| biblioteca |

biblioteca

 

 

Sotto il culo della rana

in fondo a una miniera di carbone

di Tibor Fischer

 

 

a cura di Umbertino nda Padura

C'č, probabilmente, quasi tutto quanto in Sotto il culo della rana in fondo a una miniera di carbone: un universo tragico e grottesco, un baillamme rabeleisiano di personaggi improbabili che attraversano eventi piů che probabili in un decennio allucinante e in un posto altrettanto allucinante. Luogo e tempo d'azione sono, infatti, l'Ungheria dal 1944 al '56. Il protagonista principale č Gyuri, un giovane ungherese che viene descritto tra gli anni della prima adolescenza fino all'etŕ adulta passati tra la seconda guerra mondiale, l'oppressione nazista e successivamente quella stalinista. Il romanzo mantiene sempre il punto di vista della gente comune dell'esistenza che nonostante i nostri sforzi ci scorre addosso; anche durante l'insurrezione di Budapest del '56 di cui Gyuri č protagonista lo scrittore ci rende gli aspetti piů quotidiani e semplici. Salman Rushdie lo ha definito "un piccolo capolavoro tragicomico". 

Il romanzo č edito da Mondadori nella collana Piccola Biblioteca.

anno: 1992 

titolo originale: Under the Frog

edizione italiana: Piccola Biblioteca Mondadori

prezzo: 6,20 euro

 


Per darvi ancora un'idea delle capacitŕ di Fischer vi riporto le prime pagine di Sotto il culo della rana:

 


