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Quando
ero piccolo piccolo avevo un triciclo rosso,
di metallo, lo chiamavo "mia bici"...
Pedalavo come un pazzo per tutto il giorno, poi alla sera lo parcheggiavo
proprio accanto al mio lettino dove mi addormentavo. Al mattino, appena
sveglio, la prima cosa che facevo era di urlare "MIA BICI! MIA
BICI!"
Ci zompavo sopra e ricominciavo a pedalare senza sosta.
La bicicletta ha accompagnato i primi anni della mia vita, man mano
che crescevo aumentavano le misure delle ruote, ventiquattro, ventisei,
fino alla mitica ventotto su cui stavo in sella sfiorando il terreno
solo con la punta dei piedi.
Intorno
ai quattordici anni l'ho brutalmente tradita, venduta al vicino di
casa per poter comprare, insieme ad altri sudati risparmi, un motorino
da cinquanta ciccì.
Però poi l'ho ritrovata anni più avanti, nel periodo
in cui ho incominciato a pensare ad un rapporto diverso con il mondo
e la natura, e il simbolo perfetto di un corretto rapporto con l'ambiente
non è proprio questa straordinaria invenzione? Mi piace andare
in bicicletta, mi piace vedere i ciclisti che si muovono rapidi e
silenziosi per la città.
Per dirla con le parole di Didier Tronchet:
"in un organismo urbano in cui sono solo un corpo estraneo, in
una città ostile, s'inventano un modo di essere che non e'
stato previsto per loro. Tratteggiano nello spazio la minuta di una
città in bicicletta: tracciano e cancellano. Le loro evoluzioni
sono rimorsi d'artista. Sono tutti presi nel loro atto creativo, nello
schizzo febbrile. Non giudicateli adesso, ma quando avranno terminato
la prima stesura. Nell'attesa, smettetela con questi colpi di clacson,
fate silenzio e trattenete il respiro come fareste davanti ad un bambino
che fa i primi passi in un equilibrio sempre sul punto di infrangersi.
Osservateli con indulgenza commossa. Cercano, barcollando, un nuovo
equilibrio che rimetterà in marcia la città". |
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C'era
una volta a Torino un magico luogo, scenario di scontri epici e di
mille battaglie, dove eroici cavalieri affrontavano coraggiosamente
draghi giganteschi. Bastava tirare le briglie del tuo destriero e
dirigerlo sulla pista ciclabile di via Bertola. Entravi nella pista
da porta Susa, incominciavi a scendere, passavi corso Palestro, fin
lì andava bene, anora più giù e arrivavi all'incrocio
maledetto, quello con corso Siccardi. Non c'era scampo, a meno che
non fosse ormai mezzanotte passata, l'autosauro era là che
ti aspettava, piazzato sulla pista ciclabile pronto a scattare con
il verde in direzione opposta alla tua. Sembrava l'inizio di un torneo
medievale con l'aggiunta di un semaforo stile partenza di formula
uno. A semaforo ancora rosso guardavi il tuo avversario e respiravi
a fondo, lui dava qualche sgasata dalla narici posteriori, semaforo
verde, via, ti alzavi sui pedali per prendere una bella spinta. A
lancia in resta partivi alla carica puntando contro il cofano, eri
sempre più vicino, a pochi metri ti fermavi ansante, lo guardavi
con occhi feroci e incrociavi le braccia come dire: "allora brutto
mostro te ne vai dalla mia pista?". Lui rimaneva stupito da cotanta
audacia, ma guardatelo! Un moscerino era lì davanti a lui e
gli bloccava la strada! Da qui in avanti, a seconda del carattere
dei contendenti, si poteva andare dal semplice battibecco alla guerra
termonucleare globale. Ora quei tempi oscuri sono finiti, quel magico
luogo in cui potersi spaccare una gamba, la testa o magari tutti i
denti non c'è più. Al suo posto c'è una bellissima
pista ciclabile che fa ti fa sperare in una città migliore,
gli autosauri sconfitti se ne stanno ingabbiati mogi mogi in fila
indiana e non possono più fare del male, i ciclisti che erano
scappati terrorizzati sono lentamente ritornati, pedalano felici e
in sicurezza. E i prodi cavalieri che hanno valorosamente combattuto?
Se ne sono andati, ora stanno lottando contro altri draghi per liberare
nuove strade della città. |
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Apro
la porta di casa, scendo le scale, arrivo nel cortile, tolgo il lucchetto
dalla bici, la spingo oltre il portone e mi affaccio sul corso trafficato.
Inizia a fare freschetto ma con la kefia intorno al collo e i guanti
di pile non ho problemi.
Cerco di attraversare la strada, le auto sfrecciano con impazienza,
gli automobilisti mi guardano rinchiusi dentro le loro scatolette,
sono già tutti presi dalla loro "car rage", quella
cosa che si impossessa di te tutte le volte che sali in auto, dopo
pochi metri inizi a bestemmiare e a prendertela con chiunque si frapponga
tra te e la tua destinazione finale.
