<< DAVID LYNCH : LA MENTE CHE CANCELLA >>
Eccessivo, visionario, ambiguo, ipnotico. Maestro talentuoso di un nuovo cinema, esploratore dell’inconscio. Autore a pieno titolo che ha generato deliri suadenti, incubi terribili e reinventato il linguaggio dello schermo. Di quello grande come di quello piccolo.
Capitolo #1
L’immagine oltre l’immaginazione
(i cortometraggi)
Il primo approccio all’arte visiva Lynch lo ebbe attraverso la pittura e molto di questo suo amore è rimasto nella successiva produzione cinematografica. Il passaggio fra i due mo(n)di espressivi avvenne per il bisogno, quasi fisiologico, che l’artista sentiva di dover vedere le sue opere in movimento. I suoi primi lavori, infatti, sono da lui stesso definiti come "film painting", substrati scultorei o pittorici sui quali vengono proiettate immagini ripetitive ottenute con la tecnica dell’animazione. Così, ad esempio, per il famoso “Six figures” del 1967, dove un film rappresentante stomaci che si dilatano fino ad esplodere e teste che lentamente prendono fuoco viene proiettato ripetitivamente su di uno schermo-scultura tridimensionale, adornato da immagini in rilievo di teste e braccia. Il tutto, come diverrà caratteristica dell’autore, accompagnato da un lancinante e ossessivo suono di una sirena impazzita, una efficace "texture" sonora a sottolineare l’angoscioso clima dell’opera.
Il successo ottenuto con questo tentativo sperimentale di cinematografia spinge un mecenate (certo H. Barton Wasserman) a finanziare il giovane artista per un nuovo lavoro basato sulla tecnica di "Six Figures". Con i soldi avuti in donazione Lynch compra una cinepresa ma, malauguratamente, il fuoco (ottico) della macchina si rivela difettoso, vanificando mesi di lavoro. Con i pochi soldi rimastigli riesce comunque a realizzare un cortometraggio intitolato The Alphabet avente come tema le difficoltà (così come i timori e le paure) legate all’apprendimento, personale idiosincrasia dell’autore da sempre restio ad un’educazione di tipo scolastico. Il breve filmato (dura solo 4 minuti) si apre con l’immagine di una donna (interpretata da Peggy, l’allora moglie del regista) sdraiata su un letto mentre delle inquietanti voci infantili ripetono in maniera ossessiva le prime tre lettere dell’alfabeto. Delle strane forme generano lettere che, a loro volta, sembrano partorire lettere più piccole, mentre una donna seduta in una stanza inizia a decomporsi lentamente. Una successiva inquadratura mostra una bocca in primo piano che pronuncia le parole "Please remember that you’re dealing with the human form" (per favore ricordati che stai trattando la forma umana).
Nell’ultima parte, formata da una veloce successione di inquadrature, una donna protende istericamente le mani verso le lettere dell’alfabeto disposte disordinatamente. Il breve film si conclude con la donna dell’inizio rannicchiata sullo stesso letto mentre si copre freneticamente il volto con una mano.
L’American Film Institute di Los Angeles, visionato il cortometraggio del giovane regista, gli concede un finanziamento per un’opera più articolata. Lynch decide di continuare nell’utilizzo della tecnica di animazione unita alla live-action, facendo anche ricorso alla "pixellation", una particolare tecnica di ripresa fotogramma per fotogramma in cui gli attori sono sovrapposti alle immagini di animazione con un risultato simile a quello della stop-motion. Il cortometraggio (questa volta della durata più corposa di 34 minuti) si intitola The Grandmother (La nonna) e rappresenta una crescita ulteriore dell’immaginario fortemente disturbato e visionario del regista, presentando un’opera seminale sulla nascita e la vita che non esita ad affrontare temi scabrosi legati alla sessualità infantile e all’incesto. Nella storia di un ragazzino vittima di una famiglia insensibile e violenta che, piantando un seme nel materasso lurido della sua camera, fa "nascere" una nonna affettuosa e materna, troviamo molte delle ossessioni tipiche dell’autore. Lynch ha sempre dichiarato di essere terrorizzato dalla normalità. Le idilliache scene familiari, i tranquilli paesi della periferia americana tutti sorrisi e buoni sentimenti, le staccionate bianche di Velluto Blu, nascondono, secondo l’autore, segreti inconfessabili e perversioni inimmaginabili.