Novembre 1955


    Era innegabile: a venticinque anni non era mai uscito dal paese e non era mai arrivato a piů di tre giorni a piedi, un giorno e mezzo su carro a cavalli o un pomeriggio abbondante di treno dal posto in cui era nato. D'altra parte, rifletteva Gyuri, quanti potevano dire di aver viaggiato nudi in lungo e in largo per l'Ungheria? 
    Viaggiavano sempre nudi. Non ricordava come e perché avessero iniziato, ma era diventata una regola inviolabile per la squadra del Locomotive durante le trasferte. Viaggiavano sempre nel loro vagone di lusso (costruito appositamente dalle ferrovie ungheresi per facilitare le Waffen-SS nelle loro razzie di opere d'arte in tutta Europa e noto agli esperti di cose ferroviarie come una vettura senza rivali su rotaie) e viaggiavano sempre nudi. 
Róka, Gyurkovics, Demeter, Bánhegyi e Pataki giocavano a carte sul tavolo da pranzo di mogano, un ex pezzo di antiquariato (almeno secondo Bánhegyi, che aveva lavorato nella ditta di traslochi del padre), deprezzato da anni di sgocciolamenti, graffi involontari e non, bruciature di sigaretta. Non essendo un oggetto facile da intascare approfittando di un momento di confusione, il tavolo era stato orgogliosamente conservato dalla squadra del Locomotive nonostante fosse un simbolo di lusso collettivo (anche se in stato di progressivo deterioramento). 
    Chi era la spia? Chi faceva l'informatore?
    Róka cambiava continuamente posizione, come a disagio, un po' perché gli stavano spillando soldi come lattice da un albero della gomma e un po' perché aveva il sistema cardiocircolatorio in subbuglio. La pallacanestro, per Róka, era essenzialmente un modo per disseminare cromosomi in giro per il paese. La pallacanestro, come qualsiasi attivitŕ che lo portasse fuori dalle mura domestiche, fungeva da ponte fra sé e i membri dell'altro sesso. Superate le ventiquattr'ore di astinenza sessuale Róka diventava estremamente agitato e si lanciava, per esempio, in frenetiche corse sul posto, accompagnate da ululati. Persino in un ambiente come il vagone del Locomotive, dove la conversazione verteva essenzialmente sulle donne, la dedizione di Róka per le circonvoluzioni gamiche era notevole. 
    Ma Róka era troppo una brava persona per fare una cosa simile.
    In sostanza, Róka era buono e a Gyuri, come a tutti, era simpatico. Per questo faticava a immaginare che fosse lui la spia, il delatore della squadra. A dir la veritŕ era difficile pensarlo di chiunque, tranne forse di Péter. Ma essendo Péter l'unico ad avere la tessera, era troppo ovvio. Quanto a Pataki, lo conosceva dall'etŕ in cui si incomincia a conoscere. Gyuri non riusciva a immaginare nessuno della squadra fare la spia. Demeter era troppo signore, Bánhegyi troppo allegro, Gyurkovics troppo disorganizzato e gli altri, presi uno per uno, non erano proprio il tipo della spia. Perň, capovolgendo i termini della questione, pensň che proprio il fatto di essere una brava persona potesse aver fregato Róka. Se tu non fai questo, noi facciamo quest'altro a tua madrepadresorellafratello. 
    Come al solito, quando non era intento a darci dentro, Róka si consolava parlandone: "Cosě le ho spiegato che per me andava bene". Tipico di Róka. Non era per niente snob, anzi, era generoso, egualitario, e arricciava il naso di fronte a concetti meschini e borghesi come bellezza, desiderabilitŕ, giovinezza. Stava raccontando l'incontro con una sua recente conquista, una donna il cui fascino, ci teneva a precisare, non erano affatto sminuito da una protesi al braccio. Il succo della storia era che a un certo punto la protesi si era staccata e Róka si era trovato una prolunga piuttosto ingombrante intorno all'arnese. Pareva che la signora fosse rimasta molto turbata, nonostante Róka le avesse ripetutamente assicurato che sono cose che possono succedere a chi ha una mano artificiale. 
    Gyuri perň ebbe l'impressione che il racconto non fosse terminato quando la narrazione venne decapitata da Róka furibondo perché aveva perso di nuovo e Pataki si era aggiudicato un altro ricco piatto. Gyuri non giocava a carte perché si annoiava e anche perché Pataki vinceva sempre. Giocavano pochi soldi, ma siccome ne aveva pochi, non vedeva perché darli a Pataki. Era inspiegabile, ma inevitabile ed evidente: come le gocce di pioggia su un vetro scivolano verso il basso, cosě i soldi gravitavano verso Pataki. Ogni tanto perdeva anche lui, ma nella migliore delle ipotesi per educazione, e comunque con l'aria di chi ti vuole attirare in una trappola. 
