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Ponza, 27 giugno 1857

Carlo Pisacane va incontro al suo tragico destino 1

 

di Giuseppe Mazzella

 

Mino Maccari, inviato a Ponza, nel settembre 1929 da La Stampa di Torino, per un reportage sui confinati politici, ebbe modo tra l’altro di intervistare la signora Maria Angela Aprea, di ottantanove anni.

Racconta Maccari: “La casa è piena di delizie ottocentesche; campane di vetro, figurine di porcellana, fiori finti, dagherrotipi scolorati e delicate miniature. Chi direbbe che da questo gusto domestico, nell’inquieto Ottocento, siano state covate tante rivoluzioni? La vecchia signora racconta. Era una fanciulletta quando quei diavoli sbarcarono nell’isola, requisirono le armi in ogni abitazione, uccisero le sentinelle, aprirono le porte della galera e liberarono i galeotti. Questi, che non erano nella loro maggioranza deportati politici, ma volgari criminali, assassini, briganti e grassatori, si diedero immediatamente al saccheggio del paese, e alla ricerca delle autorità che più odiavano, per vendicarsi uccidendole. Principale oggetto di questo insano desiderio era, per evidenti ragioni, il rappresentante della giustizia; il quale per sfuggire alla sua sorte si nascose, racconta la signora Angela Maria, d’int’a carboni; in cantina, sotto un mucchio di carboni; mentre ‘u parrocchiano, il sacerdote Giuseppe Vitiello, si travestì da donna. Il terrore durò in paese meno di una giornata, perché Pisacane lasciò le acque di Ponza proseguendo nel suo viaggio, e Re Francesco, che era a Gaeta, provvide a ristabilire l’ordine nell’isola e a disporre per l’arresto degli audaci patrioti, nonché dei carcerati fuggiti per la campagna” 2.

Ancora oggi, dopo quasi un secolo e mezzo da quegli eventi, i più vecchi ricordano i racconti dei loro nonni, la grande paura che sconvolse la sonnolenta vita dell’isola, i guasti di tutti quei relegati che provocarono nelle abitazioni del centro. Gli abitanti del quartiere dei Conti, alla vista del “Cagliari” fuggirono nelle loro terre in collina, portando con sé le poche cose necessarie. Gli abitanti degli Scotti si rifugiarono sul Monte Guardia, nelle grotte scavate nella roccia e attesero in grande apprensione l’evolversi degli avvenimenti. Fortunatamente i rivoltosi si diedero al saccheggio solo nella zona centrale del porto, dove rubarono armi e derrate alimentari, senza spingersi oltre, e neanche all’altro popoloso villaggio di Le Forna a Nord di Ponza, distante circa sei chilometri.

I più violenti, convinti di distruggere gli atti che documentavano i loro delitti, per errore diedero alle fiamme l’archivio comunale. L’importante raccolta, andata purtroppo quasi del tutto distrutta, conteneva tutti i provvedimenti amministrativi e politici della colonizzazione voluta da Carlo III nel 1734. Pisacane e i rivoltosi si fermarono a Ponza meno di dieci ore. Ma furono dieci ore che decisero il loro destino e quello della storia d’Italia.

Il viaggio, nel quale Pisacane aveva riposto tutte le speranze di una vita, era cominciato sotto una cattiva stella. L’incontro al largo di Genova per l’acquisizione delle armi necessarie era saltato a causa di un fortunale; ma lo sfortunato eroe, ignaro del suo destino, nutriva ancora molte speranze sul successo della spedizione.

Tutto ebbe inizio alle prime luci di sabato 27 giugno 1857. Dopo una navigazione tranquilla per l’intera notte, Ponza era finalmente apparsa sul filo dell’orizzonte. Il “Cagliari”, una grossa nave di proprietà della Società Rubattino di Genova, provenendo da Sud-Ovest, si presentò sul lato occidentale dell’isola. Dopo altre due ore di lenta navigazione, la nave fu in vista della spiaggia di Chiaia di Luna. Carlo Pisacane fece rallentare l’andatura, per avere il tempo di prendere una decisione. Il Generale non aveva che poche e imprecise nozioni sulla topografia dell’isola. Alcune persone di Napoli sue amiche che conoscevano l’isola gli avevano suggerito lo sbarco proprio a Chiaia di Luna, l’ampia spiaggia di sabbia che guarda verso la piccola isola di Palmarola, che era ed è collegata con il Porto di Ponza da un lungo passaggio sotterraneo di epoca romana. Questo, però, avrebbe comportato una notevole perdita di tempo. Mentre l’impresa si affidava soprattutto alla sorpresa e alla tempestività dell’azione. Pisacane, allora, fece rotta decisamente verso il porto di Ponza, doppiando il Capo della Guardia e i Faraglioni della Madonna, apparendo all’improvviso nelle prime ore del pomeriggio in vista del porto.

