore. Era un cane forte e robusto per fortuna, resto' 4 ore nella sala operatoria, mentre io piangevo a fontana dalla paura nei giardini dell'università'.
Lo portammo a casa con due lunghi tagli verticali: la testolina si strofinava sul mio grembo, mentre si lamentava e il mio cuore si schiantava in due solo a guardarlo.
La riabilitazione fu piuttosto lunga e inaspettatamente nella malattia Buck creo' un feeling esclusivo con mia madre, come se avesse capito che solo lei poteva curarlo a dovere. Solo da lei si lasciava fare docilmente le iniezioni, ripulire le ferite, con lei mosse i primi passi per riabituarsi a sporcare come una volta da solo e fuori casa. Fu straordinario: nonostante il bene che ci voleva accettava solo mia madre per le cure, come se sapesse che noi, pasticcioni, non potevamo aiutarlo piu' di tanto e che era giunto il momento di farsi conoscere meglio da quella bella signora che, essendo una mamma, non poteva che farlo guarire.
Per altri 5 anni tutto torno' come prima. O quasi. Oggi penso che Buck, passato il nostro spavento per la sua sorte ,abbia percepito da allora il cambiamento, la nostra crescita, il maturare di interessi che, sapendolo in forma e sano, ci portavano lontano da lui come dai nostri genitori e da mia nonna. Insomma crescevamo e Buck secondo me capiva che questo non tornava esattamente a suo vantaggio. Il tempo che dedicavamo a lui andava progressivamente restringendosi .Diventavamo come gli altri adulti di casa ,persone tanto indaffarate,da considerare scontata la sua presenza e da pensare che anche lui avrebbe capito.
Forse capiva ,ma non sapro' mai se non ci abbia sofferto. Ricordo perfettamente che a volte quando mio fratello usciva senza portarlo con se', Buck andava a fargli la pipi' sul cuscino Una cosa pero' non era cambiata e non cambio' fin quasi alla fine. Quando uno di noi rientrava Buck saltava sul divano dove c'era il suo cuscino (lavato sfoderato ,con le fodere cambiate piu' volte, lo riconosceva tra mille) e faceva il suo spettacolino, prendeva il cuscino in bocca e faceva il corridoio avanti e indietro come in passerella e noi dovevamo tutti applaudire.
Ricordare quei momenti mi da' gioia ancora oggi. Per qualche tempo mi sembro' che la vita si fosse magicamente cristallizzata in quell'equilibrio: Buck che invecchiava dolcemente ed in salute accanto alla nonna, io e mio fratello alla scoperta della vita, i miei presi dalla routine quotidiana ,ma un po' piu' liberi grazie ai figli diventati man mano piu' indipendenti.
Ancora una volta tutto doveva cambiare all'improvviso.