    Stufo di cercare di risolvere il problema dell'informatore, Gyuri si mise a pensare a come sarebbe stato fare il netturbino. Intanto guardava dal vetro la campagna che scorreva con bella lentezza, nonostante il treno si spacciasse per un espresso. Quello del netturbino era una specie di chewing gum mentale per lunghi viaggi. Netturbino. Dove? Londra, New York, Cleveland, Gyuri non era schizzinoso. Un modesto netturbino, in un posto qualsiasi. Un posto qualsiasi in Occidente. Un posto qualsiasi, ma lŕ fuori. Qualsiasi lavoro, anche umile: lavavetri, spazzino, manovale. Gli sarebbe bastato quello, fare il proprio lavoro senza bisogno di esami sul marxismo-leninismo, senza bisogno di fotografie di Rákosi o dell'ultimo supermanigoldo salito al potere. Niente martellamenti con le cifre della produzione che salivano e salivano sempre di piů, piů ancora di quanto previsto dal Piano perché la capacitŕ di produzione socialista era stata sottovalutata. Gyuri aveva l'impressione che fare il netturbino dovesse essere abbastanza piacevole. Era un lavoro all'aria aperta, sano, si vedevano tante cose. Era l'umiltŕ di quella fantasia, la sua frugalitŕ, a dargli il piacere piů grande, perché sperava che fosse piů facile realizzarla. In fondo non stava assillando la Provvidenza per diventare milionario o presidente degli Stati Uniti. Chi poteva rifiutargli un posto da netturbino? Mi basta uscire di qui. Tiratemi fuori. A parte l'imperante inclemenza del clima politico e l'onnipresente merdositŕ della vita, era assurdo non essersi mai spinto a piů di duecento chilometri dal luogo in cui si era stati scaricati dal ventre materno. 
    Il treno rallentň ulteriormente il suo giŕ lento incedere, a significare che stavano arrivando a Szeged. Stando alle sue ricerche, si trovava a 171 chilometri da Budapest. 
    Proprio accanto alla stazione di Szeged c'era un palazzo alto, di mattoni rossi, che si spacciava per albergo ma era stato, come tutti sapevano, uno dei piů noti bordelli d'Ungheria prima che quei covi dell'iniquitŕ capitalista fossero chiusi. Accademici, semplici cittadini, bifolchi con il vestito della domenica (quello che si mette solo per andare in chiesa, nella bara o al casino), commercianti e nobili (a quanto pareva solo di specie balcanica) ne avevano varcato la soglia. 
    Sul fatto che fosse diventato un albergo non c'era dubbio. Le ragazze dovevano essere state indirizzate a occupazioni piů dignitose. Gyuri ricordava che il segretario del Partito aveva fatto un gran parlare allo stabilimento di Ganz quando avevano assunto quattro lucciole. Porgendo il benvenuto alle nuove dipendenti, Lakatos si era lanciato in un'accesa denuncia dell'odioso sistema capitalista, che sfruttava quelle sventurate in locali di ipocrita depravazione borghese, che aveva perpetuato il droit de seigneur e aveva mandato al macello i giovani proletari in guerre di conquista di nuovi mercati e buttato le giovani proletarie sul marciapiede. Era stata, soprattutto per Lakatos, una splendida orazione. Doveva averla letta da qualche parte; probabilmente ripeteva a pappagallo qualche brano del manuale del segretario del Partito, alla voce "accoglienza in fabbrica di ex puttane". Le ragazze avevano ascoltato gli strali di Lakatos intimidite, con la tuta da operaie. La diatriba era terminata con Lakatos che, dopo essersi asciugato dalla fronte il sudore della retorica, si chiudeva nel suo ufficio mentre le ragazze venivano accompagnate a imparare il nuovo mestiere. 
    Nel giro di quindici giorni avevano ripreso a esercitare quello vecchio tra gli enormi rotoli di filo di rame prodotti nello stabilimento. L'essenza del comunismo era quella, decise Gyuri: mettere i bastoni fra le ruote alla gente. 
    Róka gettň le carte sul tavolo, schifato, mentre Pataki si riempiva ancora una volta le tasche: "Per citare il grande prevosto di Kalocsa dopo che un treno gli aveva portato via tutte e due le gambe, "Almeno l'uccello me lo lasci?"". 
    "Parliamo di quel tuo disco di jazz", replicň Pataki mescolando pazientemente le carte.
    Róka, figlio di un eminente vescovo luterano, era l'esperto della squadra in materia di Chiesa e odi di Orazio. Tutte le volte che il padre di Róka si imbatteva in uno dei tre figli, lo salutava con un verso di Orazio, cui questi doveva rispondere con il successivo, pena una tirata d'orecchie. Il vescovo era severo ma non fino in fondo, e chi riusciva a coglierlo in fallo su Orazio riceveva in premio una fetta di torta al cioccolato. Róka sosteneva di non aver assaggiato torta al cioccolato fino all'etŕ di sedici anni. Anche Róka, come Gyuri, era un "nemico oggettivo di classe", ma a Róka non sembrava importare piů di tanto e soprattutto non permetteva che questo handicap politico interferisse con il suo scopo nella vita. Scandagliň metodicamente i binari della stazione di Szeged alla ricerca di una donna che avesse l'aria di non disdegnare una sveltina contro un muro appartato con un giocatore di basket diretto a Makó. Oltre a