LA POLITICA RAZZIALE NELL’EPOCA FASCISTA

Un generico antisemitismo in certi ambiti culturali non è estraneo alla storia e alla cultura del nostro paese, ma una politica razzista vera e propria nasce solo nell’Italia mussoliniana. Il movimento fascista in origine non era antisemita, lo stesso Mussolini in gioventù scrisse "L’Italia non conosce l’antisemitismo e non lo conoscerà mai" (Popolo d’Italia, 19 ottobre 1920).

Solo l’alleanza con la Germania nazista porta in primo piano anche nel nostro paese il cosiddetto problema razziale. Ancora nel 1937 secondo quanto riferisce Galeazzo Ciano, Ministro degli esteri e genero di Mussolini, Mussolini dichiarava al Cancelliere d’Austria Schuschnigg:

"Tra il fascismo e il nazismo vi sono delle differenze sostanziali. Noi siamo cattolici fieri, rispettosi della nostra religione. Non ammettiamo le teorie razziste, soprattutto nelle loro conseguenze giuridiche." (Galeazzo Ciano, "L’Europa Verso la catastrofe", Ed. Mondadori 1948, pag.171)

Ma dopo l’annessione (Anschluss) dell’Austria al Reich germanico (marzo 1938) l’atteggiamento era cambiato e, sempre secondo Ciano, il Duce faceva una scelta precisa di politica razziale sostenendo che i giudei non appartenevano alla razza italiana.

La campagna razziale

Frutto del nuovo clima di ostilità è l’apparizione del "Manifesto del razzismo" (14 luglio 1938) –Vedere Appendice 1 – esso figura redatto da un gruppo di studiosi, ma Ciano, nel suo diario, in data 14 luglio 1938, scrive:

"Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statuto sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui."

Gli scienziati firmatari del manifesto – Vedere Appendice 2 – erano docenti ed assistenti i università, ma a onor del vero occorre dire che alcuni tra i più illustri studiosi rifiutarono la loro firma. Come naturale con l’apparizione del manifesto la campagna razziale divenne ufficialmente uno dei punti programmatici più importanti della politica fascista.

E’ ora interessante prendere in esame l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il problema ebraico. Dal punto di vista evangelico, naturalmente, essa rifiuta ogni ideologia razzista, ma ciò non impedisce che la suo interno fosse presente un certo antisemitismo sul piano religioso. L’importante rivista dei gesuiti la "Civiltà Cattolica", in questo periodo, pubblicava articoli in cui l’antisemitismo assumeva toni pericolosamente vicini alla propaganda fascista.

Lo stesso atteggiamento del Pontefice Pio XI ha suscitato in sede storiografica valutazioni contrastanti, perciò non è facile dare un giudizio netto su una figura così complessa. Ricordiamo solo che la sua famosa Enciclica "Mit Brennender Sorge" (Con immensa angoscia) condanna il razzismo, ma secondo alcuni studiosi la sua azione successiva non fu esente da timidezze e reticenze nei confronti dei nazi-fascisti.

Tornando alla politica razziale del regime occorre notare che il Ministero della Cultura Popolare fu pesantemente coinvolto nel tentativi di fare penetrare profondamente nell’animo degli italiani un sentimento razzista che non aveva mai fatto parte della cultura e della storia dei ceti popolari del nostro paese.

Il segretario del P.N.F., Starace, individuò 5 punti, che vennero uniti al "Manifesto del razzismo", e che dovevano servire come stimolo alle discussioni presso l’Istituto Nazionale di Cultura Fascista:

  1. individuazione dei caratteri tipici e permanenti della razza italiana da Roma a oggi;
  2. impostazione, continuità e sviluppo dell’azione del regime in difesa della razza. Provvedimenti e istituzioni per la tutela e il miglioramento della sanità pubblica e morale del popolo italiano (politica demografica – opera maternità e infanzia – provvidenze e assistenza – igiene del lavoro – educazione intgrale della gioventù ecc.);
  3. nuovi aspetti e nuova importanza del problema dopo la conquista dell’Impero: la quale ha imposto la tutela della unità e purezza della razza italiana come condizione della nostra superiorità colonizzatrice;
  4. la coscienza del problema della razza in funzione dell’autarchia spirituale della nazione;
  5. il problema ebraico nel mondo e in Italia.