Un’altra caratteristica tipica del suo stile è rappresentata dal rapimento, quasi ipnotico, con cui descrive e osserva le macchine industriali e il ripetitivo moto degli apparecchi in una catena di montaggio. Infatti in "The Grandmother" la teoria astratta che regola le fasi e lo svolgimento della vita e’ rappresentata come un montaggio elettrico-industriale. "The Grandmother" rappresenta una sintesi compatta delle problematiche e dello stile espressivo dell’autore ed ha il merito di proporre un Lynch non ancora corretto o censurato. Il film viene terminato con grandi difficoltà, ricorrendo ad ulteriori finanziamenti, ma non riscuote lo stesso grado di interesse dei suoi precedenti lavori.
Capitolo #2
Suoni, incubi, deliri, rumori ed impressioni acustiche: Eraserhead
Lynch si iscrive al Center for Advanced Film Studies e comincia a lavorare ad una sceneggiatura a cui tiene molto dal titolo "Gardenback". Il regista non riesce a trovare i finanziamenti per quest’opera che definisce "una storia d’adulterio che ha molto a che fare con i giardini e con gli insetti" ed è costretto, a malincuore, ad abbandonare il progetto. Si dedica quindi ad un lungometraggio dal titolo Eraserhead (traduzione letterale: "La testa che cancella") nato da un suo incubo in cui una testa appena mozzata da un corpo veniva usata in una fabbrica come gomma per cancellare. Il Center for Advanced film Studies è restio a finanziare lungometraggi e rende disponibile per il regista una somma di cinquemila dollari per realizzare un cortometraggio della durata di ventuno minuti basato su una sceneggiatura di ventuno pagine.
Lynch si dimostra apparentemente favorevole alla decisione (mentendo) ed ottiene il permesso di girare il film in 35 mm. In bianco e nero. Le tecniche dell’animazione sono messe in secondo piano dall’autore in favore di una recitazione live anche se, in seguito alla temporanea defezione del protagonista, girerà delle scene in stop-motion utilizzando un pupazzo somigliante per rimpiazzare l’attore (scene tra l’altro mai ultimate né incluse nel film).
Raccontare la trama di Eraserhead è impresa ardua soprattutto perché il film non è, per sua natura, raccontabile. L’insieme surreale e caotico di gesti, suoni, corpi, immagini che costituiscono l’opera richiede di essere vissuto, e più volte verificato, dallo spettatore al fine di ricavarne una logica successione. Eraserhead verrà ultimato nella completa indigenza economica del regista che al film sacrificherà la propria vita privata nell’ossessione di terminarlo. Ci vorranno quattro anni. Lynch arriverà persino a perdere la propria abitazione dormendo, all’insaputa di tutti, sul set del film e cancellando ogni mattino le tracce della sua presenza. Come raramente accade nel mondo del cinema, l’opera si rivela, inaspettatamente, un grande successo nel circuito intellettuale e underground dei famosi "cinema di mezzanotte". Eraserhead vive di vita propria, discostandosi completamente dal suo autore e rappresentando per lo spettatore un’esperienza da vivere collettivamente in una sala cinematografica e su cui riflettere. Se è vero che il cinema, inteso come finzione, non deve in alcun caso somigliare alla realtà, né rappresentarla (almeno, non necessariamente), Lynch più che stravolgere o deformare il quotidiano, lo rende oltraggioso, cerca disperatamente di rivoltare le creazioni contro il creatore, di sovvertire l’ordine naturale delle cose che vuole rendere tutto il mondo circostante legato alla perfezione ritmica di una vita sana e serena.
