TORNA PENELOPE
E
NELLA
PAZIENZA
E
NEL
TEMPO IMMOBILE
CHE SI COSTRUISCE
IL
DESIDERIO.
E
SI IMMAGINA
IL
FUTURO.
PERCHE',
COME
RACCONTA CLARA SERENI*
NON
SI PU0'
VIVERE
SENZA
"QUALCOSA
DA
ASPETTARE"
Vorrei
che sulla mia tomba (il più tardi
possibile!) fosse scritto:
"Era
una
donna
paziente".
Come
nella tradizione delle matrone ebree.
Mi sento una buona somiglianza
con
Penelope, anche
se non
aspetto un Ulisse che venga
a
salvarmi.
Ho
esercitato
la
pazienza, cioè l'arte
dell'attesa,
per
una parte consistente della mia
vita. E
penso di
non
avere ancora finito.
La
pazienza ambiziosa
e desiderante di
costruirmi una trama di
vita, prima, e poi
quella
di
lasciarmela
buttare all'aria,
e
aspettare che una
vita
nuova prendesse
forma, con
i suoi tempi tutti
speciali:
la vita
di un figlio cresciuto
con
più lentezza
e
fatica
di altri. Un figlio rispetto
al
quale ogni
allenamento alla speranza
e
all'attesa si
è
rivelato
di straordinaria utilità. Sono nata poco dopo
la
guerra, quando
l'esistenza
era
difficile
per
tutti, quando i desideri anche piccoli venivano
esauditi
solo
sopportando
a lungo il
peso
dell'attesa. Nell'agire
politico
come
nella
vita
quotidiana si
rendeva indispensabile quella che qualcuno
ha
chiamato,
con
felice definizione, l’”organizzazione della speranza".
ERANO PIÙ LUNGHI
E
DILATATI
I
SOGNI DELLE COSE IMPORTANTI.
COME
IL DIVENTARE GRANDI, L'APPARTENERE
AL
MONDO DEGLI ADULTI
Nella mia infanzia i
desideri erano dilazionati, tutti. Una caramella, le scarpe nuove, un
giocattolo: nessun desiderio
o quasi era
destinato
a
una risposta
immediata.
E
più
lunghe
e
dilatate erano le attese delle cose importanti. C'era
l'attesa
dì
diventare
grande, di appartenere
al
mondo degli adulti da cui i
bambini,
all'epoca, erano esclusi
in
maniera rigida. C'era
l'attesa della scuola, mondo
di
relazioni assai
invitante
per la
bambina solitaria che ero io,
e poi
c'era l'attesa che
la
scuola finisse,
perché anche il
tempo
della vacanza (il
mare,
le giornate meno scandite dagli obblighi,
la
maggiore presenza dei
genitori)
era
separato da quello dell'attività
in
maniera
ben più definita di quanto
non
accada adesso:
non
c'erano le settimane bianche,
non
c'erano i week-end,
le vacanze di Pasqua erano
solo
una gran fatica di
compiti da
fare e
lezioni da imparare.
A scuola studiavamo i
tempi
verbali: presente, passato prossimo, passato
remoto, futuro, futuro anteriore. Forse i
bambini
delle elementari li studiano ancora,
ma
nel linguaggio quotidiano
sono rimasti il presente
e
il passato
prossimo,
tutti gli altri sono
stati risucchiati
in
un vortice di appiattimento.
Nel Salvaitaliano
di Della
Valle-Patrota
c'è un garbato invito
a
utilizzarli in maniera corretta, ma si sa che gli inviti
garbati, di questi tempi, non sortiscono grandi effetti.
Studiare i tempi
verbali aveva senso perché il tempo di tutti aveva
allora sue partizioni rigide, indiscutibili. In una città come Roma, ricca di
troppe chiese e campane, per non generare qualche confusione, quand'ero bambina. c'erano segni forti e
laici del trascorrere dei tempo: con il mezzodì scandito non solo dal cannone
del Gianicolo, ma anche dalla sirena di piazza
Bologna e da quelle di alcune fabbriche, un residuo degli allarmi bellici molto
utile in un'epoca in cui gli orologi costavano cari, e averne uno non era
ovvio. Per i bambini prima c'erano quelli finti, con le lancette ma privi di meccanismo, comunque portati con orgoglio da
chi ne possedeva uno, mentre gli altri si limitavano a disegnarselo sul
braccio con la matita copiativa. L'orologio vero era
il tipico regalo da prima comunione o da bar mitzvah,
segno di un passaggio d'età ancora fortemente ritualizzato perché netto,
definito. Oggi anche i bambini hanno uno
Swatch
e gli adulti più di uno. Sì moltiplica
l'offerta di copie di orologi di tradizione a prezzi
stracciati.
CI VUOLE MOLTA SAGGEZZA PER L'OT1UM.
La pazienza dei desiderio è stata sostituita dal "tutto e
subito", dall'intollerabilità dell'attesa,
dall'insofferenza per quello che consideriamo tempo vuoto, tempo sprecato.
