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«Nel mezzo regnò l'orrore»

CAPITOLO UNO

Confusi Ricordi

1

Marils, Maine
Mercoledì 19 luglio 1995
.

Era stato assalito dai dubbi.
Svegliarsi di soprassalto con un panno imbevuto d’acqua sulla fronte e sua madre seduta ai piedi del suo letto non lo aveva aiutato a capire quale fosse il limite che separava la realtà dal sogno, dall’incubo. Gli faceva dannatamente male la testa e si accorse di avere la febbre.
Ma non era quello il problema: il vero nocciolo della questione era sapere cosa fosse accaduto e se fosse accaduto per davvero.
Sua madre lo guardò con aria smarrita, ma non aveva ancora parlato: brutto segno, pensò Mike.
«Che ore sono?», le chiese.
Sua madre lo stava guardando come si guarderebbe una persona appena risvegliatasi dal coma. Esitò per un momento, dopodiché soddisfò la curiosità di suo figlio. «Sono le undici e mezzo.» Non aggiunse altro e la cosa non piacque a Mike.
«Ma che cosa è successo?», domandò dopo qualche istante di silenzio, un silenzio che continuava a non piacergli.
«Ne parliamo dopo», rispose Sonia.
Perché tanti misteri?, si chiese il ragazzo. Perché non parlarne subito? Del resto, non era proprio lei a dirmi di affrontare i problemi prima possibile?
«Ho fame», sussurrò allora lui.
«Ti preparo un panino con burro d’arachidi», concluse la donna, alzandosi, e suo figlio non replicò: pane e burro andavano benissimo.
La guardò uscire dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle, dopodiché si alzò dal letto.
Le gambe gli dolevano e si sentiva alquanto arrugginito, ma quello era niente in confronto al dolore che gli pulsava nel braccio destro: non riuscì in alcun modo a spiegarsi di cosa potesse trattarsi, così si rimboccò la manica (del pigiama) e ciò che vide gli gelò il sangue nelle vene.
Restò immobile per qualche secondo, domandandosi se fosse vero ciò che stava guardando o se magari non fosse dovuto ad un’allucinazione alimentata dalla febbre. Numerosi ed inquietanti graffi sfregiavano buona parte del suo braccio.
Erano stati i passi della madre che lo indussero ad infilarsi nuovamente a letto, facendo finta di nulla.
Ma quando la porta della sua stanza si aprì, provocando una rumorosa protesta di cardini male oleati, fu con moderata sorpresa che accolse suo padre in camera.
«Ciao», lo salutò Anthony; i capelli brizzolati sembrarono, per un attimo, luccicare a contatto con la lama di luce solare, che filtrava dalla persiana aperta. Sorrise e Mike ricambiò. «Come va?»
«Non male», rispose con poca convinzione. Diamine, si era risvegliato da un terribile incubo, aveva trovato sua madre ai piedi del letto e per giunta si sentiva stanco e frastornato senza sapere perché.
Aveva davvero la febbre? Certo, sulla sua fronte c’era il panno imbevuto e si sentiva davvero febbricitante, ma che cos’erano quei segni che si ritrovava sul braccio? Aveva davvero soltanto la febbre o c’era dell’altro?
«Papà, che cosa mi è successo?», chiese senza giri di parole.
«Ieri sera ci hai spaventati», aveva cominciato suo padre. «È stato Frank a riaccompagnarti a casa. Ha detto che eri svenuto, che non ti sentivi molto bene. In effetti scottavi molto: hai la febbre, però adesso sei messo molto meglio rispetto a ieri.»
Svenuto?, pensò Mike. Ma se io a quest’ora sarei dovuto essere dal Creatore insieme a tutti i miei amici. A proposito, papi, sapresti dirmi che cosa significano queste cicatrici sul braccio? Me le sono fatte mentre svenivo?
Ma suo padre non poteva sapere niente di tutto quello che era successo quella sera: lui non c’era quando, insieme agli amici, era andato al cimitero ed erano accadute tutte quelle cose orribili.
Posto che fossero successe per davvero.

2

Marils, Maine
Giovedì 20 luglio 1995
.