Con questo primo lungometraggio iniziano anche a delinearsi alcuni dei temi e delle ossessioni ricorrenti del regista. In primo luogo Lynch sembra affermare che il male, prima che nelle persone, si nasconde nei loro oggetti. In Eraserhead il termosifone della squallida camera da letto del protagonista si trasforma in una sorta di finestra dimensionale, capace di evocare immagini malate come quella di una dolcissima donna dalle guance devastate da una sorta di tumore che canta un motivetto monotono e orecchiabile mentre, con assoluta naturalezza e una sorta di ritrosia, schiaccia delle strane forme di vita biancastre che piovono dal cielo spargendone le interiora sul pavimento. In seguito gli oggetti-corpo del cinema di Lynch svolgeranno una funzione primaria in film come Velluto Blu (l’orecchio mozzato da cui prende corpo la vicenda) o la serie televisiva di Twin Peaks (dove le macabre scoperte saranno suggerite al detective Dale Cooper da un vecchio disco, un ciocco di legno o una gomma da masticare).
Giudizio Critico : * * * * *
Capitolo #3
Il mostro vittima dei Mostri : The Elephant Man
Proprio in una proiezione del midnight-movie Eraserhead il talento di Lynch viene notato dal produttore-regista-attore comico Mel Brooks che decide di affidargli la regia del film The Elephant Man. La sceneggiatura del film è parzialmente ispirata al libro del dottor Treves, che aveva studiato il caso rarissimo di John Merrick, proteggendolo anche dalla speculazione e malvagità umana. Il povero essere, vissuto alla fine del diciannovesimo secolo, era afflitto sin dall’infanzia da una rara malattia che rendeva la sua pelle spugnosa e cadente. Il cranio era deformato da protuberanze, mentre il labbro superiore sporgeva esageratamente verso l’esterno, ricordando una proboscide (da cui il suo soprannome). Inoltre, a causa di una malattia alle anche, aveva grossi problemi di deambulazione. Con tali premesse era facile produrre un film di grande impatto emotivo e dalle possibilità commerciali non scarse. Lynch realizzò il suo primo lungometraggio veramente compiuto, basato su una sceneggiatura coerente, articolata, asciutta, rinunciando in gran parte ai suoi deliri visionari. Il film, girato in uno splendido e contrastato bianco e nero, si apre e si chiude sul primo piano di un paio di occhi: sono gli occhi della madre di John Merrick. Ciò introduce un nuovo elemento nello stile di Lynch, quello dello sguardo, che sarà poi ulteriormente ampliato e studiato in Velluto Blu. Evitando per quanto possibile l’uso del pietismo esasperato che la vicenda sembra voler suggerire, il regista costruisce un film forte anche se lievemente impersonale, in cui il punto centrale è caratterizzato dalla richiesta morale di John Merrick di essere un uomo normale. Evitando accuratamente di usare il suo sguardo d’autore per pronunciare una condanna morale, Lynch si contraddistingue per la peculiare abilità nel filmare con incredibile passione e intensità dei personaggi immobili, il cui destino è segnato in una sorta di agitata accettazione (per dirla con Michel Chion, grande studioso Lynchiano). Tutto ciò contribuisce a dare all’opera una dimensione mitica, con un’atmosfera da teatro rituale restituita dalla semplicità di inquadrature ben lontane dalla freddezza e il classicismo cui molti ancora oggi si ostinano a ricondurre il film. Se è vero che The Elephant Man appartiene al cinema popolare (sono usate procedure che lo avvicinano ad un teatro fatto di primi piani), ciò contribuirà, anche al suo enorme successo mondiale.
Giudizio Critico: * * * * *
Capitolo #4
Il Pensiero e la fantascienza: Dune
Reduce dall’esperienza con la Brooksfilm, Lynch riceve la proposta da George Lucas di girare Il ritorno dello Jedi, terzo capitolo della saga di "Guerre Stellari". Il regista rifiuterà dichiarandosi contrario a girare un film in cui avrebbe dovuto riprendere personaggi già delineati nei precedenti capitoli ma, soprattutto, spaventato dalla prospettiva che il film diventi un’opera più di Lucas che sua. Propone quindi a Francis Ford Coppola il soggetto di Ronnie Rocket, una storia "di un bravo omettino alto un metro che cammina a corrente alternata a 60 watt e che ha dei gravi problemi psichici". Coppola sembra interessato ma, in seguito al fallimento della sua casa di produzione, la Zoetrope, il progetto salta (anche se Lynch continuerà, per ora inutilmente, a rincorrere questo sogno). In ogni caso Coppola lo presenta al cantante rock Sting, allora al suo debutto nel mondo del cinema, che Lynch scritturerà a breve termine per il suo successivo film, il controverso Dune.