Siamo tutti nella trappola dei tempo che è denaro, e
ci vuole molta saggezza anche solo per immaginare l'otium, il tempo davvero liberato in cui
si sedimentano le emozioni, il tempo in cui la mente gira a vuoto ma solo
apparentemente, il tempo in cui i desideri prendono la forma di progetto e i
progetti prendono corpo. E sullo sfondo di questo mondo senza attesa in cui siamo immersi c'è l'inammissibilità, l'impensabilità, l'intollerabilità
del solo pensiero della morte. Ci forziamo a nascere ogni giorno, quasi privi
come siamo ormai di memoria storica, e la fatica di essere
eternamente giovani cancella la possibilità dell'attesa, della pazienza, di un
progetto che contempli anche una fine, e non solo un fine.
LE CODE ALLA POSTA O AL SEMAFORO CI SEMBRANO
INTOLLERABILI. EPPURE E QUI CHE NASCONO LE IDEE
NUOVE. LA
MIA TESTA NON HA
Nella
società in cui viviamo la morte è costantemente rimossa, il morire avviene
fuori dagli sguardi dei non addetti ai lavori e, in
moltissimi casi, non c'è più cerimonia a segnarla e ad accompagnarla. Privato di ogni trascendenza, e non solo per i non credenti, il
tempo diventa così un inzeppamento di gesti minuti,
la freccia lanciata verso un obiettivo oscurato. L'attesa è attesa dei subito. Il desiderio non ha modo di costruirsi, di
diventare progetto. II "tempo morto" ai semafori quando si guida, in
fila alla posta, appesi al corrimano dell'autobus, è percepito come qualcosa di intollerabile: ma intollerabile, così, diventa il
pensiero, perché è proprio nei tempi cosiddetti morti che si fanno le
associazioni di idee, che la mente vagola in libertà, insomma che si formano
le idee nuove. lo li difendo, i miei tempi morti, impiegando le mani in attività spesso insulse perché neanch'io sono capace di stare ferma dei tutto, di limitarmi
a lasciare che la vita scorra. Ma faccio almeno un
tentativo, perché ho sperimentato cosa significhi azzerarli, i tempi morti.
C'è stato un periodo (ero vicesindaco di una città di media grandezza, avevo
l'autista, segretari, e tanta altra gente che si industriava
attorno a me perché "non perdessi tempo") in cui i tempi morti erano
scomparsi dalla mia vita.
Altri
aspettavano me, io non aspettavo praticamente mai:
senza far niente, almeno. Ero piena di attività, non
perdevo un minuto: il risultato è stato che la testa, il pensiero, l'immaginazione
non mi hanno mai funzionato così poco come in quella fase. Sono convinta che
anche questo inzeppamento
contribuisca a rendere il fare politica quella morta gora che è sotto gli
occhi di noi tutti: un eterno presente al quale la progettualità
di lungo respiro si trova inevitabilmente sacrificata.
La parola
morte ricorre, come si vede. Forse non ho quello che
si può definire un carattere allegro. Conosco peraltro molte persone più depresse
e meno vitali di me, ma è vero che per me vivere non è
mai, ogni mattina, una scelta scontata, un automatismo.
Devo convincermi, farmi forza, darmi una buona ragione per uscire dal letto,
lavarmi la faccia, affrontare il mondo. Da bambina la
sera, quando facevo fatica ad addormentarmi e il
buio mi spaventava, mi costruivo da un anno all'altro la festa per il giorno
del mio compleanno: dal menu ai regali, ai giochi da fare con gli invitati, i
continui aggiustamenti al programma costruivano nell'arco dell'intero
anno una manutenzione dell'attesa e del desiderio
utile per l'immediato del vivere, e che allenava ad altro, all'essere adulta.
Adulta del tutto non credo di essere neanche adesso, certo mi è diventato
assai più difficile immaginare desideri a lunga scadenza, sperare in un futuro
che non sia quello vicino vicino,
costruito dalle mie mani più che esposto a regali altrui. Eppure
è un esercizio al quale proprio non posso sottrarmi. Perché non ce la farei a vivere, se giorno dopo giorno non avessi o non mi inventassi - come nella
canzone di Fausto Amodei - "qualcosa da aspettare": che sia una
striscia di cielo azzurro, una musica nuova, o addirittura un amore.
Qualcosa su cui
continuare a costruire ed esercitare il desiderio, l'attesa, la pazienza.
(*) CLARA SERENI Nata a Roma nel 1946, per i suoi
libri ha spesso attinto alle memorie di una famiglia di primo piano nel
comunismo italiano e nel sionismo. Esordisce nel 1974 con Sigma Epsilon (Marsílio). Dopo alcuni anni
dedicati a tradurre Stendhal, Balzac
e Madame de Lafayette, scrive Casalinghitudine (Einaudi 1987), cui seguono
altre opere. Dal 1995 al 1997 è vicesindaco di Perugia,
dove tuttora vive. Dopo i primi due libri, pubblica Manicomio Primavera (Giunti, 1989), Il
gioco dei regni (Giunti, 1993), Eppure
(Feltrinelli, 1995), Conversazione con Clara Sereni: donne, scrittura e politica, testo
a cura di Paola Gaglianone (Omicron, 1996), Taccuino di un'ultimista (Feltrinelli,
1998), Da un grigio all'altro (Di
Renzo, 1998), Passami il sale (Rizzoli, 2002), Le merendanze (Rizzoli, 2004).
Presiede
10
SETTEMBRE 2005