Se avesse operato alla fine del secolo scorso , all’ epoca del Neoimpressionismo, quadri come quelli dipinti da Gianni Melilli, anche se decisamente pervasi da umori di modernità, sarebbero piaciuti al gruppo che faceva capo – auspice ed esegeta il critico Félix Fénéon – a Signac e a Seurat: la “divisione”, che in Seurat sarà spinta fino al “pointillisme”, risolve anche qui, pur nell’uso costante della spatola, problemi di struttura, di luce, di tono. Melilli è pervenuto a questa intensa vendemmia, nella quale dominano il blu e l’azzurro ocrato, da una vaporosità addirittura semeghiniana: i sentieri nel bosco, i fiori, le maschere più o meno immerse nel tripudio vegetale, i bei paesi immaginari che recuperano intero il senso della favola pur non escludendo l’apporto di una visualità contestuale, registrano la sostituzione di un’ articolata corposità del pigmento alle cadenze sfumate e rosse di un tempo. Si tratta , comunque , ove si tenga presente la maturata consapevolezza dei rapporti, di una conquista; e si pensa, non so, alla pittura tutta cose e vibrazioni del prefuturismo di Boccioni; e talvolta, di fronte a certi paesaggi d’impianto unitonale e di vena quasi espressionistica, alla solidità di un Permeke. Direi che Melilli è, per le sue qualità indiscutibili, antimanierista ed antioratorio. Non c’è nulla, in lui, di artificioso e di troppo programmato. Per questo non ha nulla da dividere con le istanze socialitarie del divisionismo lombardo, e soprattutto di Pelizza da Volpedo. Egli è, insieme, pittore d’istinto e di disciplina, di pulsione immediata e di filtro; ed è fedele, su tutta la linea, al proprio temperamento. Anche quando torna, come è accaduto recentemente, ai toni più chiari, non si può certo parlare di “chiarismo” nel senso corrente del termine, né del vedutismo en plein air che fu caratteristico della Scuola di Posillipo. Perché bisogna tenere presente, d’altra parte, che Gianni Melilli non si serve mai di una relazione diretta col dato esterno: egli reinventa assiduamente la natura, investendola delle sue emozioni e della sua felicità costruttiva, e contraddice in tal modo a quel naturalismo estetizzante determinatosi , a filo di equivoco , sulle generose premesse del Rinascimento. La varietà fenomenica gli nasce dentro con estrema semplicità e forza , con la vitalità sostanziale delle “immagini” che traducono un più profondo e corale avvertimento di là del fragile concorso delle occasioni ; e i clivi alberati , le radure luminose , i fondi marini (ce n’è uno che sembra preludere ad un’aurora turneriana) dichiarano la disponibilità dell’artista non per la fuga arbitraria e per le suggestioni illusorie , ma piuttosto per l’itinerario fantastico. E ancora una volta, come avviene solo ai creatori di buona razza, la fantasia diventa qui, desanctisianamente, energia evocatrice di verità clandestine e perenni, rivelate dall’arte sotto i sussulti e le labili mascherature della scorza. In questo processo di migrazione dal reale all’ideale Melilli non si perde mai nei labirinti del simbolismo: la sua immaginazione resta per molti aspetti limpida, umana, concreta e l’analogia interviene quel tanto che basta a vestire di sogno la contemplazione interiore, escludendo le ipotesi ambigue del sovrasenso. Con queste qualità il pittore si identifica senza compromessi , con tutta la sua vigile esperienza, con l’istintivo gusto della cromìa, con l’amore per la composizione autonoma ma tutt’altro che gratuita. Sono doti che lo assistono anche negli episodi di più vincolante riscontro, in certi scorci urbani non importa se di Roma o di Venezia. Non può sfuggire ad un occhio allenato che anche in questi dipinti la connotazione è assolutamente libera: è rispettata l’ oggettività di assuefazione, ma c’è qualcosa in più, qualcosa di eludente e di magico che restituisce i paramenti blasonati, le fontane, i dettagli orchestrali della monumentalità o di una più domestica visione ad una consonanza diversa ed alta, non logorata dalle categorie dello spazio e del tempo. Potremmo affermare dunque che Gianni Melilli è un visionario? Ma egli continua in realtà a colloquiare con le parole di sempre, destinando all’uomo e non ad una coorte di fantasmi le sue evasioni, che restano cariche di partecipata armonia. Una pittura, la sua, che non è fatta per una fruizione meramente edonistica, una pittura che va letta ed approfondita in chiave spirituale, ben oltre i limiti delle contiguità sensorie. Non significherebbe niente immergersi nella gloria corsiva di un colore portato a volte fino alla soglia del rischio (ma dominato, infine, con l’aristocrazia di una decantazione stilistico-culturale), senza intenderne la liberatrice espansione verso il misterioso respiro della universalità. Una testimonianza vibrante come quella di Gianni Melilli traduce, per chi sappia guardare, anche le alternative severe del pensiero. Non una ragione paradigmatica, tuttavia, costretta nella prigione delle equazioni mentali, ma tributaria, senza riserve, delle stagioni dell’anima.