Film dalla storia travagliata (vi sono voci secondo le quali fu iniziato e poi abbandonato da Jodorowsky), Dune è tratto dalla saga letteraria fantascientifica dello scrittore Frank Herbert e prodotto da De Laurentiis. Con un budget di 45 milioni di dollari, Lynch ebbe molta libertà nella scelta del cast (inizia anche, con questo film, la collaborazione con l’attore Kyle MacLachlan) e della musica, per la quale scelse senza esitazioni una efficace anche se ripetitiva colonna sonora del gruppo dei Toto con Brian Eno. L’unico limite che gli fu imposto, e che lui con molte riserve e perplessità fu costretto ad accettare, riguardava la durata che non doveva superare le due ore e mezzo. Dune rivelerà il peso di questa costrizione sotto forma di una diseguaglianza di ritmo narrativo fra le varie parti molto accentuata, cosa che anche i critici notarono adducendola come principale motivo di fallimento del film. In realtà Dune rappresenta un coraggioso e riuscito esempio di creare un cinema di fantascienza capace di una lettura a più livelli, le cui suggestioni visive e sonore costituiscono fonte d’inquietudine e meraviglia per lo spettatore più incline a tale tipologia di opere.
Essendo il film destinato ad un pubblico molto vasto ed eterogeneo, molte scene particolarmente cruente o ripugnanti furono tagliate in fase di montaggio, onde evitare l’intervento censorio sull’opera finita. In particolare si ricorda una scena, ormai divenuta di culto, fra gli amanti del film, in cui il dottor Yueh infila la mano dentro a un cadavere estraendone le interiora decomposte. La crudeltà e l’effetto ripugnante sono comunque parte inscindibile dell’opera lynchiana e così sono sopravvissute intatte altre scene di non minor impatto visivo, come quella del sacrificio omosessuale in cui il barone Wladimir dissangua una preda terrorizzata, o il ripugnante trattamento cutaneo cui, sempre il barone Wladimir, viene sottoposto dai suoi adoranti sudditi. La serie di romanzi da cui il film è tratto insiste molto sull’aspetto psicologico e interiore dei protagonisti, Lynch costruisce su questo aspetto del film alcune suggestive sequenze in cui una voce fuori campo, rappresentante il pensiero del protagonista, dispiega umori e sensazioni. La scelta fu molto criticata ma conferisce una personalità indelebile a tutta l’opera, rendendola narrativamente innovativa. Dune è purtroppo un completo disastro al botteghino, tanto che viene cancellato il suo sequel per il quale il regista aveva già firmato un contratto.
Giudizio Critico: * * * ½
Capitolo #5
L’orrore celato nella (apparente) tranquilla quotidianità: Velluto Blu
Dopo un ennesimo tentativo fallito di realizzare Ronnie Rocket, Lynch inizia a lavorare ad una sua sceneggiatura originale che egli stesso descrive come: "...una storia d’amore e di mistero... si tratta di un tizio che si ritrova contemporaneamente in due mondi diversi, uno piacevole, l’altro oscuro e terribile." Il film s’intitola Velluto Blu e rappresenta un salto qualitativo notevole nella definizione delle capacità espressive del regista. Protagonisti del film sono Isabella Rossellini (allora moglie di Lynch), Kyle MacLachlan, Laura Dern e Dennis Hopper.