Seduti all’interno della cupola della fontana di Fountain Square, Mike Thorsved, Frank Morton e Patrick Vellens, ragazzi quindicenni annoiati fino al midollo, guardavano con aria distratta verso Penton Park. Pioveva, pioveva incessantemente e quella pioggia fitta non offriva loro una visione sufficientemente nitida.
Le prime ore del pomeriggio erano trascorse velocemente, e mentre le gelide gocce di pioggia battevano violentemente sull’asfalto bagnato, tutta la piazza risuonava del loro ticchettio costante.
Le case del paese erano avvolte da una fitta e persistente nebbia, che con una mano invisibile sembrava aver manomesso il calendario, strappando senza preavviso le pagine dal mese di luglio fino a novembre.
Alle due del pomeriggio la piazza principale di Marils appariva semi-deserta, fatta eccezione per la presenza dei tre ragazzi. Sempre vigile ed attenta, su di essi campeggiava la mastodontica figura della White Fountain, la fontana al centro della piazza principale del paese.
Era costituita da un basamento in pietra bianca levigata, all’esterno del quale sporgevano tre bocchettoni metallici – uno centrale e due laterali – che lasciavano scorrere un’acqua limpida e fresca anche ad agosto; l’acqua defluiva senza sosta e scivolava allegramente giù nelle fogne mediante due grandi vasche, direttamente collegate ad altre tre vasche di pietra, che erano utilizzate a mo’ di lavanderia all’aperto.
Una sorta di cupola, che forniva riparo in caso di pioggia, e frescura in caso di sole, s’innalzava alla sinistra della fontana.
Sembrava una grotta dalle dimensioni notevolmente ridotte all’interno della quale, solitamente, si assiepavano i ragazzi del paese quando non c’era di meglio da fare.

3

In giorni normali, Fountain Square era il luogo più frequentato di Marils, ritrovo di tanti ragazzi dalle ore più tarde del pomeriggio.
Durante la mattinata, infatti, quando il sole irradiava calore estenuante con i suoi caldi e penetranti raggi, essa risultava semi-deserta: quando poi il campanile della chiesa segnalava mezzogiorno e mezzo, la grande piazza di Marils si svuotava del tutto, così come del resto accadeva per tutte le altre soleggiate stradine del paese.
Facevano eccezione la Nona Street e Vellon Street, dove c’erano i due bar: rispettivamente, il Deroux e l’altro, il “Bar di Jack”.
Proprio lì i ragazzi si davano appuntamento quando faceva troppo caldo per stare in piazza.
Durante i periodi di pioggia – quando arrivava il fresco – era invece frequente incontrarsi sotto la cupola della White Fountain, al riparo dall’acqua e dalle possenti folate di vento che investivano Marils durante i temporali estivi (già, perché quando a Marils decideva di piovere, lo faceva di brutto, senza mezze misure).
Quel quattordici di luglio, a dispetto di quanto affermavano le previsioni meteorologiche che prevedevano pioggia fino all’indomani, sarebbe stato ricordato come il venerdì più caldo della storia del paese.
Quella mattina, però, nessuno avrebbe sospettato che di lì a poche ore il banco di nubi che offuscava il cielo, rendendolo triste e malinconico, perché disegnava un’atmosfera d’irreale austerità, si sarebbe improvvisamente dissolto lasciando il posto ad uno sfolgorante cielo terso.
Se a Mike Thorsved, che era di Scranton ma che aveva eletto Marils come sua seconda casa, avessero detto che quella burbera giornata invernale si sarebbe presto trasformata in una giornata da mare, ne avrebbe riso di gusto, considerandola una simpatica battuta.
Frank Morton invece a Marils c’era nato e vissuto e sapeva che tutto ciò non sarebbe stato possibile: una cosa tanto improvvisa al suo paese non si era mai vista, perciò non ci avrebbe creduto e basta.
Patrick Vellens, nato e cresciuto nel Connecticut, a Montpelier, e costretto dai suoi a trascorrere ogni estate lì, avrebbe ribattuto, in un tono un po’ volgare, che chi aveva azzardato quell’ipotesi aveva fumato fino a sterminarsi i neuroni.
Dei tre, Patrick era quello al quale non piacevano i complimenti e non aveva il minimo pelo sulla lingua. Frank era un po’ meno brusco nei giudizi, soppesava bene le parole e prima di parlare si assicurava di aver acceso il cervello e che tutto al suo interno funzionasse alla perfezione. Mike faceva un po’ questo e un po’ quello: spesso si esprimeva in toni non propriamente ortodossi, salvo moderare i termini quando gli sembrava il caso.
«Che giornata da schifo», sentenziò Frank lanciando una rapida occhiata al burbero cielo grigio che mostrava inquietanti sfumature nere. I lineamenti decisi del suo volto ovale si contrassero rapidamente a causa di uno sbadiglio.
Mike si limitò ad annuire arricciando il naso, mentre Patrick sorrise mostrando inquietanti denti gialli.
«Che cazzo sorridi?», sbottò Mike. «Qua stiamo filosoficamente dibattendo sulla natura estrinseca di questo tempo che cambia costantemente e tu…»
«Scusa, puoi ripetere?», domandò l’altro interrompendolo e continuando a sorridere. Una risata genuina li coinvolse, mentre tutt’intorno l’ambiente non sembrava essere dello stesso divertito umore. Anzi, il cielo sembrò disapprovare quella risata con un improvviso tuono fragoroso che li fece sbalzare.
Frank imitò il tuono con un possente rutto.
Mike si girò verso di lui, e guardandolo con espressione seria in volto, sbottò: «Fai schifo!»
«Quante storie», ribatté l’amico. «Ho digerito male.»
«Mi sa che non hai proprio digerito», giudicò Patrick ed un’altra risata travolse tutti e tre e questa volta durò un bel po’.