11 febbraio 1986

Si dice sempre che la sfortuna non viaggia mai da sola. Credo semplicemente che certi destini siano talmente concatenati che una variazione nella vita di uno determina a cascata il cambiamento degli altri. Tutto inizio' con una bella notizia: mio padre era stato destinato a Roma ad un superincarico che rendeva tutti molto orgogliosi. Ma c'era un risvolto pratico che ci mando' poco dopo in crisi.
Nessuno di noi ormai intendeva trasferirsi a Roma e comunque con la nuova carica di mio padre decadeva la possibilità' di avere l'appartamento in caserma a Milano.
Io sono nata e cresciuta in caserma, come mio padre prima di me e mio fratello dopo. Pareva strano doversi privare della vista panoramica su esercitazioni, autopompe ,sirene spiegate, del grande cortile dove Buck scorrazzava, del grande appartamento dove, come diceva mia nonna tra il bagno e la cucina c'erano due fermate d'autobus. Bisognava comprare casa. Bisognava trasferirsi in spazi che a noi sarebbero sembrati per forza ristretti. La grande ricerca inizio' tentando di conciliare i soldi a disposizione con la necessita' di 4 camere da letto, vale a dire un appartamento a Milano in quell'epoca dai costi proibitivi.
E' la mia fantasia forse ma inizio' un periodo durante il quale nonna e Buck sembrarono farsi indietro per rendere a noi e ai miei genitori piu' semplici scelte dolorose.
Non so se il crollo fisico di mia nonna fu determinato da quella 4° camera che non entrava nel nostro portafoglio, anche se i miei si guardavano bene dal dirlo ed io e mio fratello potevamo alla peggio tornare in camera insieme.. Ma so per certo che Buck segui' il crollo della nonna a brevissima distanza. Fu cosi' che si ritrovarono nella stessa situazione, quella di avere bisogno entrambi di assistenza medica, purtroppo l'uno lontano dall'altra. Non ricordo quando fu l'ultima volta che si videro, ricordo pero' che quando le vecchie ferite di Buck cominciarono ad aprirsi, mia madre riprese quel ruolo di crocerossina che all'apparenza sembrava cosi' poco adatto a lei e mia nonna fu subito d'accordo con i miei e con il veterinario nel dare a Buck la dolce morte.
Lo avevamo portato ad una famosa clinica veterinaria, dove era stato una settimana e dove dopo costose indagini avevano stabilito che quella vecchia ernia aveva determinato un tumore ormai inarrestabile
. Ma io e Guido non ne volevamo sapere di ucciderlo, come potevamo far questo a nostro fratello? Conoscemmo un signore, un vecchio veterinario innamorato dei cani che aveva un allevamento e una pensione e gli chiedemmo di tentare di curarlo.
Purtroppo proprio in quel periodo io lavoravo a Torino: cercavo di tornare a trovarlo tutti i giorni e il veterinario mi faceva andare a qualsiasi ora, ma a volte non ci riuscivo. Quante volte mi sono data in seguito dell'egoista per non aver piantato il lavoro per riportarmi a casa Buck e assisterlo di persona, forse lui stava morendo perché' gli mancava la vita di prima.
Feci quanto di peggio potesse essere fatto: per puro egoismo: poiché' non pensavo di poter vivere senza di lui lo feci soffrire ,credo per quasi un mese.
Quando ci vedevamo trotterellava quieto per il giardino e quando ci separavamo non sembrava volermene. Un giorno pero' mia madre mi disse "Oggi Buck o non mi ha riconosciuta o mi ha girato volutamente le spalle" Corsi dal veterinario e lo trovai furioso :mi disse che se volevo bene a Buck dovevo lasciarlo andare, ci avevamo provato tutti ma non c'era piu' nulla da fare. Ebbi una crisi isterica, chiesi di vederlo, ma il vecchio Antonini (il veterinario) mi disse: "Ricordalo come lo hai abbracciato due giorni fa ,stasera quando Sara' tutto fatto vedrai che sarai piu' tranquilla sapendo che lui riposa. Lo metterò' qui accanto ai cani che sono stati compagni della mia vita, sara' in buona e allegra compagnia."
Quante cose in piu' avrei fatto prima se solo avessi saputo che non lo avrei rivisto piu' Mentre lo ricordo e scrivo ancora mi scendono le lacrime senza freno, ma forse, avendo per la prima volta ordinato il tutto scrivendo, mi sembra d'essere piu' in pace con me stessa., perché' il tempo positivo che Buck mi ha regalato e che noi abbiamo condiviso con lui, e' infinitamente superiore al dolore che io scioccamente gli ho causato.
Buck riposa la' nell'allevamento alle porte di Milano, sotto degli alberelli, con tanti altri cani di altre razze con tante storie diverse, molti dei quali senz'altro con una vita meno lunga e felice della sua. Non sono piu' andata la', non voglio ricordarmi di lui quand'era la', ma di lui con noi, una parte sostanziale della mia vita e della mia formazione d'essere umano.La mia infanzia ,la mia giovinezza devono a lui gran parte della loro spensieratezza.