Una nave così grossa attrasse subito l’attenzione degli isolani e dei confinati, abituati alle piccole barche dei pescatori o alle scorridore che assicuravano il collegamento con Napoli.

In poco tempo numerosi ponzesi, incuriositi, raggiunsero il porto e affollarono la passeggiata superiore, per assistere a quello spettacolo. Gli stessi confinati, che erano liberi di muoversi in uno spazio delimitato che comprendeva gran parte del centro, si riunirono ad osservare anche loro la grande nave. Altri raggiunsero la banchina, aspettando lo sbarco che sembrava imminente. Si diffusero subito molte voci sull’identità degli arrivati. Alcuni affermarono che si trattava del vescovo di Gaeta, la cui visita per la verità si attendeva già da qualche giorno. Altri, invece, dichiararono che la grossa nave era venuta per il trasporto in Argentina dei detenuti più riottosi, così come era in effetti stato deciso qualche mese prima da un protocollo d’intesa tra il Governo borbonico e lo Stato sudamericano, con l’intento di creare a Rio della Plata una colonia di Napoletani condannati per reati politici.

Ponza in quel momento viveva timidamente la questione dell’Unità d’Italia. Pochi erano i simpatizzanti. Per lo più gli isolani erano fedeli ai Borboni, che si erano sempre dimostrati molto munifici con continue elargizioni. Un labile tentativo insurrezionale era stato fatto l’anno precedente dai relegati Panfilo Mariano, Nicola Mesolella, Gaetano Albino, Domenico Coja, Agostino Teti, Giuseppe Colacicco, Luigi La Sala, con a capo Francesco Mazziotti ed i sacerdoti don Vincenzo Caporale e don Silverio Izzo, che solevano riunirsi in casa di Giuseppe Scotti. Riunioni per lo più teoriche, in cui si dibattevano più le filosofie che una vera azione rivoluzionaria. I “rivoltosi” subirono però, nonostante tutto, un processo per riunioni settarie e detenzione di bandiera tricolore 3.

Al di là dei rari episodi come questo, erano soprattutto i militi a nutrire malumori nei confronti del Sovrano.

Nel pomeriggio del 19 maggio precedente il fatidico 27 giugno, infatti, ottantadue ex-militi, cioè quasi tutta la guarnigione di punizione, si erano ritirati in sciopero sulla collina della Guardia, la più alta dell’isola. Con questa azione intendevano protestare contro gli “inumani trattamenti del sergente Russo”. Ci volle tutta la giornata e l’impegno e la pazienza del capitano dello Stato Maggiore D’Ambrosio nonché del Giudice regio, perché si ponesse fine alla dimostrazione 4.

Nel piccolo mondo isolano i vecchi ufficiali, infatti, facevano a gara a mostrare al Sovrano la loro lealtà, con l’applicazione pedissequa e spesso dura del regolamento di polizia militare.  L’episodio del 19 maggio, infatti, non era che l’ultimo di una lunga serie di atti di insubordinazione.

Quando il “Cagliari” gettò l’ancora al largo erano circa le tre del pomeriggio. Il mare era calmo. Sull’isola regnava il silenzio. Lo stesso Comandante dell’isola, il Maggiore Antonio Astorino, stava riposando quando, poco dopo le sedici, fu avvertito che un battello a vapore era fermo nella rada del porto. Il vecchio Maggiore fece chiamare il Capitano del porto e il Tenente aiutante perché si informassero di che si trattasse. Giunsero allo stesso tempo il Comandante del distaccamento della riserva ed il Tenente Fiordelisi, Comandante della compagnia veterana per la “riunione punitrice delle eccedenze dei relegati” fissata, come al solito, per le ore diciassette.

Più o meno nello stesso momento il Pilota del porto, Giosuè Colonna, accompagnato dal fratello, si avvicinò con la sua piccola imbarcazione al “Cagliari”. Quando si trovò nei pressi della nave, si imbatté in una lancia con su quattro o cinque marinai che gli riferirono di avere dei guasti alle macchine. Lo invitarono, quindi a portarsi all’altra fiancata della nave, che rimaneva nascosta alla vista da terra. Allora assalirono il Colonna con armi bianche e da fuoco e lo condussero a forza a bordo assieme al fratello che svenne per l’emozione. Pisacane chiese allora al Colonna notizie sull’entità della truppa a terra e diede l’ordine di tenersi pronti allo sbarco, secondo il piano prestabilito.

