La stessa antica storia… un altro linguaggio

 

 

Citazione da:

Jeanette Winterson,  Simmetrie amorose (traduzione di Pia Pera), Piccola Biblioteca Oscar, Arnoldo Mondatori Editore S.p.A., Milano 1998.

 

 

<< Cominciò su una nave, come La tempesta, come Moby Dick, una zona delimitata di spazio flottante, un modello in minia­tura del mondo. Ecco un vaso ermetico, una capsula sigillata su un mare agitato. È questo il vasello alchemico, resistente a ogni cambiamento, in trasformazione continua. Noi siamo così, vulnerabili, isolati, interamente conclusi in noi stessi eppure in balìa degli elementi. Questa notte la Nave dei Folli spiega le vele e noi siamo tutti a bordo.

Questa è una storia vera. Se ti sembra strana, chiediti: «Cos'è che non è strano?». Se ti sembra inverosimile, chiedi­ti: «Che cos'è verosimile?».

Qualsiasi misurazione deve tener conto della posizione dell'osservatore. Non esiste la misurazione assoluta, c'è solo la misurazione relativa. Relativa a cosa è un aspetto impor­tante della domanda.

Questa è stata la mia difficoltà. La difficoltà della mia vita. Quei punti trigonometrici così ben costruiti, quei determi­nanti fisici (genitori, ambiente, scuola, famiglia, nascita, ma­trimonio, morte, amore, lavoro) sono anch'essi in movimen­to come me. Quanto dovrebbe essere stabile, si sposta. Quanto mi dicono solido, scivola. Il mondo forte e ordinario della fissità, del buon senso, è una leggenda. La terra non è piatta. La geometria cede all'algebra. I Greci avevano torto.

Quei Greci, che cominciarono anche loro su delle navi, so­no la radice della scienza occidentale, una scienza che ci ha messo 2500 anni per tornare al significato della sua premes­sa. Nel sesto secolo a.C. i Mileti della Ionia si erano preoccu­pati a fondo di quanto loro chiamavano physis, ovverosia la natura, la natura delle cose; lo spirito, l'uomo, il mondo os­servabile, i corpi celesti.

Arrivati al quinto secolo, Eraclito insegnava la sua dottri­na dell'Eterno Divenire, un flusso che non era fisso, un'iden­tità di mutamento perenne, un processo non una sostanza, un fluire che rendeva impossibile entrare due volte nello stesso fiume.

Il suo rivale, Parmenide, un uomo secondo cui nulla cam­biava, insegnava invece la supremazia della divinità e la cer­tezza della materia. O le cose esistevano o non esistevano. Il Divenire era sfidato dall'Essere.

Siccome l'Essere Inalterabile e il Divenire Perenne non si potevano riconciliare, i Greci escogitarono il compromesso ingegnoso di separare lo spirito dalla materia. Lungo la chia­ra linea di demarcazione stava scritto il nuovo punto di vista degli Atomisti, secondo cui la materia era composta da bloc­chi di costruzione; particelle passive intrinsecamente morte, che si muovevano nel vuoto. Il loro movimento era controlla­to dallo spirito individuale dell'uomo e dallo spirito sovra­stante di Dio.

Questo quadro cosmico, a noi tanto noto da diventare as­siomatico, è stato sistematizzato e raffinato da Aristotele. Materia e Mente, Materia e Forma, sono state interpretate in modo persuasivo e poi del tutto assimilate con lo sviluppo della Cristianità. Grazie al sistema dualistico del mondano e del miracoloso, che conveniva alla concezione del mondo di entrambi gli interessi in gioco, fino al Rinascimento la scien­za e la Chiesa furono legate a filo doppio.

Non bisogna sottovalutare la tenacia del modello. Nel Seicento Newton se ne è servito come base per la sua Meccani­ca, poggiando fermamente su Euclide il meccanismo del suo universo a orologeria. Toccò a Newton, con la scoperta dei concetti di spazio assoluto e di tempo assoluto, consolidare il pensiero greco. Newton, a detta del quale l'Universo era tridimensionale, solido, dotato di massa, duro, composto dal moto di punti materiali nello spazio, un moto provocato dal­la loro attrazione reciproca, ossia dalla forza di gravita.

