Realismo-determinismo e visione moderna (probabilistica) in fisica*


Nel diciannovesimo secolo la scienza era dominata da una teoria fisica talmente generale da assurgere a concezione globale del mondo stesso e del suo funzionamento:

la meccanica classica. Fondata sui postulati di Isaac Newton (1642-1727), la meccanica classica ha eseguito una sintesi magistrale delle leggi di funzionamento dell’universo, ponendo in relazione il moto celeste della Luna e quello terrestre della caduta dei corpi tramite la legge di gravitazione universale*.[...]

[...] Fin dall’antichità più remota si distinguono le stelle fisse da quelle mobili. L’umanità ha avuto bisogno di alcuni millenni per identificare queste stelle mobili come dei pianeti, in movimento intorno al Sole come la Terra, e per trovare le leggi del loro movimento. Questo progresso è contrassegnato dai più grandi nomi della scienza moderna. Niccolò Copernico, che mette il Sole, e non la Terra, al centro del mondo. Keplero, il quale scopre che i pianeti descrivono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi, e che caratterizza completamente le loro velocità di percorso. Newton, che riconduce, tutte le leggi scoperte da Keplero a una sola, la legge di gravitazione universale: la materia attira la materia, in modo direttamente proporzionale alle masse e inversamente proporzionale al quadrato delle distanze. In altri termini, se un corpo è due volte più pesante esercita una forza di attrazione due volte maggiore, e se è due volte più lontano la forza diventa quattro volte più debole. Dalla forza d’attrazione che si esercita su un corpo, realtà fisica, si può dedurre l’accelerazione del suo moto, concetto matematico, e calcolare tutta la sua traiettoria a partire dalla posizione e velocità iniziali di quei corpo. Dunque, nella fisica newtoniana la conoscenza dello stato attuale del Sistema solare deve permetterci di prevedere la sua evoluzione futura. È l’introduzione nella scienza del concetto di «determinismo», che doveva far scorrere fiumi di inchiostro fmo ai giorni nostri.

Nei suoi Principia, scritti nel 1687, Newton mostra come dedurre dall’attrazione che il Sole esercita sui pianeti le tre leggi di Keplero, con ragionamenti puramente geometrici. Le orbite ellittiche, le velocità di percorso e gli anni planetari appaiono d’ora in poi come conseguenze comuni di questa legge semplice, che Newton non aveva enunciato per primo (il merito va sicuramente a Robert Hooke, che lo fece in una lettera a Newton del 6 gennaio 1680), ma della quale solo lui era stato capace di trarre le conseguenze matematiche.

Tutto lo sforzo dei suoi successori consisterà nel mostrare che questa unica legge è sufficiente per spiegare tutti i movimenti degli astri, e che la teoria di Newton permette di prevedere esattamente tutti i fenomeni celesti. Per far questo gli studiosi dispongono di un tesoro di osservazioni accumulato fin dall’antichità, e trasmesso religiosamente da ogni generazione di astronomi alla successiva.

Dai Caldei ai Greci, poi ai Romani e agli Arabi, la filiazione è continua, cosicché lo sguardo dell’astronomo moderno spazia su più di due millenni di conoscenze; si pensi per esempio che Tolomeo, nel suo Almagesto, scritto nel secondo secolo della nostra era, ci trasmette osservazioni fatte dai Caldei sei secoli prima. Siccome i movimenti celesti sono molto lenti nella scala della vita umana (Saturno impiega circa trent’ anni a girare intorno al Sole, e la cometa di Halley settantacinque), per individuarli bisogna possedere un’informazione collettiva che possa risalire abbastanza lontano nel tempo.