Qualche minuto dopo, sopraggiunti sotto il “Cagliari”, il Capitano del porto ed il Tenente de Francesco per verificare cosa stesse succedendo, furono anche loro portati a forza sul “Cagliari”. Solo allora Pisacane ordinò al pilota di condurre la nave in porto, mentre circa venti uomini armati di tutto punto, che indossavano vestititi blu e berretti rossi, si diresse verso terra con due lance, mentre in una terza prendevano posto altri rivoltosi vestiti con la divisa di marinai. Mentre questi stavano espletando a terra le pratiche sanitarie per lo sbarco, Giuseppe Daneri, che era a capo del gruppo di marinai, si lanciò contro il posto di guardia doganale. L’azione fulminea trovò del tutto impreparato i Deputati di salute, il Cancelliere, le guardie doganali e poche altre persone. Non fu difficile quindi avere ragione di loro e rinchiuderli sotto scorta. Il deputato Noli, tremando di paura, gridò di risparmiare loro la vita. Ma il capitano Daneri lo rincuorò che dopo un quarto d’ora li avrebbe lasciati tutti liberi, dichiarando che erano venuti solo a liberare i fratelli politici. Noli, si preoccupò allora di far sapere che a Ponza non ve ne erano. Ma la sua dichiarazione non destò nessun interesse.

Mentre il gruppo di guardia, comandato dal Nicotera, assaliva il posto doganale, portandosi verso il centro dell’abitato, gli altri rivoltosi con due lance, sbarcati dalla parte opposta della nave, irruppero fulmineamente sulla piazza. A precederli era un ragazzo di 13 anni, il mozzo Domenico Costa, che agitava una bandierina tricolore, mentre andava gridando assieme a tutti gli altri: “Viva l’Italia, viva la libertà, viva la Repubblica!”.  Una volta arrivati sulla piazza assalirono la Gran Guardia posta sotto la loggia dell’abitazione del Comandante dell’isola. Il Sergente dei veterani, accortosi dell’attacco, cominciò a gridare a squarciagola: “Allarmi, allarmi, sono venuti i Francesi!”. La sorpresa era riuscita. Il caporale Gerardo De Marco e tre soldati, cominciarono a sparare contro i rivoltosi alcuni colpi di fucile dal piano sotto la Torre dove si trovavano. Il maggiore Astorino, dal balcone del suo palazzo, affiancato dal Capurbano e il Segretario della delegazione, incitava al fuoco. Ma su questo particolare le testimonianze raccolte, in seguito, al processo di Salerno, non appaiono concordanti. Secondo il maestro Izzo, infatti, il caporale De Marco avrebbe rivolto l’arma contro il Maggiore, gridando: “Ritiratevi, che oggi è tutta repubblica!”. I soldati, intanto, sparate inutilmente le poche munizioni, si erano asserragliati nella Torre, chiudendo la porta di accesso.

I rivoltosi, intanto, impadronitisi della Gran Guardia, uccidevano il Tenente Balsamo, e rendevano inservibile la scorridora e occupavano il corpo di guardia della caserma. Tutti assieme allora si diressero verso le prigioni della caserma e del bagno, liberando i prigionieri e accerchiando nello stesso tempo il palazzo del Comandante. L’azione, rapida e coordinata, diede i frutti sperati e risultò più semplice del previsto. Mentre i relegati cominciavano a sciamare per il paese, gridando e dandosi a manifestazioni di intolleranza sempre più gravi, Pisacane provvide a portare assieme ad alcuni rivoltosi il “Cagliari” fuori dal porto, per essere fuori tiro dei cannoni della fortezza. Una preoccupazione inutile, perché il Daneri aveva già provveduto a rendere inutilizzabili i cannoni, inchiodandoli.

Le testimonianze del tempo concordano sul fatto che, dopo il primo moto di sorpresa, ci “fu una vampata di entusiasmo”. Ridata la libertà a tutti i prigionieri, questi andavano gridando “libertà e rivoluzione” per tutto il paese, in un crescendo di grida e di confusione, e annunciando che la rivoluzione era già scoppiata in continente, a Genova come a Livorno, a Napoli e in tutta la Toscana. Gli stessi militari, o almeno la maggior parte di loro, facevano causa comune. Rimaneva da conquistare solo la Torre, in cui si erano asserragliati pochi soldati.