Alla sua uscita e presentazione al festival di Cannes il film fu accolto da roventi critiche. Gian Luigi Rondi si dichiarò offeso e disgustato dall’opera, con l’unica consolazione che la sua amica Ingrid Bergman non fosse viva per assistere allo scempio immorale cui veniva sottoposta sua figlia nella pellicola. La critica era divisa in due. C’era chi gridava al capolavoro, chi ad un colpo basso, gratuito ed inutile. Di certo Velluto Blu è un film per palati forti che unisce il gusto sadico e perverso del regista per le situazioni estreme e inenarrabili ad una costruzione narrativa surreale e intrisa di simbolismi. Sin dal suo memorabile inizio, in cui viene mostrata una città-cartolina ritratta da meravigliose dissolvenze incrociate, apparentemente ridente e perfetta, l’atmosfera di anticipazione per ciò che lo spettatore sà o intuisce, dovrà accadere è insostenibile. Velluto Blu, prima di ogni altra cosa, è un film sullo "sguardo". Il protagonista trova un orecchio mozzato, puro oggetto organico, e l’occhio della macchina da presa insiste in una carrellata che sembra essere senza fine, fino a mostrarci l’interno dello strano "oggetto" completamente invaso da insetti di ogni tipo (l’entomologia, si noti, è un’altra delle fissazioni di Lynch, che già bambino osservava rapito il lavoro di suo padre, uno scienziato che faceva esperimenti sulle malattie del legno e sugli insetti). Jeffrey (Kyle MacLachlan) osserva nascosto in un armadio, in ciò sostituendosi e rappresentando lo spettatore cinematografico, il violento stupro di Dorothy (Isabella Rossellini) da parte del gangster Frank Booth (Hopper).
Lo stesso Frank impone alla donna di "non guardarlo" mentre, contemporaneamente, ripete in maniera ossessiva la richiesta di "fargliela vedere". La scena, per la cronaca, include anche un violento fist-fucking che il gangster impone alla donna e che Lynch, con estrema naturalezza, riprende senza enfasi o particolari sottolineature. La rappresentazione della crudeltà e del delirio mentale raggiunge momenti di sublime surrealismo nel momento in cui il ragazzo e il gangster, trovatisi faccia a faccia, imbastiscono un confuso discorso sottolineato dalle note della canzone di Roy Orbison In Dreams. E' un film che trasuda violenza e ne attua quasi una sua teorizzazione estetica. Per Lynch, come abbiamo più volte ribadito, la normale e risibile quotidianità è solo una fragile illusione che ben nasconde orrori terribili destinati ad una imminente esplosione. Il regista non fa che spiegare e mostrare questo passaggio dialettico, concentrando la sua e la nostra attenzione sui particolari, obbligandoci a partecipare alle mostruosità che si celano dietro quelle bianche staccionate, oltre i fiori di quei giardini.
Con Velluto Blu inizia la collaborazione del regista con il musicista Angelo Badalamenti, d’ora in poi efficacissimo partner in tutte le sue successive produzioni con composizioni rarefatte e dalle sonorità anni ‘50.
Giudizio Critico: * * * * *
Capitolo #6
Tra Easy Rider e il Mago di Oz: Cuore Selvaggio
Dopo questo film Lynch realizza un cortometraggio per la televisione francese intitolato The Cowboy and The Frenchman interpretato, tra gli altri, da Harry Dean Stanton e da Jack Vance. A parte la conferma di una certa aridità del suo stile visionario se separata da intuizioni narrative di eguale consistenza, il cortometraggio delinea forse un momento di confusione derivante probabilmente dalle scandalizzate critiche che furono rivolte a Velluto Blu.
Nel 1990 esce Cuore Selvaggio, contestatissima e fischiatissima Palma d’oro a Cannes (vinta soprattutto per insistenza di Bernardo Bertolucci, allora presidente della giuria).
Interpretato da Nicolas Cage (nel ruolo di Sailor) e Laura Dern (Lula), il film è, apparentemente, un campionario di banalità e scelte narrative da soap-opera, in cui i personaggi si esprimono con un vocabolario limitato e intriso di violente imprecazioni.Nuovo, ma stavolta annunciato, scandalo per le numerose scene splatter al limite del sopportabile, il film, tratto da un famoso romanzo on the road di Barry Gifford presenta un’inquietante galleria di personaggi votati alla perdizione.