Ci si accorge molto in fretta che le leggi di Keplero non sono rigorosamente esatte, e che le loro previsioni sono in disaccordo con le osservazioni più antiche. Allora si fa l’ipotesi che la legge di Newton* sia esatta, e che la causa delle differenze osservate sia dovuta al fatto che si è tenuto conto solo dell’attrazione solare, trascurando l’attrazione che i pianeti esercitano gli uni sugli altri. In fin dei conti, la massa di Giove è 1/1000 di quella del Sole, e poiché è cinque volte più lontano da noi, esercita sulla Terra una forza di attrazione che è1/25000 di quella del Sole. Scarti di questa entità sono molto sensibili, soprattutto se si accumulano per parecchi secoli, quindi la questione è di sapere se tutte le differenze osservate siano spiegabili in questa maniera.

L’ipotesi doveva essere confermata brillantemente nei due secoli successivi, in cui la storia dell’astronomia è stata quella di una marcia trionfale. Lalande e Clairaut calcolano che le perturbazioni dovute a Giove e a Saturno ritarderanno di un anno e otto mesi il ritorno della cometa di Halley, e ne annunciano il ritorno per la metà di aprile del 1759, con l’approssimazione di un mese; la cometa appare come previsto, e passa nel punto indicato il 12 marzo.

John Couch Adams nel 1845 e Urbain Le Verrier nel 1846 spiegano le differenze constatate nel cammino di Urano, dopo la sua scoperta avvenuta nel 1781, con la presenza di un pianeta sconosciuto, e calcolano gli elementi della sua traiettoria. Il 18 settembre 1846 Le Verrier scrive a un astronomo berlinese, Johann Galle, comunicandogli le coordinate del pianeta. Appena ricevuta la lettera Galle punta il suo telescopio verso la costellazione dell’Acquario, nel settore indicato, e il giorno 25 aprile risponde a Le Verrier: «Signore, il pianeta di cui Lei mi ha indicato la posizione esiste veramente». Tutti questi successi hanno avuto una risonanza immensa nella loro epoca. [...]

[...]Sobri, rigorosi, interamente geometrici, i Philosophiae naturalis principia matematica, pubblicati nel 1687, permettono di comprendere i movimenti dei pianeti, delle maree o dei proiettili.

Ogni oggetto in moto è definito come un punto materiale situato nello spazio assoluto* (ovvero uno spazio le cui proprietà sono definite indipendentemente dalla materia) e in un tempo assoluto* (un tempo che scorre in maniera indefinita, e allo stesso ritmo, indipendentemente dagli oggetti’ in esso contenuti). Lo spazio è uno spazio euclideo (a tre dimensioni), uniforme e infinito; il tempo scorre linearmente, all’infinito.

La materia, secondo la teoria dell’epoca, è composta di molecole. La sua composizione è irrilevante ai fini dello studio del movimento dei corpi, poiché questi possono sempre essere rappresentati da punti geometrici aventi come unici attributi la massa*, la traìettoria e le forze esercitate su di essi. La quantità di materia contenuta nell’universo può essere infinita ed è regolata da forze — di attrazione e di repulsione — delle quali la più importante è la gravitazione universale (che, sulla Terra, si manifesta sotto forma di forza peso*). La legge di gravitazione descrive la proprietà dei corpi di attirarsi reciprocamente secondo forze proporzionali alla loro massa e inversamente proporzionali al quadrato della loro distanza. Un’altra proprietà fondamentale dei corpi è l’inerzia*, che Newton definì come la capacità di un corpo di muoversi in linea retta finché nessuna forza intervenga a modificame la velocità o la direzione. L’inerzia è dunque la proprietà che hanno le masse di contrapporre una resistenza a qualunque cambiamento di velocità o direzione.

Questo sistema, che nel seguito chiameremo meccanicistico, diventò rapidamente un paradigma* dominante al quale tutte le altre scienze (comprese quelle umanistiche) dovevano essere ricondotte, e conobbe un successo grandissimo fino alla fine del XIX secolo. Il suo potere di convincimento fu tale che i suoi avversari — numerosi e non meno famosi, in particolare Leibniz (1646-17 16) —furono velocemente dimenticati.