Contemporaneamente ebbe inizio una grande campagna di stampa: l’organo più importante di tutta la campagna razziale voluta espressamente dal duce per valorizzare i principi e la politica del razzismo fascista, fu la rivista "Difesa della Razza". Il primo numero apparve il 5 agosto 1938 con la pubblicazione del già citato manifesto degli scienziati fascisti. La rivista durò fino al 194, sforzandosi di accreditare le basi scientifiche del razzismo, ma deviando spesso in semplice propaganda politica. Nel momento di massimo successo arrivò a vendere oltre 100.000 copie.

Nel ’39 fu fondata la rivista "Diritto razzista"; nel ’40 "Razza e civiltà", organo mensile del Consiglio Superiore della Direzione Generale per la demografia e la razza. Articoli dedicati alla questione razziale furono pubblicati su numerose altre riviste, tra cui "Sapere" e "Panorama".

Al manifesto del razzismo si aggiunse, nella notte del 6 ottobre, la "Carta della razza", promulgata dal Gran Consiglio del fascismo in una riunione presieduta dal duce. Il documento fu pubblicato sul "Giornale d’Italia" l’8 ottobre 1938 – Vedere Appendice 3.

Le leggi razziali

Dal Gran Consiglio ben presto la questione razziale passò al Consiglio dei Ministri che approvò una vera e propria legislazione in proposito, purtroppo senza incontrare resistenza da parte del Re Vittorio Emanuele III che firmò le leggi razziali. Esse furono promulgate il 17 novembre 1938 – Vedere Appendice 4.

Primo Levi, in un’intervista a "La Stampa" del 9/9/1983, così ricorderà il fosco quadro che andava delineandosi:

"Gli ebrei erano stati cacciati da tutti gli impieghi statali, dall’insegnamento, dall’amministrazione, dalle Forze Armate; i medici e gli avvocati ebrei non potevano avere clienti ariani; nessun ebreo poteva possedere un apparecchio radio, stipendiare una persona di servizio cristiana; gestire un’impresa industriale, possedere terreni, pubblicare libri […].

Infatti vennero fissati precisi principi determinatori della razza ebraica (Vedere Art. 8 del R.D.L. del 17 novembre 1938, in Appendice 4) e pesantissime risultarono le discriminazioni. Gli appartenenti alla razza ebraica venivano annotati come tali nei registri dello stato civile e venivano loro imposte pesanti limitazioni dei diritti civili.

Gli Art. 10 e 13 della sopra citata legge enunciano analiticamente i divieti loro imposti, ma le misure antiebraiche andavano oltre: ci furono anche decreti minori o semplici circolari inviate a diversi uffici pubblici che talvolta erano più odiosi delle leggi stesse.

Il 12 settembre 1938 il Consiglio dei Ministri adottò una misura gravissima: l’allontanamento dalle scuole italiane di ogni ordine e grado, università comprese, di tutti gli insegnanti e studenti di "razza ebraica". Si concesse solo a chi era già iscritto all’università di completare gli studi, e l’apertura di scuole private, ma solo elementari e medie. Venne vietata l’adozione in ogni ordine di scuola, di libri di autori ebrei. Tutta la normativa in campo scolastico fu riunita e coordinata col R.D.L. 15/11/1938 n. 1779, in Testo Unico.

L’espulsione dagli istituiti di istruzione di ogni ordine e grado riguardò:

97 docenti universitari

94 docenti di istituti medi superiori

200 studenti universitari (su un totale di 48.000)

quasi 1000 studenti delle scuole medie inferiori (su un totale di 200.000)

4400 scolari delle scuole elementari

Come già detto sopra, gli ebrei già oppressi dalle leggi subirono ulteriori angherie ad opera di una miriade di disposizioni che lo stesso Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, che con cura e rigore le ha raccolte e pubblicate, ha il timore che forse non è riuscito a rintracciarle proprio tutte.