La matematica che lui sviluppò per spiegare le sue teorie ebbe un successo così straordinario che a nessuno venne in mente di compiere ulteriori indagini circa la validità stessa del modello newtoniano. Le sue teorie continuarono a trion­fare indisturbate fino al 1905, quando Albert Einstein pub­blicò due studi; uno era Teoria Speciale della Relatività, l'altro prendeva in esame le preoccupanti implicazioni della radia­zione elettromagnetica. Furono questi gli inizi della fisica dei quanti e la fine della realtà cosmica meccanicistica, de­terministica, fondata sull'opposizione di mente e materia.

Perdonatemi la digressione. Non posso dirvi chi sono a meno di dirvi perché sono. Non posso aiutarvi a prendere una misura finché non sappiamo entrambi dove stiamo.

È questo il problema. Adesso che la fisica dimostra l'intel­ligenza dell'universo, cosa ce ne facciamo della stupidità del genere umano? Me compresa. So che la terra non è piatta, però i miei piedi lo sono. So che lo spazio è curvo, però il cordone sanitario dell'abitudine mi ha fatto crescere il cer­vello in linea retta. Quel che io chiamo luce è la mia miscela particolare di buio. Quel che io chiamo un panorama è il mio trompe-l’oeil dipinto a mano. Corro dietro alla conoscen­za come un furetto corre giù nella sua tana. I miei limiti io li chiamo i confini del conoscibile. Interpreto il mondo confondendo la psicologia altrui con la mia. Dico di avere una mente aperta ma solo quello che penso è.

Secondo l'evoluzionista Darwin, l'uomo si è messo in posi­zione eretta quando gli è caduta la coda. Che cosa ne è stato di quella coda? Ce l'ho qui, in mano, simile a un variopinto materiale di scena della commedia dell'arte. La mia bacchet­ta magica di buffone, la mia debolezza visibile, si è staccata da dietro solo per fare un giro di corsa sul davanti. Io sono civilizzata ma i miei bisogni non lo sono. Cos'è che sferza nel buio?

Cosa o chi? Non posso darmi un nome. Gli alchimisti la­voravano con uno specchio magico, ne usavano il riflesso co­me guida. Gli specchi che mi circondano sono orientati in modo da distorcere la mia immagine. Sono io quella nella vetrina? Sono io quella nella foto di famiglia? Sono io quella nella finestra dell'ufficio? Sono io quella nelle pagine argen­tate di una rivista? Sono io quella nei cocci di bottiglia sulla strada? Ovunque vada, un riflesso. Ovunque l'immagine in­trappolata di quello che sono. In tutto questo, io chi sono?

Ho cominciato ad avere i primi sospetti quando ero molto giovane. Non mi ritrovavo negli specchi che mi venivano of­ferti. Non riuscivo a definirmi in rapporto ai poli mutevoli della certezza in apparenza così affidabili. Qual era la vera natura del mondo? E lì dentro, qual era la mia vera natura?

Non riuscivo a immunizzarmi dalla guerra batteriologica di desiderio e oggetto. Sembrava non ci fosse ponte alcuno fra la mente e la materia, fra me e il mondo, nessun punto di riferimento che non fosse illusorio.

Cercavo di imitare i miei genitori, come fanno le scimmie, ma loro cercavano di imitare me, guardavano la loro creatu­ra per ritrovare l'energia e la speranza perdute da tempo.

Cercai di imitare gli altri bambini, ma non avevo la loro pelle dura. Ero un guanto rovesciato, mostravo il lato morbi­do. Ero il punto viscerale fra la bocca e l'intestino, la zona della digestione e della ruminazione. Senza dubbio è il mio umore bilioso che si rifiuta di individuare nella testa la sede della ragione. Senza dubbio è la mia acidità naturale che te­me la lattiginosità del cuore. Questa storia è un viaggio attraverso i visceri pensanti.

Cominciò su una nave.

(…) >>

 

 

 

 Morrigan

 

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