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Massimo Cogliandro

 

 

Titoismo e liberalcomunismo

 

 

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

 

Gli ideali del liberalcomunismo non si identificano in alcun modo con l’ideologia della classe sociale dominante della jugoslavia titoista, improntata alla filosofia politica leninista ed espressione di interessi storici largamente divergenti rispetto a quelli delle classi sociali subalterne di quel paese, esattamente come lo sono gli interessi di tutte le classi sociali dominanti che si sono succedute nella travagliata storia dell’umanità. Il liberalcomunismo, però, non ignora che in ogni forma di oscurantismo ideologico ci sono delle gocce di luce, in grado di guidare l’uomo nella ricerca della verità e di condizioni di vita migliori e se questo era vero per l’ideologia dominante nell’U.R.S.S. di Lenin e Stalin tanto più lo è stato per l’ideologia “autogestionaria” della burocrazia politica jugoslava del tempo di Tito.

 

 

L¢ autogestione jugoslava

 

 

Marx ci insegna che non sempre l’avvento sul palcoscenico della storia di una nuova classe sociale dominante porta con sé fenomeni di regresso sociale e politico, anzi molto spesso accade che la nuova classe sociale dominante, rispondendo alle esigenze sorte con i cambiamenti avvenuti nel modo di produzione, si trasformi in un fattore di deciso progresso economico, sociale ed istituzionale. Questo è precisamente quanto è avvenuto in Jugoslavia tra il 1945 e il 1980: la nuova classe sociale dominante, cioè la burocrazia politica del Partito Comunista, per rispondere alle esigenze di autogoverno sorte già durante la Guerra di Liberazione dal nazi-fascismo e alla crisi immediata che aveva investito il modo di produzione capitalistico di Stato introdotto subito dopo la fine della 2^ guerra mondiale, che metteva seriamente in pericolo il proprio potere, e per ragioni di politica internazionale, legate al tentativo della borghesia politica nazionale jugoslava di sottrarsi alla influenza della borghesia politica sovietica, ha teorizzato e gradualmente realizzato una radicale riforma dell’economia, della società e delle istituzioni.

La riforma è partita con la Legge sulla gestione delle imprese economiche statali e delle organizzazioni economiche superiori votata il 27/6/1950 dall'Assemblea popolare, che ha formalmente introdotto una prima limitata forma di autogestione operaia nelle imprese jugoslave.

L’autogestione jugoslava ha subito negli anni tutta una serie di aggiustamenti, tesi ad aumentare i poteri dei consigli operai e a renderla compatibile con le necessità dell’economia moderna, culminati nella costituzione di un vero e proprio socialismo di mercato a partire  dal 1965 e nella creazione di una peculiare forma di “pianificazione autogestita” a partire dal 1976.

Le riforme più importanti, che hanno permesso di introdurre gli elementi più forti di socialismo autogestionario nel sistema jugoslavo, sono state senz’altro quelle avvenute tra il ’65 e il ’76 sotto la spinta della violenta riesplosione della lotta di classe e, in particolare, delle lotte della classe istituzionale studentesca contro quella che già allora molti studenti chiamavano la "borghesia rossa".
Queste riforme, che si muovevano nel senso dell’autogestione sociale dei mezzi di produzione in campo economico e dell’autogoverno non poliarchico del territorio in campo politico, anche se sono state realizzate in una misura tale da non mettere in discussione il potere e il dominio di classe della burocrazia politica titoista, hanno avuto senz’altro una importanza fondamentale per il movimento operaio. L’esperienza Jugoslava di teorizzazione e realizzazione di una forma di autogestione sociale all'interno delle aziende publliche, infatti, anche se era espressione delle esigenze della nuova classe sociale dominante di quel paese, ha permesso comunque al movimento operaio internazionale di prendere coscienza del fatto, che “proprietà statale” e “proprietà sociale”, per dirla con Edvard Kardelj – il grande architetto della progressiva destrutturazione del capitalismo di Stato jugoslavo –, non sono la stessa cosa, esattamente come non lo sono il socialismo e il capitalismo di Stato.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, in una intera nazione, si era creato un sistema sociale che combinava i principi dell’autogestione sociale, cioè della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese pubbliche, del mercato e di prime embrionali forme di istituzioni di autogoverno del territorio, che fossero diretta espressione di tutte le realtà produttive e sociali presenti nel territorio.
In pratica, si può dire che:
1) le imprese autogestite, a partire dal 1965,  erano relativamente autonome dal punto di vista finanziario rispetto al centro e si facevano concorrenza tra di loro in una forma peculiare di mercato opportunamente regolato da nuove forme di pianificazione dal basso;
2) a livello istituzionale, con la Costituzione del 1974 e con l'introduzione del "sistema assembleare", si era attuata una progressiva separazione delle funzioni e dei quadri del partito da quelli dello Stato, che poneva le premesse per il graduale superamento del sistema istituzionale poliarchico.
Va ricordato, però, che la burocrazia politica jugoslava esercitava comunque, tramite le borghesie burocratiche sindacali, un controllo sui consigli operai e, tramite l'Alleanza Socialista del Popolo Lavoratore, un controllo sul sistema assembleare. Infatti, i lavoratori dovevano scegliere i propri rappresentanti nei consigli operai all'interno di liste sindacali e, per potersi candidare alle elezioni per l'assemblea relativa ad una qualsiasi "comunità socio-politica" doveva necessariamente iscriversi ad una delle "organizzazioni socio-politiche" costituenti l'A.S.P.L. e, quindi, sottoporsi al controllo, sia pure indiretto della burocrazia politica della Lega dei Comunisti.

Alla lunga queste riforme sono state fatali alla élite intellettuale della burocrazia politica titoista, che si è scontrata, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, con la resistenza dei quadri intermedi della burocrazia politica, che per uscire da un quadro politico-istituzionale che ne minava seriamente il dominio di classe, ha scelto la via del nazionalismo e delle guerre etniche.

 

 

 

La mondializzazione del modello titoista di socialismo di mercato

 

 

 

Le idee della élite intellettuale titoista, che ruotavano intorno alla grande figura di E. Kardelj, non per i loro aspetti reazionari legati al tentativo di indurre alla collaborazione di classe con il varo delle nuove istituzioni economiche e politiche le classi sociali subalterne, ma per avere contribuito alla teorizzazione e alla parziale realizzazione in Jugoslavia di un nuovo modello di socialismo non incompatibile con i principi di una moderna economia di mercato, hanno rappresentato  per molti decenni un punto di riferimento per tutti coloro che nei Paesi a Capitalismo di Stato dell’Est europeo si opponevano al modo di produzione in auge e lottavano per una riforma di quei sistemi. Non va dimenticato che l’introduzione di sistemi fondati sui principi dell’autogestione sociale dei mezzi di produzione e del “mercato socialista” in Ungheria e in Polonia nel 1956, in Algeria subito dopo la Liberazione, in Bulgaria nel 1986, in U.R.S.S. nel 1988 era dovuto alla influenza che il modello jugoslavo ha avuto sulle élite intellettuali di quei paesi nel momento in cui la crisi del modo di produzione capitalistico di Stato aveva determinato la riesplosione violenta della lotta di classe.

In particolare, la perestrojka di Gorbaciov ha rappresentato il tentativo grandioso di generalizzare nel mondo socialista il modello di socialismo di mercato fondato sull’autogestione sociale dei mezzi produzione ideato dai teorici titoisti e di contrapporre alla globalizzazione capitalista la mondializzazione  di una forma di mercato socialista costruita sulla falsa riga di quello jugoslavo. Il 30/6/1987 il Soviet Supremo dell’U.R.S.S. ha varato la nuova legge sull’impresa, che ha introdotto l’autogestione nelle aziende sovietiche e il 1/1/1989 quasi tutte le imprese sovietiche erano ormai passate al sistema fondato sull’autogestione.

La perestrojka aveva interessato anche gli altri paesi socialisti dove già esistevano forme più o meno sviluppate di autogestione: in Polonia, Ungheria e Bulgaria tra il 1984 e il 1986 erano entrate in vigore le nuove leggi sull’autogestione. Solo le burocrazie politiche della D.D.R. e della Romania, scegliendo la via dello scontro con le classi sociali subalterne, hanno rifiutato di introdurre il nuovo modello sociale fondato  sull’autogestione dei mezzi di produzione e hanno respinto le pressioni di Gorbaciov che andavano in questo senso.

La resistenza delle burocrazie politiche della D.D.R. e della Romania, che, al contrario della burocrazia politica sovietica, non avevano capito che la crisi del modo di produzione capitalistico di Stato nella sua forma tradizionale era ormai irreversibile, non solo ha causato il fallimento del tentativo gorbacioviano di costruire un mercato socialista mondiale, in grado di permettere ai paesi socialisti di esercitare un’egemonia economica, più che politica, sul mondo, ma ha innescato quei processi rivoluzionari, che hanno condotto alla disintegrazione delle borghesie politiche “comuniste” in tutti i paesi del’Est.

 

 

Conclusioni

 

 

L’esperienza della Jugoslavia di Tito e della perestrojka, tralasciando il carattere corporativo di queste forme di autogestione che volevano creare un clima di collaborazione di classe tra la borghesia politica e la classe operaia, ci insegna, che quando l’autogestione viene imposta con una vera e propria rivoluzione dall’alto attuata dalla borghesia di Stato e non da una rivoluzione sociale dal basso, per quanto sia perfetta da un punto di vista giuridico, essa è votata al fallimento, perché il principio base dell’autogestione è la partecipazione e la partecipazione non può essere imposta per legge al popolo, ma può essere solo proposta. Per questo motivo, i liberalcomunisti,  dal momento che la costruzione di un mercato socialista fondato sull’autogestione rappresenta l’unica valida alternativa al mercato e alla globalizzazione capitalistici, memori delle esperienze del passato, sono convinti che, se un giorno le lotte sociali creeranno le condizioni politiche per una riforma dell’attuale modo di produzione nel senso di una sempre maggiore partecipazione dei lavoratori alla gestione dei processi produttivi, tale riforma dovrà essere attuata con il coinvolgimento attivo di tutto il popolo.
Se tali condizioni si creeranno, i comunisti non dovranno avere l'ambizione di assumere una funzione di direzione politica, sociale ed ideologica delle classi sociali subalterne, che, una volta preso il potere, li trasformerebbe inevitabilmente in una nuova borghesia, come ci ha insegnato l'esperienza dei partiti leninisti nei Paesi dell'Est: dovrà essere il proletariato ad esercitare coscientemente e liberamente queste funzioni.
Il Partito Comunista dovrà diventare unicamente un luogo di dibattito e di crescita collettiva, dove le classi lavoratrici forgeranno la coscienza della propria funzione storica; esso, quindi, assumerà più che altro una funzione pedagogica e non sarà più un vero e proprio partito, dal momento che non rivendicherà l'occupazione del potere come unico strumento in grado di permettergli di realizzare il proprio progetto politico.
Lo stesso nome "Partito Comunista" non è adatta a questa nuova funzione dell'organizzazione politica dei comunisti: sarebbe più opportuno chiamarla "Lega dei Comunisti" o, meglio, "Lega Liberalcomunista".

 

Roma, 6-6-2000

 

 

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