Nel 1796 nell’Esposizione del sistema del mondo Laplace estese la teoria della meccanica classica all’insieme dei fenomeni della fisica, rendendola un sistema cognitivo universale. Secondo Laplace, qualora un essere immaginario, un "demone", fosse in grado di conoscere tutte le posizioni e tutti i movimenti dei corpi dell’universo in un dato istante, sarebbe capace di dedurne tutte le trasformazioni passate e future che il mondo ha subito o dovrà subire. Per raggiungere questo scopo il demone dovrà solamente applicare in modo scrupoloso le leggi della fisica classica all’insieme dei dati a sua disposizione.

L’ottimismo di tale concezione del mondo fu in piccola parte alterato da due nuove discipline, sviluppate nel corso del XIX secolo e fino ad allora non riconducibili ai principi della meccanica classica: la termodinamica* — scienza della correlazione tra calore e movimento, che descrive fenomeni irreversibili, sfidando così la simmetria fondamentale sulla quale si basa la meccanica classica — e l’elettromagnetismo*, scienza dei fenomeni elettrici, magnetici e luminosi, dove i movimenti ondulatori non sembrano poter essere ricondotti alla descrizione delle forze considerate nella meccanica newtoniana. La grande maggioranza degli scienziati era però convinta che, in un periodo più o meno breve, i fenomeni esaminati da queste due scienze dovessero poter essere spiegati dalla meccanica classica, mediante i movimenti delle particelle soggiacenti, che si sarebbero rivelati così semplici e prevedibii quanto quelli dei corpi celesti o delle palle del biliardo.

Numerosi fisici annunciarono allora che erano state comprese tutte le leggi della fisica! [...]

La sorte si accani contro questo realismo assoluto (realismo è al’atteggiamento filosofico di colui che crede nell’esistenza di una realtà esteriore alla sua percezione)

[...]Negli anni venti, in Europa, si stava sviluppando una teoria relativa alle particelle elementari: la meccanica quantistica.[...]

L’atomo*, da poco entrato nel novero degli oggetti indagati dalla fisica, fu subito "spezzato": era composto per la maggior parte di... vuoto. L’atomo secondo Rutherford assomigliava a un piccolo sistema solare con un nucleo di materia densa e un gran numero di elettroni che gravitano attorno a esso. Il nucleo stesso era composto da particelle, i protoni, elettricamente carichi, e i neutroni, che non sono portatori di carica elettrica.

Le particelle in questione si comportano come la luce: a seconda dell’esperimento ideato per osservarle (o, più precisamente, dell’esperimento ideato per osservare i loro effetti) si possono comportare come onde e manifestare fenomeni di interferenza oppure reagire esattamente come ci si aspetterebbe dalle particelle, cioè degli oggetti, dei piccoli proiettili!

Il problema era posto dal fatto che i proiettili in questione, contrariamente alle bocce del biliardo alle quali vengono paragonati troppo spesso, non sono localizzabili spazialmente nello stesso modo. La localizzazione (ossia l’osservazione della traiettoria e della posizione) di una particella comporta un’azione di disturbo del suo stato. Contrariamente alle bocce del biliardo, è impossibile misurare contemporaneamente e con infinita precisione la posizione e la velocità di una particella. Werner Heisenberg introdusse nella meccanica quantistica le relazioni di indeterminazione*, che tengono conto di questa impossibilità.

La "trasformazione" delle particelle in onde, e delle onde in particelle, lasciò completamente attoniti gli scienziati che l’hanno osservata. Numerose ipotesi furono avanzate per spiegare questa strana dualità che, di giorno in giorno, è andata affermandosi come proprietà inevitabile della materia. Niels Bohr la definì con il nome di principio di complementarità*, che significa semplicemente che la materia esibisce sia una natura corpuscolare, sia una natura ondulatoria; il tipo di esperimento determina la caratteristica osservata, ondulatoria o corpuscolare. In questo modo l’intera questione dell’oggettività della conoscenza scientifica fu messa in gioco.