Un gruppo di rivoltosi, intanto, con a capo Giuseppe Daneri, Giovanni Camillucci e Gaetano Poggi, diedero l’assalto alla casa del Comandante che, vistosi in difficoltà, diede ordine di aprire il portone, arrendendosi. Fu allora costretto a firmare l’ordine di deporre le armi alle truppe. Il Comandante Astorino fu trasportato sul “Cagliari” assieme alla moglie e alla nipote già precedentemente prese in ostaggio. Pisacane si preoccupò di rassicurarlo subito che sarebbe stato lasciato libero assieme ai suoi, non appena tutta la truppa avesse consegnato le armi.

La folla dei relegati, che divenivano di minuto in minuto sempre più scalmanati, era a mala pena controllata dall’opera del medico Vincenzo De Leo, assieme a Federico Lopez e Vincenzo Firmi, gli stessi che, per evitare altre inutili violenze, avevano accompagnato l’Astorino a bordo del “Cagliari”.

Nonostante le promesse, alcuni militari continuavano a rimanere asserragliati nella Torre. Anche l’ordine scritto dall’Astorino, portato alla Torre da Fiordelisi, non convinse i militari che si dichiararono pronti alla resa solo se avessero ricevuto l’ordine dalla viva voce del loro Comandante. Astorino allora, accompagnato dal Sergente Merlino, raggiunse la Torre, dando l’ordine di resa. Mentre i militari deponevano le armi, Astorino, assieme ai suoi familiari, furono liberati e accompagnati alla loro abitazione. Anche gli ufficiali furono liberati.

Intanto era scesa la notte. Erano state necessarie sei ore perché Pisacane potesse, con abile colpo di mano, impadronirsi della guarnigione di militari e liberare i reclusi. Grande però fu la delusione alla vista di quegli scalmanati che avevano ben poco dei perseguitati politici.  Conoscitore di uomini e soprattutto di militari, si rese subito conto di disporre di pessimi collaboratori. Incerto sul da farsi, fece una scelta alla buona, imbarcando 202 condannati, 118 ex militi e 3 presidiari, in tutto 323 relegati, tra i quali i perseguitati politici erano ben pochi. Il medico Vincenzo De Leo, assieme a Federico Lopez e Vincenzo Firmi, restarono infatti a terra. Erano loro gli unici impegnati politicamente dell’isola e gli unici dotati anche di un certo livello di cultura. Ma decisero di non seguire Pisacane. Perché? Forse proprio perché più edotti e intuitivi, non avevano dato troppo credito alle voci che la rivoluzione fosse scoppiata in tutta la penisola. E, forse, ebbero anche una certa ripugnanza ad imbarcarsi con quei comuni delinquenti. Di quei 323 uomini male assortiti solo undici avevano precedenti politici: Pasquale Armeni di Ardore, Domenico Coja di Casoria, Nicola Giordano di Reggio, Eugenio Lombardi di Napoli, Giovanni Maccarone di S. Marina, Consolato Niccolò di Reggio, Raffaele Parola di Napoli, Pietropaolo Regina di Normanno, Nicola Valletta di Lecce e Luigi Verna di Cervinara.

Anche il ponzese Davide Volpe, che pure si era molto prodigato per i rivoltosi, restò a terra. L’impresa nasceva sotto cattiva stella.

Pisacane, nel tentativo di rimediare all’errore, pensò di raggiungere Ventotene, dove erano confinati politici. Le scarse notizie di cui disponeva, lo distolsero da questa decisione.

L’impresa di Ponza sembrava perfettamente riuscita, ma apparve subito una vittoria mutilata. Sulla confusione del momento si innestò un’altra preoccupazione. Pisacane, preoccupato che qualche imbarcazione potesse partire di nascosto ed avvertire i Borboni, decise di sfruttare le poche ore di vantaggio che aveva per accelerare la partenza e anticipare lo sbarco.

Secondo alcune testimonianze, approfittando del buio, una barca a remi con alcuni uomini proveniente dalla spiaggia di Santa Maria, proprio di fronte al porto, cercò di forzare il blocco del “Cagliari” e portarsi al largo.  Pisacane, accortosi, incaricò Nicotera di bloccare l’imbarcazione che cercava di allontanarsi. Nicotera, gettandosi subito all’inseguimento, nel salire sulla sua lancia, perse l’equilibrio e cadde in mare dove per poco non affogò. L’episodio, non suffragato da prove certe, appare piuttosto un’invenzione successiva, per dare dignità ad un banale atto di disattenzione.