La reazione generale dei media è comunque diversa rispetto a Velluto Blu, complice anche una saturazione di mercato (il film esce in contemporanea alla serie televisiva Twin Peaks) che di certo non giova al cammino artistico del regista. La versione iniziale del film durava più di quattro ore, tagliata in seguito dallo stesso regista oltre che per evidenti motivi commerciali, perché consapevole dell’eccessiva violenza di alcune scene. In proposito Lynch ha dichiarato che "c’è un limite oltre il quale la violenza può prendere la mano..." e, coscientemente, ha privato il film di alcune esplicite scene sessuali e di numerosissimi frammenti gore, anche se numerose sequenze-shock (come il monologo di Sherilyn Fenn, vittima moribonda di un incidente stradale) sono rimaste intatte. Per non parlare delle escursioni visionarie (prossime al non-sense) portate all’esasperazione quando, per esempio, compare la Strega buona del Mago Di Oz di Flemming. Il film sembra volutamente giocare sulla sua reciproca contaminazione di generi estremi. Contaminazione mai fine a se stessa e mai vuota o superficiale. Ma che ha la forza di ridefinire i parametri di appartenenza di quei generi cui fa esplicitamente riferimento. A differenza di Blue Velvet dove era presente una tensione controllata, in Cuore Selvaggio la libertà di espressione del regista ha come unico freno la tolleranza della censura. Tutto ciò restituisce un chiaro esempio di creatività apertamente ostile all’autocontrollo, anche se gli atteggiamenti potenzialmente più eversivi dell’autore sembrano messi a dura prova dal forzato inserimento del personaggio-Lynch nelle regole dello star-system. Cuore Selvaggio è, comunque, un film meraviglioso.
Giudizio Critico: * * * * *
Capitolo #7
I gufi non sono quel che sembrano : Twin Peaks
Il passaggio da eclettico artista underground a celebrità avviene grazie ad una serie televisiva, la tanto decantata Twin Peaks. Lynch ne è l’ideatore nonché produttore insieme a Mark Frost, inoltre dirige personalmente alcuni episodi (II, VIII, IX, XIV, XXIX) fra cui il magnifico pilot.
Twin Peaks racchiude il meglio e il peggio dell’arte del regista. Da un punto di vista narrativo rappresenta una sorta di gigantesco vocabolario delle ossessioni care all’autore: le dissolvenze incrociate dell’inizio, le fabbriche, la cittadina ridente che nasconde orribili segreti, la doppia vita-realtà delle persone, i mondi paralleli, le lettere dell’alfabeto (che il misterioso assassino infila sotto le unghie delle sue vittime), i boschi (quindi il legno, il ciocco come frammento che costituisce storia) e così via. Sotto altri aspetti l’opera ci restituisce un Lynch fortemente edulcorato, i cui stravaganti metodi narrativi sono stati rimodellati da mani esperte al fine di incontrare il gusto e l’attenzione del pubblico più semplice delle soap-opera. Rimane comunque una grande opera d’autore, senza dubbio quella che consideriamo una delle migliori serie televisive della Storia del piccolo schermo. Una telepsyconovela che ha scosso le platee televisive di tutto il mondo ed influenzato il futuro modo di vedere (e di intendere) la televisione ed i prodotti seriali. Tant'è che alcuni anni dopo solo una personalità del calibro di Lars von Trier potrà ripetere un simile esperimento nel magnifico "Il Regno" con un grosso debito proprio verso il prodotto lynchiano. Così come X-files e tutte le altre serie oggi di grosso successo, devono a Lynch più di quanto non si creda. Ovviamente, un tale successo mediatico, che è stato in ogni caso un compromesso (col pubblico e con le potenti reti televisive del sistema americano), ha portato all’affrettata produzione di successive stagioni, con nuovi elementi narrativi, però, più banali anche perché generati da istinti puramente economici. La progressiva omologazione di Twin Peaks a strutture sempre più tradizionali porta al lento declino della serie, fino alla sua totale scomparsa dopo una stagione che spicca per ridondanza e luoghi comuni.
Twin Peaks è un incubo, ed è proprio dagli incubi dell'agente Dale Cooper che si articola e si fonda la vicenda. Degli oracoli apparentemente incomprensibili ma che nascondono i frammenti di quella verità che tanto si cerca e mai si ottiene.