A titolo esemplificativo ricordiamo alcune norme tra le più odiose, alcune delle quali al limite del surreale - grottesco:

Gli ebrei che, per evitare persecuzioni, avevano cambiato cognome, furono costretti a riprendere l’originario. Chi non essendo israelita aveva un cognome tipicamente ebraico, era autorizzato a cambiarlo.

Naturalmente la legislazione razziale si interessò anche dei rapporti tra italiani e indigeni delle colonie in Africa. Fu istituito il reato di "lesione al prestigio della razza" per inibire i rapporti coniugali fra bianchi e neri (R.D.L. 19 aprile 1937, n. 880).

La minuziosa e rigida legislazione razziale fascista ebbe una strana evoluzione con la Legge Integrativa del 13 luglio 1939 n. 1204. Con tale norma venne istituito un "Tribunale della razza" composto da funzionari amministrativi e da magistrati dell’Ordine Giudiziario, con il compito di dirimere le problematiche di ordine razziale: per esempio, stabilire in modo motivato, ma segreto, l’appartenenza o meno di un individuo alla razza ebraica, anche in contrasto con la certificazione anagrafica.

In realtà al di sopra del Tribunale vi era lo stesso Mussolini, la cui decisione, per legge, oltre ad essere insindacabile, non doveva nemmeno essere motivata. Va da sé che la nuova norma si prestava ad ogni sorta di arbitri e favoritismi, e il nuovo organismo diede origine a un capitolo particolarmente oscuro e denso di corruzione: il così detto commercio delle "arianizzazioni". Tramite mediatori, per esempio avvocati accreditati presso il Tribunale della razza e previo il pagamento di somme anche ingenti, furono corrotti alcuni funzionari e cercate ingegnose scappatoie: una delle più comuni, nonstante l’avvilente natura del sotterfugio per il richiedente, consisteva nel "documentare" l’adulterio della propria madre e dimostrare così di essere figlio naturale di un ariano.

Pare che esistessero tariffe abbastanza precise anche per le così dette "discriminazioni". Occorre ricordare che le norme vessatorie nei confronti degli ebrei di cui alla Legge 17 novembre 1938 potevano essere parzialmente attenuate su documentata istanza degli interessati, qualora questi ultimi si fossero trovati nelle condizioni previste dall’Art. 14 (Es.: combattenti, mutilati, invalidi di guerra, ecc.). Nacque così la patetica figura dell’ebreo "discriminato", cioè distinto dagli altri suoi correligionari per "meriti speciali", che gli permettevano di usufruire di un’attenuazione dei divieti nel campo delle attività professionali o nei diritti di proprietà. Su 15.000 famiglie ebraiche, 3.502 furono discriminate per meriti di guerra o meriti fascisti: quanti di questi "meriti" fossero effettivamente conseguiti sul campo e quanto "comprati" non è dato sapere!

Ma quanti erano complessivamente i destinatari di tanta puntigliosa attenzione? Numericamente una trascurabile percentuale della popolazione, e ciò rende ancora più assurda la tesi del così detto "pericolo ebraico" in Italia. Secondo Renzo De Felice, nel 1938 si contavano 47.252 ebrei italiani, lo 0,1% di una popolazione di circa 45 milioni, dei quali circa 6.000 emigrarono a causa delle leggi razziali e circa altrettanti si convertirono al cattolicesimo.

Bisogna aggiungere che le leggi razziali ordinavano, tra l’altro, l’espulsione di tutti gli ebrei stranieri, molti dei quali, magari provenienti dalla Germania nazista, avevano cercato protezione e rifugio proprio in Italia. In realtà l’obiettivo dell’espulsione non fu mai realizzato, perciò gli ebrei italiani e stranieri subirono in modo simile il periodo della guerra 1940-1943, tra pesanti vessazioni, ma anche con qualche ammirevole esempio di solidarietà popolare.

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