4

Tre furono i rintocchi che la campana della chiesa aveva pigramente battuto per segnalare agli abitanti del paese l’ennesimo cambiamento dell’orario.
In quel momento, era arrivato in piazza anche Joseph Santos, altro membro di quella strana comitiva che fino a quel momento contava soltanto tre elementi, ma che di lì a poco si sarebbe allargata a macchia d’olio.
Il ragazzo si era avvicinato ai suoi tre amici sotto la cupola della fontana e li aveva salutati con un pigro «ciao a tutti».
I suoi occhi azzurri sembravano messi in risalto dal grigiore monotono del cielo e si poteva dire altrettanto per la sua carnagione chiara. Quel giorno Joseph portava un berretto nero in testa che gli nascondeva metà della fronte.
Quando Mike lo aveva guardato, aveva letto sul suo volto un’espressione leggermente rintontita, e sorridendo si era domandato se avesse l’interruttore del cervello posizionato su ON.
«Come mai a quest’ora?», gli chiese Frank. Joe rispose che era stato trattenuto a casa perché avevano avuto una zia a pranzo.
«Non potete immaginare che sensazione di liberazione ho provato non appena ho messo il piede fuori casa», li informò. Si era seduto alla sinistra di Frank ed aveva anche lui cominciato ad osservare il Penton Park e i suoi alberi; il verde delle loro foglie finiva inevitabilmente per fondersi con il grigiore stagnante del cielo.
«Ci hai fatto aspettare quasi un’ora», aveva sbottato Patrick senza però guardarlo in faccia. «Credevamo che non saresti tornato mai più e cominciavamo ad allarmarci seriamente. Personalmente ho temuto davvero che non avrei mai più rivisto la tua faccia di culo.»
Joseph sorrise per un attimo ma sembrò non voler raccogliere. «Siete qui dalle due?»
«Più o meno», fu la risposta di Frank. Non aveva aggiunto altro.
«Più», ribatté Patrick. «Erano le due e venti. Scusa se ti correggo, Frank.»
Mike si voltò verso Frank. «Non te la prendere. Devi capire che la vita è stata troppo dura con lui. Cerchiamo di fare finta di niente: anzi, sorridiamogli. Facciamogli capire che almeno noi non abbiamo intenzione di escluderlo dalla società, tentiamo di reintegrarlo. So che non sarà affatto semplice, ma proviamoci insieme.»
Le labbra sottili di Frank si allargarono di mezzo sorriso. Un sorriso col contagocce, lo avrebbe definito Mike.
«Ci metterò tutta la buona volontà di questo mondo, Mike», promise. Mentre parlava, aveva alzato e riabbassato il capo tre volte, come per enfatizzare quella frase.
Patrick e Joseph ne risero di gusto ed a loro si unirono anche gli altri due e quella risata risuonò nella piazza ancor di più della pioggia battente, che in quel momento era calata d’intensità.