Sono passato dall'altro lato, giro subito nella via laterale, i clacson
abbaiano furiosi in lontananza, ancora una svolta, un altro passaggio
difficile e sono sulla pista ciclabile che costeggia la Dora.
L'aria fredda sibila sulle mie orecchie, più in basso sento
il lento scorrere il fiume, un airone è appollaiato su un tronco
d'albero arenato sulla sponda, le anatre scandagliano il fondo in
cerca della colazione.
Pedalo piano con regolarità, devo regolare il mio riscaldamento
interno, se pedalo con troppa foga rischio di sudare.
Incrocio qualche ciclista, uno va senza mani così può
tenerle in tasca e riscaldarsele, un altro ha una sciarpa e cappello
di lana che lasciano intravedere solo gli occhi.
Qualche pedone porta a spasso il cane, con questi nuovi guinzagli
allungabili a dismisura bisogna stare attenti, il padrone di qua,
il cane di là e in mezzo una bella corda tirata.
Un pedone attraversa la strada e sale sulla pista ciclabile, oddio,
pista ciclabile, sembra un normale marciapiede, anche se ci sono i
cartelli con su la biciclettina bianca in campo blu, ma lui mica li
guarda i cartelli. Sono costretto a scampanellare, non è per
prepotenza sapete, il fatto è che anche il pedone ha ormai
acquisito una gestione dell'udito che regola anche la sua deambulazione.
Se non sente nessun rumore, tipo quello delle auto, vuol dire che
non c'è nessuno. Ma se arrivo io che tutto sommato di rumore
non ne faccio? Ok, scampanello, il tipo si volta un po' scocciato,
si sposta e lo so cosa sta pensando, si sta chiedendo cosa ci fa un
ciclista sul marciapiede.
Nel tratto di pista di fronte all'ospedale trovo molto spesso automobili
parcheggiate che invadono la pista, una volta ne ho trovate due affiancate
poste in senso longitudinale che bloccavano la pista come barriere
invalicabili. Lo so, uno magari ha una visita da fare o un parente
ricoverato, che fai se non trovi parcheggio? Va beh dai è solo
un marciapiede, un passeggiata sul lungofiume chi vuoi che passi a
quest'ora?
All'incrocio devo stare attento, l'attraversamento ciclabile è
poco rispettato, devo farmi vedere dagli automobilisti ma senza far
loro capire che li ho visti, così hanno il dubbio che non li
abbia visti veramente e nel dubbio sono costretti a rallentare e mi
fanno passare.
Io li sorveglio con la coda dell'occhio, anche stavolta li ho fregati.
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In
Olanda agli inizi degli anni '60 in pieno boom automobilistico,
proprio quando tutti, ma proprio tutti, sognavano la loro bella
quattroruote, si fanno notare degli strani personaggi che vanno
totalmente controcorrente.
Sono i Provos, un gruppo di anarchici dadaisti e zuzzurelloni,
a cui spetta la palma di avanguardia di quella contestazione giovanile
che verso la fine del decennio infiammerà l'intero occidente.
I Provos nutrivano un senso di frustrazione e di rigetto nei confronti
della società consumista e alienante, per usare le loro parole,
si sentivano in questo mondo "come ciclisti su un'autostrada".
Scelsero la bicicletta come santo strumento tribale, arma comunitaria
contro i comportamenti antisociali degli automobilisti che agivano
(e agiscono) indisturbati contro l'ambiente coperti dalla grande
industria e dalla polizia.
Gli automobilisti amorevolmente coccolati dagli spacciatori di petrolio
e dai cementificatori, erano (e sono) il "braccio armato"
di uno stile di vita che ormai andava inesorabilmente modellando
la geografia del pianeta.
Il piano era (ed è) distruggere il tessuto umano dei quartieri
storici creando un mondo in cui fosse impossibile andare a scuola,
al lavoro, a far la spesa, a curarsi e a divertirsi senza poggiare
il culo su un autoveicolo, senza pagare il balzello all'industria
e allo stato e senza devastare il territorio).
I Provos osano sbeffeggiare il simbolo della crescita economica,
il dogma della modernità, rivendicando il diritto di camminare
per la città senza venir minacciati fisicamente da bande
di psicopatici aggressivi rinchiusi dentro una scoreggiante scatola
di ferro.
I Provos soprattutto rivendicano il diritto e il piacere di non
seguire i modelli di consumo e di non consumare.
Dotati di una formidabile capacità di spiazzare le autorità
e di dar vita a fantasiose pratiche di disobbedienza civile, restano
vivi nella memoria dei più per il famoso "piano delle
biciclette bianche", la messa a disposizione della cittadinanza
di Amsterdam di un certo numero di biciclette collettivizzate. Biciclette
sempre aperte a disposizione di chiunque se ne volesse servire,
un mezzo di trasporto gratuito, una provocazione contro la proprietà
privata capitalista.