Solo molto tempo dopo si seppe del tentativo, questa volta riuscito, di inviare una barca a Gaeta per dare l’allarme. Dell’idea, di cui fu ideatore il parroco Giuseppe Vitiello, fu incolpato ingiustamente anche il medico Vincenzo De Leo. Era stato infatti il parroco Vitiello che, atterrito dalle minacce di morte che per tutta la giornata gli andava facendo Benedetto D’Alessandro, si era rifugiato in campagna sopra gli Scotti in casa di Carmela Iacono. Il pilota del porto, Colonna, dichiarò infatti nel processo di Salerno che durante la notte, d’accordo col parroco, aveva mandato al villaggio di Le Forna, distante circa sei chilometri, un espresso per far partire, come in effetti avvenne, una imbarcazione a remi per portare a Gaeta la notizia della rivolta. Per la verità dell’azione di Pisacane giunse a Gaeta circa sedici ore dopo, verso le diciotto e trenta circa del 28 giugno. Un’ora e mezza dopo un dispaccio partiva da Gaeta per darne notizia all’Intendenza di Salerno che avrebbe operato con prontezza per far fallire l’azione dei rivoluzionari.

Il Giudice regio, Michele Mazzocolo, da parte sua, redasse rapidamente un breve rapporto sui fatti appena accaduti, già prima che partisse il “Cagliari”, ma riuscì a farlo giungere al governatore della Real Piazza di Gaeta solo il giorno seguente.

Era passata la mezzanotte quando il “Cagliari” levò finalmente l’ancora, lasciando l’isola per alcuni giorni in preda all’anarchia e al saccheggio di quanti non si erano imbarcati. I rivoltosi di Pisacane avevano requisito pane, vino e soprattutto legna, non avendo la nave carbone sufficiente. Pisacane, cercando di mettere ordine tra le sue truppe raccogliticce, dopo aver dato la rotta a Daneri, stette per ore chiuso in un cupo silenzio ad osservare l’orizzonte finché Ponza non scomparve alla sua vista.

L’episodio di Ponza resta la causa principale del fallimento dell’azione di Pisacane. Un fallimento tecnico e organizzativo, che ebbe riflessi deleteri sul tentativo insurrezionale. Mancò tutto il sostegno logistico che sarebbe stato necessario ad un’azione del genere. A Ponza non vi fu alcuna preventiva sensibilizzazione, così da disporre almeno una parte della popolazione a favore degli insorti. Non solo ciò non accadde, ma gli isolani furono letteralmente travolti dagli insorti e dai relegati, verso i quali nutrirono subito una forte antipatia. Basti ricordare che le petizioni al Re Borbonico per i danni subiti in quei giorni furono ben 216.  Ponza, infatti, da sempre abituata alle elargizioni reali, reagì con indifferenza e con la fuga alle azioni degli insorti.

A rileggere il suo testamento, redatto poche ore prima della partenza, appare chiaro il suo desiderio di tentare comunque l’impresa, dopo anni di sofferenza, di emarginazione e di insoddisfazioni. Un’azione coraggiosa che lo avrebbe riscattato di una vita senza successi. Quello che appare ancora più strano e che avvalora l’idea che l’eroe cercasse la morte è che, dopo il massacro di Sapri, nelle sue tasche fu trovato questo biglietto che indicava chiaramente l’inidoneità della sosta a Ponza: “L’isola di Ponza è distante da Ventotene 30 miglia senza alcun porto intermedio, per cui non vi è telegrafo; questa ultima è distante da Ischia anche 30 miglia di modo che le tre dette formano un triangolo equilatero. Da Ventotene a Santo Stefano vi è un canale di mare di un miglio. In Ponza vi sono pochissimi relegati politici e più centinaia di relegati comuni, soldati di voluta cattiva condotta”.

 

 

 

 

 

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1  Tratto da Civiltà Aurunca n° 41, gennaio/marzo 2001, Caramanica Editore

2  M. MACCARI, Visita al confino (1929), ristampa a cura di Cultura Calabrese Editrice, 1985

3  ASS, Processo Pisacane, B. 193, vol. c. 18

4  ASS, Processo Pisacane, B. 196, vol. XLVIII