5

«Ehi, ma che cos’è quest’esplosione d’allegria?», aveva domandato Anthony Webbs. Ridendo tutti insieme ed in quel modo un po’ da svitati, non si erano resi conto del progressivo avvicinamento del resto della combriccola. Una combriccola di matti. «Vi ha morso il virus della risata?», aveva proseguito corrugando la fronte ed il naso aquilino, seccato di non aver ricevuto risposta alla sua domanda.
«Ciao, ragazzi», salutò Mike spostando il suo sguardo in rassegna su ognuno di loro.
In testa al gruppetto c’era come sempre Anthony Webbs, animato da quel suo impellente desiderio di voler primeggiare. Un paio di occhiali da sole copriva i suoi occhi spiritati ed un quarto del suo volto abbronzato e regolare, mentre una grossa felpa blu gli avvolgeva il torace smilzo.
Dietro di lui, occhi leggermente velati sotto i quali pendevano enormi occhiaie, Willie Toby stava mostrando loro il suo miglior tentativo di sorriso, ma evidentemente la sbronza della sera precedente aveva lasciato tracce ben evidenti: era il suo sguardo intorpidito a dirla lunga.
«Che serata da sballo, ieri!», esclamò con la voce ancora impastata dal sonno, a tratti roca. «Ma oggi mi sento proprio uno schifo.»
Mike lo guardò ed annuì. «E hai proprio ragione. Si legge in faccia che ieri ci siete andati giù pesante.»
Fabian Merbury, il più grande e grosso del gruppo, annuì a sua volta. Aveva anche lui gli occhiali da sole, che sicuramente aveva indossato ancor prima di uscire, per evitare che sua madre gli vedesse gli occhi: si era così risparmiato una bella lavata di testa. Ma del gruppo era quello più malconcio: portava ancora addosso i postumi della sbornia di quella notte. Le dodici birre che aveva ingollato lo avevano spedito in quello che Anthony definiva “il paradiso dei ragazzi, il purgatorio degli adulti e l'inferno dei vecchi”, perché aveva alzato il gomito ben oltre il suo personale limite delle sette bottiglie.
Di fianco a lui, Luc Nelson era certamente in condizioni migliori dell’amico. Anche le sue dieci birre ingollate avevano comunque avuto ripercussioni sul suo volto emaciato, sebbene i suoi quindici anni reggessero abbastanza bene l’alcol.
«Dove siete stati?», domandò Frank rivolgendo il suo sguardo immerso in un misto di severità e divertimento ad Anthony, il primo della fila.
«Giù in Virgin Street, come al solito. Chi volete che ci becchi, laggiù? È un posto sicuro al cento per cento.»
«Già, ma non dimenticate che sulla strada di sopra c’è il pub», gli fece notare Mike. Non che gliene importasse un granché. La verità è che lo divertiva vedere se Anthony avesse in corpo abbastanza energie per ribattere. «E quando voi perdete la testa, fate un baccano infernale.»
«Stai tranquillo», lo rassicurò Anthony con fare sbrigativo. «Non verrà nessuno a farci visita.»
«Ragazzi, guardate là!» Era stata la voce di Willie Toby a richiamare l’attenzione di tutti. «Se i miei occhi non mi ingannano, quello lì è un cadavere! È un cadavere resuscitato e sta venendo verso di noi!» Il suo tentativo di sorriso era un po’ migliorato rispetto al precedente.
«Otto coglioni sotto la grotta!», strombazzò in lontananza Marc Merbury, fratello minore di Fabian. Sorrideva, ma neanche lui sembrava essere molto in forma. Era il più piccolo del gruppo e la sua somiglianza con suo fratello Fabian era tale da indurre Willie a definirlo “un Fabian Merbury in scala ma con lo stesso grado di deficienza”.
«Ma c’è anche un coglione che cammina», replicò Willie. «Marc, potresti portare via quel culo che hai per faccia? Oggi sono facilmente impressionabile.»
«Willie, ma non ti avevano imposto di circolare con un sacchetto sulla testa?», domandò di rimando il ragazzo mostrandogli un sorriso ebete.
«Che simpatico umorista», ribatté Willie serio in volto; il fragore di una risata improvvisa si propagò nell’aria rendendo meno cupa l’atmosfera con lo stesso vigore con cui una pennellata di un azzurro vivace rivitalizza una tela bianca.
Quando le risate cessarono, Anthony sbottò: «sono le tre e venti.» A sua detta, quella era un’imitazione perfetta della voce della signorina dell’oroscopo che, di tanto in tanto, ascoltava per radio la mattina.
L’ attenzione del gruppo ricadde su di lui.
Il ragazzo allora sorrise, lanciò uno sguardo rapido verso il cielo e tornò a fissare gli amici uno per uno. «Vi andrebbe un poker da Jack?»