un'inesauribile carica ormonale, Róka aveva anche un sacco di bellissimi (ossia occidentali) dischi di jazz, ormai finiti quasi tutti nelle grinfie di Pataki, per cui si guardava intorno anche nella speranza che accadesse qualcosa che impedisse il passaggio di un altro disco alla collezione di Pataki. La sua torva espressione dimostrava inequivocabilmente e tristemente che nella stazione di Szeged non c'erano donne sotto i sessant'anni. "Non abbiamo benedetto Szeged, vero?" osservň Bánhegyi. Era un passatempo infantile, ma economico e talvolta divertente. Katona si sporse da un finestrino piů indietro in maniera da non perdersi la scena quando, alla partenza del treno, Róka, Gyurkovics, Demeter e Pataki schiacciarono i rispettivi posteriori contro il finestrino che dava sul marciapiede. Le pareti del vagone erano tappezzate di fotografie di viaggiatori di ogni parte d'Ungheria sbigottiti e furibondi. 
    Szeged fu una mezza delusione. Un'anziana donna controllore, investita dal saluto a otto chiappe, rimase imperturbabile. Per miopia, forse, o per dosi massicce di guerra, quasi qualche sventura l'avesse pian piano annichilita. O forse a Szeged erano abituati alle squadre di basket. 
    Attraversarono il fiume e Gyuri lo osservň, meditando nuovamente sui lati positivi del mestiere del netturbino. "Il confine č troppo lontano per arrivarci a piedi", disse Pataki continuando a presiedere alla spoliazione dei suoi compagni di squadra. "Conviene scappare da Makó." 
    Sebbene non le avesse mai espresse, pian piano le sue aspirazioni erano trapelate e i suoi compagni le avevano indovinate del tutto. Tenere un segreto e viaggiare nudi con altre persone sono cose praticamente incompatibili fra loro. "Non č poi cosě meraviglioso neanche lŕ, Gyuri." Gyurkovics lo diceva sempre. Era un bugiardo, forse non della stessa forza di Pataki, ma comunque con una sua competenza nel settore. Mentre Pataki raccontava falsitŕ principalmente per divertirsi e vi ricorreva come arma di difesa solo se inevitabile, con Gyurkovics sapevi che ogni volta che apriva bocca la veritŕ andava in esilio. Gyurkovics c'era stato, lŕ fuori. Nel '47, prima che i confini si chiudessero peggio delle chiappe di un pidocchio, era stato a Vienna. Era piů o meno lo stesso periodo in cui Gyuri era andato da Pataki a proporgli di scappare. Con fogli di giornale al posto delle mutande, passava la maggior parte del suo tempo a preoccuparsi di quando avrebbe messo di nuovo qualcosa sotto i denti. Stava salendo a casa Pataki nella speranza di trovare tutti a tavola, quando lo aveva incontrato per le scale. Aveva degli occhiali da sole dell'esercito americano, di provenienza evidentemente clandestina; ce ne saranno state in circolazione al massimo dodici paia in tutta l'Ungheria. Pataki stava meglio di lui: non si fasciava il sedere nella carta di giornale e aveva una madre e un padre non disoccupato a procurargli da mangiare. Gyuri, perň, era convinto che non fosse quello il fattore cruciale. "Andiamo via, andiamocene da questo paese", lo aveva esortato. Pataki si era trastullato brevemente con l'idea. "No", aveva risposto. "Andiamo a remare." Era finita cosě. Gyuri era sicuro che se avesse detto di sě sarebbero andati subito a piedi alla stazione. Invece aveva detto di no, ed erano andati alla rimessa delle barche. 
    Comunque, Gyurkovics aveva reciso il cordone ombelicale con la madre patria, ma incredibilmente era tornato sei mesi dopo, quando di ragioni per tornare ce n'erano ancora meno. A Vienna aveva uno zio che aveva fatto i soldi con le calzature e visto da Budapest sembrava ricchissimo. L'invidia li aveva rosi per sere e sere, ma poi Gyurkovics era riapparso con l'aria triste e un vestito modesto. Girava voce che solo l'insania o l'omicidio avessero potuto spingerlo a tornare, ma il fratello aveva rivelato che cos'era successo. Gyurkovics aveva demolito l'impero delle calzature. Nel biglietto lasciato prima di suicidarsi, lo zio aveva scritto: "Hai doti straordinarie: chi riesce a distruggere nel giro di poche settimane un'azienda costruita con quarant'anni di fatica, amore, levatacce e impareggiabile cura della clientela ha un talento fuori del comune. Spero solo che un giorno questi tuoi poteri saranno usati per il bene dell'umanitŕ". In attesa di salvare il genere umano, Gyurkovics passava il tempo con la pallacanestro e parlava male dell'Occidente. Probabilmente aveva lasciato a Vienna altri motivi d'imbarazzo che non voleva correre il rischio di veder tornare a galla, e in ogni caso non valeva la pena di attraversare il tratto di confine vicino a Makó. Chi aveva voglia di andare in Iugoslavia o in Romania? Stella rossa di qua e di lŕ. La Iugoslavia: un branco di serbi dal coltello facile, e la Romania poi... 
