Dalla recensione della Prof. Mariella Orsi sul sito http://www.cesda.net/
.....Parlare di inadeguatezza all'appello del sofferente ci permette di focalizzare l'attenzione sulle modalità ambigue del dibattito attuale in merito a problematiche di questo tipo. Assistiamo infatti ad una paradossale contrapposizione: da un lato una tendenziale “curiosità” verso la dimensione privata della persona che soffre e, dall'altro, un uso generalizzato, a livello mediatico di termini e concetti specifici di questo settore, che lungi dal chiarificare le problematiche in questione le banalizza rendendone in realtà ancora più oscura la comprensione. Il contributo della riflessione filosofica, in questo contesto, dovrebbe consistere primariamente nella focalizzazione della complessità conferita alla malattia, ed alla sofferenza che ne consegue, dal loro essere radicate in situazioni di vita quotidiana, concreta. È ciò che, in altri termini, s'intende per “vissuto biografico di malattia”. In questo senso, il primo passo compiuto dall'autrice è quello di portare l'attenzione del lettore sulla necessità di integrare una visione prettamente tecnico-scientifica della malattia con una visione di carattere filosofico. A tal fine, un breve excursus attraverso alcuni passi caratterizzanti l'evoluzione della medicina occidentale, dà un efficace quadro della tendenziale spersonalizzazione della sua struttura conoscitiva, sempre più indirizzata verso una collocazione meramente fisico-corporea della realtà del dolore, finalizzata a rendere quest'ultima più facilmente controllabile. Assumere una prospettiva etico-filosofica rispetto al problema della sofferenza del corpo significa innanzitutto prendere le mosse da una visione comprensiva del soggetto, fondata non già sull'idea di un corpo-materia, bensì di un corpo vissuto, “poratore di identità”. L'identità corporea non viene intesa come qualcosa di dato una volta per tutte, ma come fattore imprescindibile all'interno del processo di costruzione di sé: il corpo “apprende” un modo d'essere e di rapportarsi al mondo esterno. In quest'ottica comincia a delinearsi l'enorme portata della condizione di malattia per il soggetto che in prima persona la sperimenta, come qualcosa che spazia al di là della disfunzione di questa o quella singola parte del corpo, al di là del timore dell'infermità o della malattia in sé, configurandosi molto spesso come una sofferenza totale e monopolizzante che “impone la sua presenza, imponendoci di focalizzare la nostra attenzione su qualunque cosa fuoriesca dal suo dominio e mettendo a nudo la nostra limitatezza e la nostra relativa impotenza di fronte ad esso” (p.50). Alla luce di queste riflessioni, è auspicabile che il personale sanitario, presa coscienza dell'importanza della dimensione umana della malattia, s'impegni affinchè le potenzialità negative che ad essa ineriscono non si traducano in un incremento della sofferenza. Quest'impegno non richiede uno stravolgimento del proprio modo di lavorare, ma piuttosto un'integrazione fra un approccio tecnico-scientifico con un approccio di tipo etico: compenetrare la “cura” nel senso strettamente sanitario del termine, con un più ampio “prendersi cura”. In quest'ottica, l'instaurazione di una relazione di fiducia e la valorizzazione del “vissuto biografico” di malattia si configurano come risposte fondamentali all'appello d'aiuto che proviene dalla persona che soffre, nonché promotrici del rispetto della sua dignità e del suo ruolo centrale all'interno dei processi decisionali riguardanti le scelte relative alla cura. Un approccio di questo tipo rivela la sua maggiore adeguatezza anche nelle situazioni estreme della malattia terminale, cui è dedicata l'appendice di questo lavoro, che riporta e commenta alcune testimonianze dirette raccolte dalla Consulta di Bioetica toscana, nell'ambito del Progetto interdisciplinare “L'autodeterminazione del malato di tumore: contributi empirici”.
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