6

«Già qui?», chiese loro Jack il barista.
Era un uomo sulla quarantina con qualche capello che già si avviava nella fase di urgenza di una tintura immediata, a cui piaceva particolarmente trovarsi in mezzo ai giovani.
Non che fosse realmente meravigliato di vederli già lì a quell’ora: più che altro, era una domanda di rito che rivolgeva loro quasi tutti i giorni
Come al solito, Anthony gli aveva ordinato delle birre: chi avesse perso a poker le avrebbe gentilmente offerte. Chiese anche una sigaretta, che Jack gli diede e gli accese.
Soltanto Mike, Willie, Frank ed Anthony si erano seduti al tavolino per giocare preparandosi ad un duro scontro.
La prima mano ebbe così inizio e poiché non c’era nessun altro cliente, anche Jack si sedette al tavolino. Tutti gli altri si erano disposti attorno ad un altro tavolo a veder giocare quei quattro scalmanati.
La prima mano cominciò con un tris per Mike, una coppia per Willie, un full per Frank ed una doppia coppia per Anthony.
Mike decise che fosse il caso di cambiare due carte, ma il tris non cambiò.
Willie ne sostituì tre ed azzeccò una doppia coppia di nove e di re.
Frank passò – con in mano un tris di otto ed una coppia di dieci – mentre invece Anthony ne cambiò una soltanto, centrando anche lui un full (tre regine e due nove).
La prima mano andò proprio a lui.
Frank sbatté la mano sul tavolo imprecando contro la sorte, che però gli regalò la seconda mano grazie ad una scala semplice.
Al termine di quindici passate, la partita si concluse un’ora dopo: e fu Anthony a strappare agli altri la vittoria finale con sette mani vinte, seguito da Willie al secondo posto che vinse quattro mani, tutte di seguito, Mike al terzo con tre punti e Frank in ultima posizione con un solo punto, cosa che lo costrinse a sborsare i sei dollari delle birre.
Anthony guardò l’orologio a muro appeso sulla parete di fronte al bancone di Jack: le lancette segnalavano le quattro e mezzo. «Ci venite tutti, stasera?», chiese.
Fabian sembrò sorpreso delle parole dell’amico; scambiò un breve cenno d’intesa con Luc. «Dove?»
«Al pub Larson. È il compleanno di Melanie, che ha deciso di organizzare lì la sua festa di compleanno. Ci saranno almeno un centinaio di ragazzi.»
«È vero», confermò Patrick. «Prima, mentre passavo per la piazza, ho notato un mucchio di macchine parcheggiate in Mannon Street. E fuori del pub c’era già un po’ di gente: si staranno preparando alla grande.»
«Perfetto», asserì Frank Morton. «Almeno sarà una serata ben movimentata.»
«Puoi dirlo forte», concordò Anthony Webbs mostrandogli il pollice alzato. «Stasera ci saranno ragazze su ragazze!»