Otto anni dopo

Per anni ed anni ci dicemmo tutti che con i cani avevamo chiuso, che non potevamo accettare la crudeltà' della natura che ha stabilito per il miglior amico dell'uomo un'esistenza cosi' breve. Sentimmo tutti per anni quel vuoto: mia nonna se ne andò' 4 anni dopo Buck in circostanze del tutto analoghe. Anche lei lontano da casa, senza poter piu' camminare. Un giorno mentre ero davanti al suo letto, dalle suore a Belgioioso e le stavo raccontando di com'era bello quel castello la' davanti, un castello nel quale avrei voluto un giorno sposarmi per essere vicino a lei, mi rispose: "Stai tranquilla io ci saro', pero' adesso non ho piu' voglia".
Non capii subito pensai che fosse stanca e non avesse piu' voglia di parlare.
Invece il mattino dopo ,all'alba mi chiamarono i miei (ero andata a vivere da sola) e mi dissero che nonna si era addormentata, ma non si era svegliata piu'.
Per anni ho pensato che quei due, lei e Buck si fossero certamente ritrovati e certo li ho sentiti li' con me ,quando 5 anni fa mi sono sposata proprio nel castello di Belgioioso, come avevo detto alla nonna.
Quando un mese fa circa ho letto dell'esistenza del ponte dell'arcobaleno,ho potuto finalmente visualizzare la scena del loro incontro e, dopo tanto tempo, ho provato una serenità' completa rispetto ai rimorsi sulla loro fine ,lontani da casa, che comunque mi hanno accompagnata a lungo.
La nostra vita e' cambiata di nuovo nel 1994,in novembre, quando passando, io e mia madre, davanti al grande negozio di animali di una mia amica, abbiamo visto una testolina tonda e bianca stamparsi letteralmente contro il vetro. Non c'è' nulla da fare, il tuo cane ti chiama: e' come un figlio ,non può' arrivarti che lui. Questa volta il richiamo era per mia madre, proprio per quella signora in gioventù' cosi' severa sull'opportunità di avere un cane in appartamento. Sissi era di una razza a noi del tutto sconosciuta e che e' diventata poi la passione di famiglia: il Bolognese.
Sissi, amica inseparabile di mia madre e suo clone assoluto, quanto a modo di fare e carattere ,e' la capostipite di una famiglia che conta oggi altri 15 esemplari distribuiti per tutta Milano.
L'anno successivo abbiamo cercato non senza fatica Mario, che e' diventato il mio compagno fedele e il mio innamorato. E l'anno dopo Mario e Sissi (senza chiederci il permesso) hanno avuto 4 cuccioli stupendi . Bengy, acciambellato mentre scrivo sul mio grembo ,e' rimasto con noi a giocare col suo papa' ed e' senza dubbio il cane di mio marito e ora anche di mio figlio ,che cura come la piu' efficiente delle tate.
Teresa invece e' andata dai miei ed e' la cocca della famiglia, una bambolina di pelo candido in miniatura. Non si può' mai dire cosa può' accadere nella vita e ci sono situazioni che non si possono giudicare e che ognuno deve risolvere con la propria coscienza. Ma quando abbiamo avuto di nuovo un cane ho giurato a me stessa che cure o non cure, malato o no, non dovevo piu' mandarlo lontano da noi, fosse anche in un pensionato di prim'ordine, assistito da gente buona ma estranea e visitato anche quotidianamente da noi. Ora che guardo indietro, penso che Buck abbia capito il nostro sgomento di fronte alla sua malattia, che abbia capito che cercavamo di farlo curare e che forse lo abbiamo fatto soffrire per che' non avevamo la forza di separarci per sempre da lui, e per questo abbia tollerato paziente le nostre decisioni, cosi' come pazientemente si faceva tirare le orecchie da mio fratello quando era piccolo.
Ora so che il distacco non e' per sempre, man mano che invecchio ci credo sempre piu'.
Una notte, Buck era morto ormai da piu' di un anno, dormivo e mi svegliai di soprassalto. Il mio letto aveva le rotelle e sembrava traballare :pensai ad un terremoto, ma rimasi ferma. Poi un vento leggero comincio' ad agitarsi intorno a me. Mi ci volle un attimo per capire che non era vento, non c'erano finestre aperte, ma qualcosa che roteava attorno al letto velocissima, spostando l'aria. Quel qualcosa si rivelo' essere qualcuno ,quando si fermo' invisibile dietro la mia spalla. Invisibile ma ansimante: lo stesso rumore che faceva Buck dopo una lunga corsa. Forse dormivo, forse era un sogno, forse no. Ma da allora lo so che lui e' li', sempre a guardarmi le spalle e se io per un attimo l'ho senza volerlo abbandonato, lui non lo farà' mai.
Discreto, forte e coraggioso come il suo nome: Buck, il Buckaniere.
 
Barbara Ancillotti

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