Il serial è intessuto di numerose e complicate sottotrame che si disperdono, si allontanano per poi ritrovarsi improvvisamente ma solo per disperdersi di nuovo. Personaggi eccentrici, altri arguti, perfidi, descritti alla perfezione nei loro mo(n)di, nei loro sentimenti, nei loro tic e nelle loro paure. Resta il senso di una storia risolta ed irrisolta allo stesso tempo. Di una certezza che non chiarisce ma che, anzi, getta altri interrogativi, altri percorsi di lettura, altri indizi. Twin Peaks ci insegna a non fidarci di quello che vediamo. Di prestare, magari, maggiore attenzione a quello che sentiamo, che percepiamo o che sogniamo. Forse con questa chiave di lettura il vero protagonista non è Dale Cooper, vittima delle sue intuizioni, ma Diane: quel piccolo registratore magnetico, testimone impassibile e, chissà, custode dell'unica verità che esiste. Se mai ce ne fosse una.
Giudizio Critico: * * * * *
Capitolo #8
Lynch sperimenta: Industrial Symphony e Fuoco cammina con me
Contemporaneamente Lynch gira un curioso video sperimentale chiamato "Industrial Symphony N.1", una sorta di concerto-spettacolo interpretato dalla cantante Julee Cruise e musicato dal fedele Angelo Badalamenti con l’apporto dello stesso regista ai testi delle canzoni. Un secondo tentativo televisivo dell’accoppiata Lynch-Frost dal titolo On The Air non ha molta fortuna e viene quasi ignorato anche se rappresenta un prodotto di livello, certo non paragonabile a Twin Peaks. Il regista gira, inoltre una serie di documentari su luoghi geografici e attività più, o meno note dell’America dal titolo American Chronicles. Dirige anche due episodi del film televisivo Hotel Room (uscito in video con il titolo "Stanza d’Hotel") caratterizzati da un senso di sospensione in cui le vicende non arrivano mai ad una chiarificazione, lasciando lo spettatore in contemplazione di quell’immobilità che il regista tenta di animare con sprazzi di efficace surrealismo.
E’ ormai scoppiata la Lynch-mania, gente assolutamente ignara del lavoro del regista si dichiara profonda conoscitrice della sua opera, i suoi primi film, allora vituperati dalla critica, vengono riletti secondo ottiche entusiastiche che sottolineano in maniera forse eccessiva i pregi del regista. Il terreno è fertile per uno sfruttamento commerciale e le produzioni hollywoodiane non si fanno scappare l’occasione di produrre il successivo (e finora ultimo) film di Lynch, Twin Peaks, Fuoco Cammina Con Me sembra essere, dalle premesse, un prodotto di sicuro successo al botteghino. Il film e’ un "prequel", racconta cioè quello che e’ avvenuto prima della storia narrata nella serie televisiva. Purtroppo i media sono giunti a saturazione e l’idolo Lynch, così come era stato fulmineamente adorato, viene sottoposto ad un vero e proprio linciaggio (interessante il gioco di parole, no?) da ogni parte. Il settimanale Time, che precedentemente aveva dedicato copertine, interviste e critiche eccellenti alla serie televisiva, distrugge il film in meno di venti righe. Molti dei luoghi e delle atmosfere presenti nella serie televisiva sono assenti e tutta l’opera viene riletta nell’ottica di un selvaggio e spesso indecifrabile surrealismo.
Come osserva Paolo Cerchi Usai sulle pagine di SegnoCinema, è possibile che "Fuoco Cammina Con Me" sia il fine e "Twin Peaks" il mezzo, una sorta di disegno preparatorio per un’opera che si propone il ritorno alle origini ("Eraserhead" ad esempio, sembra avere molto in comune con l’opera). Ciò può bastare a scoraggiare l’opinione di chi ha visto nel film un’operazione meramente commerciale e di marketing. Con "Fuoco Cammina Con Me" Lynch sembra compiere un atto purificatorio, capace di restituirgli una verginità artistica indispensabile per continuare nel proprio personale cammino di sperimentazione e ricerca." Il film, forse non viene mai capito. Certo non è all’altezza della serie televisiva (se è possibile equiparare le pellicole), ma possiamo ritenere soddisfacente la critica rivolta da un giornalista italiano che vedeva, in “Fuoco cammina con me” una discordante ambivalenza: quella di “un brutto film girato da un bravissimo regista”. Certo che, sempre a giudizio personale, la prima mezz’ora del film è un vero capolavoro.