7

Alle otto e un quarto Mike tornò a casa.
Aveva fame e l’unica cosa di cui sentiva realmente il bisogno era mangiare dopo una bella doccia tonificante.
La sua maglia blu era impregnata: gocce perlacee di sudore colavano lentamente dalla sua fronte.
Senza attendere l’ordine categorico di sua madre, si diresse in bagno e si spogliò. Poi scrollò la tendina della doccia, vi entrò, aprì i rubinetti e si lavò.
Il vapore dell’acqua calda provocò l’appannamento dei vetri della finestra che affacciava in Master Road, dello specchio sopra del lavandino e dei suoi occhiali. Finita la doccia, si asciugò, andò in camera sua con l’accappatoio azzurro addosso e si vestì in tutta fretta.
Consumò velocemente una cena a base di uova strapazzate e pancetta. Si versò anche una coca in lattina, di quelle che sua madre acquistava al supermercato.
Gli era rimasto un po’ di appetito, ma quello l’avrebbe saziato più tardi: aveva con sé dei soldi con i quali contava di comperarsi un gelato. Intanto, mentre l’orologio a muro segnava le nove meno cinque, si era deciso ad uscire.
Era diretto da Frank, con il quale aveva appuntamento alle nove sotto casa sua, quando alle sue spalle riconobbe la voce di Luc Nelson. Luc aveva l’aria stanca, certamente non l’aria di chi si sta recando ad una festa.
«Non vieni al pub, stasera?», volle sapere Mike.
«No», rispose.
Mike lo guardò meglio. C’era qualcosa nel suo aspetto che non andava, sembrava ridotto male. «Non è che per caso hai qualche pollastra tra le mani e non vuoi che si sappia? A me puoi dirlo», lo stuzzicò Mike.
«No», ribatté l’altro. «È che…», s’interruppe e parve riflettere.
«Cos’è successo?», chiese Mike.
«Lo terrai per te? Preferirei che non si sapesse in giro.»
«Ma certo, Luc», annuì Mike e gli sorrise. «Non preoccuparti.»
«Vedi, mia madre me ne ha combinata un’altra delle sue. Quando le ho detto che stasera c’era la festa, mi ha fatto la faccia dispiaciuta e ha fatto per dirmi qualcosa, così io le ho chiesto che cosa avesse intenzione di dirmi. “Luc, stasera viene zia Laureen”, mi fa. “L’abbiamo invitata qui a cena e preferiremmo che tu rimanessi qui.” Ovviamente io mi sono ribellato, ma contro di lei non c’è niente da fare, specie quando chiede aiuto a papà.»
«Peccato», riprese Mike dispiaciuto. «Ci sarà un sacco di gente.»
Luc sembrò voler dire ancora qualcosa; fece per aprir bocca, ma la richiuse subito. «Senti, ora vado perché ho fretta», concluse. «Devo scappare.»
«Ma dove vai?»
«Devo avvertire Fabian. Divertitevi anche per me.»
E ognuno riprese la propria strada.
Quella di Mike terminava in Master Road e sboccava in Fountain Square; di qui, proseguiva verso destra in direzione di Vellon Street, che poi era la parallela della stessa Master Road, dove abitava Mike: al numero ottanta, c’era casa Morton, ma di Frank neanche l’ombra.
Salì i gradini, suonò il campanello ed attese che qualcuno venisse ad aprirgli. Fu il padre di Frank a farlo, perché l’amico era ancora a tavola.
Mike lo attese in salotto e Frank lo raggiunse cinque minuti dopo.
Uscirono da casa Morton alle nove e un quarto.
Mentre s’incamminavano verso il pub Mannon Street, Mike accennò a Frank dell’incontro con Luc. «Abbiamo scambiato due parole e io gli ho chiesto se sarebbe venuto al pub. Sai che mi ha risposto? Che deve restare a casa perché hanno una zia a cena!» Le parole gli erano uscite di bocca di getto, e ad esse seguì una breve risata.
«E sai come si sentirà di fottere?»
«Era proprio nero, infatti», concordò Mike.
In piazza non c’era nessuno, a parte loro, e la cosa non era poi così strana.
È normale, sono tutti quanti al pub, rifletté Frank.

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