"La
bicicletta bianca è anarchica e simboleggia semplicità
e igiene di fronte alla cafonaggine e alla zozzeria dell'automobile.
Una bicicletta non è nulla ma è già qualcosa"
Un
atto ecologico (anche se allora la parola ecologia non era esisteva
ancora).
I Provos scelsero di dipingere le bici di bianco - dopo aver scartato
l'idea di farle rosse e nere, come la bandiera anarchica - per il
semplice fatto che le loro azioni avvenivano prevalentemente di
notte.
Un bel numero di cittadini, rispondendo ai loro appelli, si reca
nel luogo di raccolta, offre le proprie biciclette e le dipinge
di bianco, mettendole a disposizione del provotariato.
Il successo è immediato e l'operazione accende l'immaginazione
di altri gruppi consimili da Stoccolma a Berkeley, da Praga a Oxford
(motto dell'iniziativa "Il bianco annulla tutto, soprattutto
la proprietà).
Un famoso gruppo psichedelico inglese i Tomorrow lancia un brano
delizioso, My White Bicycle, che diffonde il messaggio libertario
persino nella hit parade. (Anche in Italia Caterina Caselli incide
un brano dedicato alla provocazione provo).
Ma il segnale più evidente del successo del piano biciclette
bianche è la risposta della polizia.
Le autorità reagiscono immediatamente e in modo ridicolo:
vengono sequestrate una cinquantina di bici in giro per la città.
La giustificazione è che non essendo chiuse col lucchetto
rappresentano un istigazione al furto.
In pratica è la polizia a rubarle, visto che non le restituirà
più ai legittimi proprietari, i cittadini di Amsterdam.
In una società in cui vige la proprietà privata, ciò
che è gratis è illegale e pericoloso.
I ladri di biciclette in divisa non fanno altro che promuovere il
piano provo, attirando attirando nelle loro file un numero crescente
di sostenitori e spingendo l'opinione pubblica a solidalizzare con
loro.
Testo
tratto da:
Biciclette bianche e altro, di Matteo Guarnaccia nel sito
di A
Rivista Anarchica
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747 |
In
mezzo a corso Giulio Cesare hanno costruito una pista di atterraggio.
Con un po' di fantasia puoi immaginare di vedere in lontananza un
747 che scende piano piano, le luci lampeggiano sulle ali, sempre
più basso, ecco, il carrello ha toccato terra, l'aereo rallenta,
si apre il portello, i passeggeri scendono e sciamano verso le loro
case.
E' così che si presenta la nuova sistemazione di corso Giulio
Cesare, un enorme spazio destinato ai tram per binari e pensiline,
un discreto spazio per pedoni, nessuno spazio per i ciclisti. Per
le auto c'è da fare un discorso diverso: da un lato è
stata applicata una regola che definirei da "struzzo con testa
nella sabbia", come dire: "le modifiche le ho fatte, se
poi non vengono rispettate io comunque ci ho provato".
Hanno ridotto i parcheggi, inoltre, molti settori della strada, essendo
stata ristretta la parte destinata alle auto non potrebbero più
essere utilizzati per i parcheggi (urge purtroppo il verbo al condizionale),
altri sono stati giustamente destinati a sosta handicap, carico/scarico,
cassonetti rifiuti, ecc. Detto questo, provate a vedere il risultato:
automobili impazzite in cerca di parcheggio si fermano ovunque, negando
loro l'ormai classico parcheggio in centro strada, la soluzione preferita
è la "doppia fila con luci di pericolo accese", seguita
dal parcheggio in zona vietata, sui marciapiedi, davanti ai portoni,
davanti ai cassonetti, ecc.
Risultato: la strada si riduce ad una sola stretta corsia di marcia
dove il ciclista tenta un pericoloso zig zag incalzato da auto veloci
e nervose. Nessun posteggio per biciclette. Nessuno spazio riservato
ai ciclisti, perché? Pechè nel futuro di Torino non
c'è posto per un mezzo ecologico fondamentale come la bicicletta?
Il ciclista, chi è costui? Un residuato in via di estinzione,
una presenza scomoda ormai fuori dal tempo? Un personaggio obsoleto
alla perenne ricerca di un palo, una grata, un cancello o qualsiasi
altra struttura a cui assicurare il proprio mezzo? O un eroe dei nostri
tempi che lotta ogni giorno per mostrare quale sarà la soluzione
per il nostro futuro, che non usa petrolio, non inquina e guarda il
mondo a trecentosessanta gradi e non dal triste oblò di un
finestrino? Avete visto la nuova pista ciclabile di via Bertola, altrimenti
detta "il paradiso del ciclista"? Per proteggerla e impedire
che auto allupate in cerca di parcheggio la invadessero hanno dovuto
circondarla da ringhiere, paletti, alti scalini. Insomma barriere
invalicabili a prova di SUV e Smart. La sensazione che si prova nel
percorrerla è unica, ricca di serenità, pace e fiducia
nel futuro, poi si arriva a Porta Susa e il sogno finisce
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