Nella loro gioventù Bohr e Heisenberg avevano letto e accettato la critica di Newton e della meccanica classica sostenute da Mach.[...]

[...]Mach è convinto che [...] l’idea stessa di realtà esteriore non abbia alcun senso.

La filosofia di Mach è direttamente influenzata da quella di Hume: tutta la nostra conoscenza proviene, all’inizio, dalla percezione dei fenomeni che riteniamo esterni ai nostri sensi. L’insieme dei concetti che noi costruiamo e che non possiedono un loro equivalente diretto nel mondo osservabile (concetti come la massa, l’energia, il campo magnetico, la forza eccetera) sono nozioni metafisiche che gli scienziati devono imparare a manipolare con estrema prudenza.

Questi concetti sono utili per costruire un ragionamento o per formulare ipotesi. Tuttavia, il pericolo risiede nel loro uso: si finisce spesso per considerarli come fatti certi e si attribuisce loro, a torto, una valenza d’essere, di realtà. In questo modo, ogni disciplina scientifica corre il pericolo di accumulare dentro di sé, nel corso dei secoli, alcuni concetti completamente ipotetici, ma che vengono considerati come sperimentalmente validi e scientificamente provati.

Per Mach esiste una teoria scientifica letteralmente infestata da parassiti metafisici di questo tipo; si tratta della meccanica classica: nessuna delle entità coinvolte, come lo spazio e il tempo assoluti, la massa inerziale (che si sposta in linea retta a velocità uniforme all’infinito) o la forza di attrazione è mai stata osservata. L’insieme degli studiosi di meccanica fa uso di queste nozioni per costruire uno schema del mondo che essi considerano come scientifico, quando invece si fonda in maniera assiomatica su delle entità ipotetiche. Mach non voleva assolutamente sostituire la meccanica con un’altra teoria. Per lui tutte le teorie erano costruzioni dello spirito umano. Egli ne considerava il valore e cercava di sostituirne una con l’altra solamente in funzione di un principio di economia: una teoria può e deve essere sostituita con un altra se quest’ultima presenta una visione più semplice o più efficacie (cioè descrive un più elevato numero di fenomeni).

[...]Bohr e Heisenberg ritenevano che si dovesse fondare una teoria unicamente su fatti osservabili e non su ipotesi a priori relative alla natura della materia. Applicando alla lettera l’insegnamento del positivismo machiano essi si accontentarono di formulare le leggi matematiche che rendessero conto delle conclusioni alle quali portavano gli esperimenti, senza cercare di definire, per estrapolazione, una realtà assoluta.

I padri della relazione di indeterminazione e del principio di complementarità sostenevano non solamente che l’osservazione e la sperimentazione contengono un limite (che avrebbe potuto essere provvisorio) ma, in più, essi concludevano che, nella conoscenza dell’infinitamente piccolo, questo limite costituisce lo stadio ultimo di qualunque forma di conoscenza.

In altre parole, Heisenberg e Bohr conferivano alla relazione di indeterminazione e al principio di complementarità un valore metodologico assoluto: per loro la descrizione dei fenomeni quantistici incontrava qui un limite definitivo e irrevocabile. E poiché lo scienziato non può superare questo limite, imposto dalla natura, la questione della conoscenza del reale, nascosta dietro la relazione di indeterminazione, non aveva alcun significato.

Einstein dal canto suo si mantenne invece sempre su posizioni deterministiche. Egli credeva fermamente nella capacità che ha l’essere umano di percepire e comprendere i principi più fondamentali che reggono il mondo- Lo sviluppo di una teoria matematica, semplice ed efficacie che avrebbe potuto rendere conto dell’insieme degli eventi dell’universo gli sembrava raggiungibile negli anni a venire.

Einstein non accettava le conclusioni di questa nuova teoria. Non solamente questa distruggeva i fondamenti deterministici sui quali desiderava costruire la conoscenza del mondo, ma introduceva in questa conoscenza un principio tale da demolire qualsiasi possibilità di conoscenza della realtà.