    Gyuri si era offeso quando non l'avevano convocato per la tournée in Romania. Era vero che andare in Romania non era proprio andare all'estero, ma comunque non era Ungheria e il fatto che le sue ascendenze borghesi lo avessero defraudato di un viaggio a cui prendevano parte criptofascisti decadenti del calibro di Róka e Pataki gli faceva andare il sangue alla testa. Volevano vincere e quindi non potevano lasciare a casa Pataki, ma non volevano che a passargli la palla fosse qualcuno troppo "nemico oggettivo di classe". In virtů di qualche incomprensibile procedura ministeriale il livello "inimicizia oggettiva di classe" di Róka era stato ritenuto piů accettabile del suo. 
    A ogni buon conto, la Romania non aveva una buona reputazione. Qualche anno prima Józsi, che abitava al primo piano, al ritorno dalle vacanze estive in Transilvania da certi parenti, aveva detto scandalizzato: "Si scopano le anatre, davvero, non scherzo, li ho visti con i miei occhi". "Non essere ridicolo", aveva obiettato Pataki, "saranno state oche!" Józsi sembrava sinceramente scioccato ma, se si pensa che tutti i piů grandi generali ungheresi, uomini di forte tempra che hanno fatto la storia dell'Ungheria, vengono dalla Transilvania, č plausibile che alzarsi la mattina e scoprire il vicino con le brache calate intento a far strillare un pennuto sia un'esperienza formativa. 
    Gyuri aveva chiesto notizie della Romania anche a István, che era stato l'ultimo soldato ad abbandonare Kolozsvár, "l'ultimo, ma il piů veloce". István era scoppiato a ridere e non la finiva piů. Elek, che prima della guerra aveva preso l'Orient Express per recarsi a Bucarest per motivi di lavoro, sentito che Gyuri stava facendo di tutto per partecipare alla tournée in Romania, aveva commentato: "Mio figlio č un imbecille. Questa č la cosa che mi fa piů male". 
    Gyuri aveva subito l'aria soddisfatta dei compagni che si preparavano alla partenza. Róka aveva imparato una frase in rumeno che ripeteva in continuazione e che a suo dire significava "mettimi l'occhiello sul pisello". Pataki aveva messo nella valigia una scorta di carta igienica e una vetusta guida alle delizie gastronomiche rumene. 
    Vennero, videro, persero, ma almeno tornarono. Gyuri era andato ad accoglierli alla stazione Keleti. Il primo a scendere era stato Róka. Era sempre stato esile di costituzione, ma adesso aveva perso parecchi chili: sembrava uno scheletro coperto di pelle biancastra, del tutto fuori luogo, essendo agosto. "Mettiamola cosě", aveva riassunto Róka, "se dovessi scegliere fra due settimane nella sala d'attesa della stazione Keleti senza niente da mangiare e una notte nell'albergo migliore di Bucarest, non ci penserei su due volte." Avevano perso tutte e due le partite, principalmente perché Pataki era fuori combattimento. Lui, che non era mai stato malato un giorno in vita sua (al massimo si era inventato dei malanni per sottrarsi a obblighi di vario genere), che aveva visto un medico solo alle visite obbligatorie per gli sportivi, a Bucarest era rimasto tutto il tempo in ginocchio a dar di stomaco, vilmente tradito dai propri sfinteri, prosternato dinanzi ai numi del vomito, abbracciato ai diversi sanitari della suite a implorare l'intercessione divina. Gli altri, vittime di brutali sconquassi digestivi, erano comunque riusciti a entrare in campo, ma si sentivano le gambe pesanti come piombo e il fatto di entrare in possesso di palla era per loro motivo di enorme amarezza, poiché questo implicava dover correre o comunque agire. Il Locomotive avrebbe felicemente dato forfait a metŕ partita, se non fosse stato per i ferventi appelli all'onore nazionale e per le temibili minacce antelucane di Hepp. Nonostante la sconfitta fosse irrimediabilmente segnata fin dal primo minuto (o forse proprio per questo) i giocatori del Locomotive erano stati fischiati e presi di mira dal pubblico, tanto che Szabolcs si era ritrovato una freccetta infilzata in un orecchio. 
    Quando Demeter, capitano in vece dell'indisposto Pataki, aveva invitato il capitano dell'altra squadra a scambiarsi la maglia, come tradizione nelle partite internazionali, il rumeno si era messo a mercanteggiare e alla fine Demeter si era ritrovato con tre maglie indesiderate, mentre i rumeni se ne andavano congratulandosi fra loro per aver fregato gli ungheresi. 
"Non credevo di uscirne vivo", aveva detto Róka baciando il marciapiede. 
    Nella partita di ritorno si erano presi la rivincita battendo il Sindacato Rumeno Ferrovieri, ma solo di due punti: un margine davvero minimo e deludente, soprattutto tenendo conto del fatto che il fratello di Róka, che presiedeva alle cucine dell'albergo dove erano alloggiati i rumeni, aveva versato nel gulasch una quantitŕ spropositata di veleno per topi.