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La frontiera scomparsa

di Luis Sepúlveda

 

a cura di Umbertino nda Padura

Ne La frontiera scomparsa è un romanzo autobiografico ispirato alla parte di vita che Sepulveda ha passato in America Latina. Il protagonista è un giovane non ancora stanco di cercare quella frontiera scomparsa, e con essa le proprie radici, che affondano lontano, oltreoceano, nel bianco villaggio andaluso da cui il nonno anarchico è fuggito verso la metà del secolo scorso dopo aver perso la sua lotta per la libertà. Il giovane ha uno zaino in spalla, tanta voglia di andare e tutto il tempo del mondo a disposizione. Ha pagato cari i suoi sogni, ha conosciuto il carcere e la tortura (ricordati in un capitolo di straordinaria vivezza) e ora mangia il pane amaro dell'esilio, ma non poteva tradire la promessa fatta da bambino al nonno, in Cile, di visitare il paese di utopia.
E così vaga per l'America Latina a bordo di sgangherate corriere e di trenini svogliati, passando dal Río de la Plata agli altipiani della Bolivia, dalle ventose pianure del Chaco al caldo soffocante della selva equatoriale, in un picaresco viaggio che si concluderà soltanto tra le colline coperte di ulivi dell'Andalusia. Lo aspettano grandi avventure: sfuggirà a uno squadrone militare sul confine boliviano e a un matrimonio forzato in Ecuador, sarà al tempo stesso professore universitario e accompagnatore ufficiale di puttane. Di questo romanzo io amo molto le prime pagine:


Il biglietto per andare da nessuna parte fu un regalo di mio nonno.
Mio nonno. Un personaggio insolito e terribile. Credo che avessi appena compiuto undici anni quando mi consegnò il biglietto.
Camminavo per Santiago una mattina d'estate. Il vecchio mi aveva già offerto almeno sei gassose, altrettanti gelati si erano ben liquefatti nella mia pancia, e sapevo che aspettava di essere avvisato del mio bisogno di urinare. Forse si preoccupò davvero dei miei reni quando mi chiese:
«Be'? Non vuoi pisciare? Accidenti, bambino mio. Con tutto quello che hai bevuto…»
La mia risposta normale, quella solita, avrebbe dovuto suonare drammaticamente affermativa, con le gambe ben strette a sottolineare le parole. Allora lui, togliendosi di bocca il mozzicone di sigaro che gli penzolava sempre dalle labbra, avrebbe sospirato per poi esclamare nel più didattico dei toni:
«Aspetta, bambino mio. Aspetta e tieni duro finché non troviamo la chiesa adatta».
Ma quella mattina avevo deciso di farmela addosso, se necessario, piuttosto che subire di nuovo gli insulti di qualche prete. La gag di gonfiarmi di gelati e gassose per poi farmi urinare sulle porte delle chiese la ripetevamo fin dal giorno in cui avevo imparato a camminare e il vecchio mi aveva trasformato nel suo compagno di scorribande, piccolo complice delle sue bricconate di anarchico in pensione.
Su quante porte di chiesa avrò pisciato…Quanti preti e beghine mi avranno coperti di improperi…
«Piccolo sporcaccione! Non hai il bagno a casa tua?» era la cosa più gentile che mi gridavano dietro.
«Come osi insultare mio nipote, che è un uomo libero? Parassita! Rifiuto! Assassino della coscienza sociale!» sputava loro addosso mio nonno, mentre io la facevo fino all''ultima goccia, giurandomi che la domenica successiva non avrei accettato né una Papaya, Né una Blitz, Né un'Orange Crush, le bibite che mi offriva in modo più che generoso.