Heisenberg racconta in dettaglio, e non senza humour, le reazioni di Einstein nel 1926, durante il congresso Solvay, nel quale furono esposte le relazioni di indeterminazione. Il suo testo è lungo ma gustoso:

Noi abitiamo tutti nello stesso albergo, e le più vivaci discussioni sono state condotte non nella sala delle conferenze, ma durante le cene al ristorante. I principali protagonisti di queste controversie intorno alla nuova interpretazione della teoria quantistica furono Bohr e Einstein. Einstein non era pronto ad accettare il carattere essenzialmente statistico della nuova teoria quantistica. Beninteso, egli non obiettava contro il fatto di fare delle previsioni probabilistiche laddove non si conoscano peifettamente tutti i parametri di un sistema dato. Dopo tutto, la meccanica statistica precedente e la termodinamica si fondavano proprio su queste predizioni. Ciò che Einstein non intendeva ammettere era che fosse fondamentalmente impossibile conoscere tutti i parametri necessari a una completa determinazione dei processi. «Dio non gioca ai dadi», diceva spesso in queste discussioni. Einstein non poteva dunque rassegnarsi ad accettare le relazioni di indeterminazione, e si sforzava di immaginare una serie di esperimenti nei quali queste relazioni non potessero essere applicate. I nostri dibattiti cominciavano in generale già la mattina presto: Einstein ci esponeva durante la colazione un nuovo esperimento ideale, capace, a suo parere, di contraddire le relazioni di indeterminazione. Cominciavamo immediatamente ad analizzare questo esperimento e durante il tragitto verso la sala delle conferenze, dove io accompagnavo generalmente Bohr e Einstein, veniva definito un primo chiarimento in relazione al problema posto e all’affermazione fatta. Nel corso della giornata, facevamo numerose discussioni sul problema, e in generale arrivavamo alla sera al punto in cui Bohr poteva provare ad Einstein, nel corso della cena, che l’esperimento proposto non poteva servire a contraddire le relazioni di indeterminazione. Einstein diventava inquieto e la mattina successiva a colazione ci proponeva un altro esperimento ideale, più complicato del precedente e, a suo avviso, suscettibile di smentire definitivamente le relazioni di indeterminazione. Immancabilmente il tentativo falliva la sera stessa, come la precedente, e, dopo alcuni giorni, Einstein si sentì dire dal suo amico Paul Ehrenfest, un fisico di Leida: «Einstein, mi vergogno per te, perché ora discuti nello stesso modo dei tuoi avversari contro la teoria della relatività». Ma anche questo avvertimento amichevole non aveva modificato l’atteggiamento di Einstein... «Dio non gioca ai dadi», era questo per Einstein un principio immutabile e ineluttabile. Bohr non poteva che rispondere: «ma non spetta a noi suggerire a Dio come governare il mondo».

Realismo e determinismo* sono sempre stati per Einstein i principali componenti della sua visione del mondo. La cosa più divertente, in questa storia, è che Heisenberg, qualche anno più tardi, finì per aderire alle tesi di Einstein!

1l dibattito tra Bohr e Einstein è esemplificativo dell’atteggiamento generale degli scienziati in questa prima metà del XX secolo. Questi, spesso dotati di una grande cultura filosofica, non discutevano solamente del funzionamento del mondo (come descrivere le sue principali caratteristiche) ma anche della sua essenza (di quale genere di realtà si tratta?). Una discussione come quella citata tra Bohr e Einstein si colloca nel cuore del dibattito filosofico e metodologico. La fisica, scossa da tutti i rivolgimenti profondi che l’inizio del secolo aveva apportato nella concezione delle leggi della natura, si sentiva nell’obbligo di condurre questo dibattito, al fine di collocarsi meglio in rapporto a una realtà sperimentale e osservazionale più complessa e più fugace rispetto a quanto si poteva immaginare qualche decennio prima.


*I precedenti brani sono stati tratti da: