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<< GIANNI ROMOLI: IL RITORNANTE >>
Irresistibilmente ironico, talvolta tragico, discordante, limpido, inquietante e perfido quando narra i suoi orrori. Derivativo, intelligente, romantico, manierista, di una cultura cinematografica enciclopedica. Citazioni come eccitazioni. Osserva e descrive impietoso crisi di valori e sentimenti. Cantore inarrivabile di favole nerissime. Il suo cinema è specchio contaminato e personale di generi, procedendo per sottrazione nel raccontare gli amori impossibili e le doppie identità.
Questa non è una monografia. O meglio, non vuole essere solo una monografia.
Quello che ci proponiamo va infatti ben oltre il presentare una chiara e dettagliata filmografia o l’inquadrare l’Autore nel proprio sviluppo umano ed intellettuale. Quello che intendiamo proporre sono semplicemente delle riflessioni.
Riflessioni sull’opera di uno sceneggiatore: Gianni Romoli.
Questo lavoro, quindi, vuole essere anzitutto una introduzione alla sua opera ma procederemo prendendo in considerazione due singoli film, quelli che per noi risultano i più significativi e che, alla luce delle analisi effettuate, anche i più completi. Due film intesi come chiave d’ingresso dentro una prospettiva generale di cultura e di arte cinematografica, che hanno assunto un ruolo particolarmente importante nella filmografia di Romoli proprio perché costituiscono, a nostro parere, la base per una analisi che si propone di identificare una teoria esplicativa del suo cinema, amplificando e rilevandone la tecnica, lo stile, i rimandi, le citazioni e tutto ciò che fa di questo cineasta un Autore a trecentosessanta gradi.
In questo caso il testo che presentiamo può sì essere una monografia, ma anche un piccolo saggio analitico e, come si vedrà, anche un prontuario di sceneggiatura cinematografica.
Introduzione
Se analizzare l’opera di un regista può essere operazione laboriosa e problematica, lo è ancora di più analizzare l’opera di uno sceneggiatore.
Risulta anzitutto difficile stabilire l’oggetto stesso dell’analisi: il film su carta, così come è stato scritto e fresco di battitura, o il film su pellicola, quello riconosciuto, distribuito, giudicato, amato o odiato?
Certo è che il film su carta (scritto solitamente con carattere tipografico courier) appartiene allo sceneggiatore o per lo meno è il risultato a lui più vicino. Ma un film non viene scritto per rimanere tale, non è finalizzato ad essere “un libro da leggere” ma viene valutato per immagini e suoni e per tutto ciò che scaturisce dalla costante ripetizione di queste immagini e di questi suoni a ventiquattro fotogrammi al secondo.
Tuttavia sappiamo anche che ciò che vediamo sullo schermo è un qualcosa di filtrato. Filtrato da chi lo dirige, da chi lo filma, da chi lo interpreta e fotografa. Ne è una continua, inevitabile rilettura, il risultato di una committenza ( a meno che, ovviamente, l’opera non sia interamente del suo Autore). E questo è un dato di fatto incontrovertibile per ogni sceneggiatore professionista. Ed è questa una problematica allo stesso tempo interessante e forse irrisolvibile: sapere quanto c’è di uno sceneggiatore e quanto di un regista in un film.
Qualsiasi amante del cinema si è dovuto prima o poi scontrare con il dibattito, in corso da sempre, su a chi debba essere attribuita la completa paternità di quel capolavoro incommensurabile della cinematografia mondiale che è “Quarto Potere”. Manckievicz o Welles?
Certo a volte la difficoltà è maggiore quando a scrivere una sceneggiatura sono diverse mani oppure quando lo sceneggiatore viene controllato ed indirizzato già in fase di scrittura. In tal caso solo uno studio accurato, paziente, analitico quasi a sfiorare il filologico, può fornire, se non una risposta, almeno un tentativo di risposta. Ed è quello che esattamente ci proponiamo di fare in questo lavoro.
Ho contattato telefonicamente Gianni Romoli un pomeriggio di Giugno di un anno fa. Avevo da poco terminato le riprese del mio primo cortometraggio e volevo che ad ogni costo lo visionasse e mi desse un parere. Da fan e studioso fin da adolescente del cinema di Dario Argento, sapevo delle sue collaborazioni a Trauma ed a La Setta. Ma soprattutto Gianni era stato quello che aveva “osato” attuare la trasposizione cinematografica dell’immortale capolavoro di Tiziano Sclavi “Dellamorte Dellamore” con esito a mio giudizio meraviglioso e con un finale così forte, potente, cinico da sembrare quasi kubrickiano, come se ne sono mai visti nella filmografia italiana degli ultimi anni. Desideravo conoscerlo. E quel pomeriggio di Giugno lo chiamai. Fu, fin dalla prima telefonata di quasi un’ora e mezza, di una squisitezza inaudita e di una disponibilità impressionante. E stava, tra le altre cose, “scrivendo una scena che non mi sta facendo dormire per un film che cominceremo a luglio per la regia di Ferzan Ozpetek con Margherita Buy e Stefano Accorsi”. Non mi disse il titolo.
Nove mesi dopo uscì “Le fate ignoranti”.
Giusto un anno da quella telefonata e subito dopo aver ultimato le riprese del mio secondo corto (quasi una costante!), finalmente fissiamo un incontro.
Ci incontriamo nel suo appartamento di Monteverde circondato (quasi invasato) da circa 3500 tra videocassette e dvd in un caldo pomeriggio di luglio. Il computer sempre acceso, fogli dappertutto e libri ovunque. I nastri d’argento che aveva appena ricevuto ed i premi per Dellamorte in diversi punti dello studio.
Mi siedo e spiego il mio progetto: realizzare una sua monografia. Ne risulta visibilmente felice. Posiziono la videocamera digitale e comincio a filmare, e lui a parlare.
Da quel pomeriggio ci siamo incontrati altre sei volte e ad ogni incontro me ne tornavo a casa con delle enormi buste piene di sceneggiature originali, fotografie, appunti, soggetti abbozzati e progetti mai realizzati, tenuti stretti e custoditi gelosamente fino alla riconsegna. Letti e riletti innumerevoli volte, comparati ai film, discussi direttamente con Giovanni ad ogni nuovo incontro, mostrando una disponibilità che mi ha quasi spiazzato e sopportato le mie invasioni continue, le mie domande a raffica, le mie richieste incessanti e pretenziose.
Ho registrato materiale audio e video per quasi dieci ore e discusso per molto più tempo a registratore spento. Abbiamo anche pranzato assieme, occasione questa per scoprire un cuoco eccezionale e raffinato. Che fa, però, un caffè tremendo.
Il lavoro che proponiamo è esattamente il risultato di questi incontri in cui si è parlato e discusso della crescita umana, intellettuale e professionale di un Autore. Dei suoi miti, delle sue difficoltà, dei suoi errori e dei suoi successi. Ma forse è anche qualcosa di più. E’ un’ode sincera ed appassionata al Cinema, ai suoi miti, ai suoi personaggi, ai sogni che ci ha fatto (e ci fa) fare ed alle emozioni che ci ha regalato.
Ho cercato di trascrivere le sue dichiarazioni nel modo più fedele possibile, considerare il suo punto di vista mentre analizzavamo assieme la sua carriera e svisceravamo ogni singolo film con una precisione quasi maniacale. E, come si vedrà, ne è venuto fuori un quadro che tutto sommato posso definire abbastanza esaustivo e completo.
Procederemo, in questo studio, ad una analisi cronologica partendo dai primi tentativi di Romoli di cimentarsi con la scrittura cinematografica per poi, via via, analizzare i suoi lavori, soffermandoci in modo particolare su quei due film per noi più significativi che sono Dellamorte Dellamore e Le Fate Ignoranti che, come vedremo, sono la perfetta sintesi della sua cultura, del suo stile dei suoi rimandi, delle sue esperienze e compendio contaminato di tutta la sua filmografia.
Di qui, come abbiamo già detto, getteremo le basi per un discorso teorico alla ricerca di una linea rossa che unifichi ed identifichi l’intera produzione dell’Autore e ne anticipi quella futura, ritrovando e rintracciando i collegamenti, le tesi comuni, i simboli, i rimandi e le costanti stilistiche, tematiche e narrative.
Poiché, non è forse vero che un grande narratore racconta sempre la stessa storia?