Questo film rappresenta comunque una tappa fondamentale nel cinema di Lynch. Forse è stato un insuccesso di pubblico (volendo ignorare la critica) perché non se ne poteva più di Laura Palmer. Rappresenta tuttavia un passaggio fondamentale perché denota e chiarifica una ricerca di sperimentazione per il regista. Sperimentazione e ricerca che continua nel successivo film di Lynch, l’indecifrabile, ma affascinante Strade perdute.
Giudizio Critico: * * * ½
Capitolo #9
Dell’identità : Strade perdute
Un incubo impalpabile, un delirio incomprensibile, un viaggio allucinato nei recessi più oscuri della mente: questo, e molto altro, costituisce il fulcro narrativo (?) della terzultima opera firmata da David Lynch. Il surrealismo estremo, memore degli esordi visionari dell’autore, rende virtualmente impossibile raccontare una trama che più volte cambia bruscamente percorso (e personaggi) senza dare troppe spiegazioni allo spettatore, lasciandolo in preda a un pronunciato senso di angoscia e disorientamento. Ma, allo stesso tempo, rendendolo partecipe dell’Opera, fondendolo con essa, chiedendo libere associazioni, pretendendo interpretazioni.
Film difficile e difficilmente difendibile (ma noi lo difendiamo a spada tratta), che sfida tutte le normali regole narrative che sarebbe lecito attendersi da un’opera cinematografica, Lost Highway attinge indiscriminatamente e voluttuosamente dall’horror (in questo senso è formidabile e quasi insostenibile la prima parte) dal noir e dal film erotico, ponendosi alla fine come un excursus completo delle sensazioni e paure umane.
Anche chi detesta Lynch dovrebbe offrirsi una chance di ricredersi andando a vedere questo film straordinario, dove l'angoscia del lento scivolare verso il male è dipinta con una potenza non comune. Scene di paura di grande forza, atmosfere malsane, ricco di ricordi confusi e colpi di scena, il film non segue una sequenza temporale ma evolve sulla trama dell'attività mentale del protagonista, dove gli accadimenti si accavallano secondo connessioni piu' emotive che temporali. La rappresentazione di una mente piuttosto che di una storia, e una gamma di emozioni rara a trovarsi in qualsiasi film. Indimenticabile. Una volta Luis Bunuel fu interrogato riguardo al significato del suo film surrealista "L’Angelo Sterminatore" e rispose seccamente: "Il mio film non ha un senso. Del resto, la vita lo ha?"; David Lynch, a chi gli chiedeva illuminazioni su "Lost Highway", ha invece risposto: "Il mio film è composto della materia di cui sono fatti gli incubi. Io ho paura di molte cose, ma soprattutto delle bocche e dei denti degli uomini...".
Insomma, un film assolutamente da vedere, un condensatore di generi che riesce dar vita ad un nuovo genere.
E’ forse, un film del nuovo millennio.
Sicuramente uno dei più belli.
Giudizio Critico: * * * * *
Capitolo #10
Il lato solare e silenzioso di Lynch : Una storia vera
Nel 1994 Alvin Straight, un vecchietto senza patente perché quasi cieco, percorre 350 miglia, da Laurens nell' Iowa a Blue River in Wiscoin, al volante di un trattore. Il tutto per raggiungere il fratello maggiore ricoverato in ospedale e far pace con lui prima che muoia. All'improvviso, dopo aver scavato nelle immagini di orrore che scorrono sotto la vita americana, David Lynch vola in superficie, a raccontare, per una volta, una storia (come dice il titolo) "diritta", "lineare", "vera”. Non che questa non celi, sotto il desiderio di quiete e di riconciliazione con se stessi, i rimpianti, i terrori, le ingiustizie di intere vite. Ma il vecchio Alvin Straight ormai ne ha viste troppe, negli anni trascorsi sulla strada e in quelli passati sul prato di casa e nel drugstore dietro l'angolo, per non aver raggiunto la misura di quel pochissimo che veramente vale, per non avere il coraggio di compiere un gesto che lo riporti a "casa". "Qual è la cosa peggiore della vecchiaia?", gli chiede uno dei rari giovani che incontra sul suo cammino. "È il ricordo di quando eri giovane", risponde Alvin, che ha nel cuore l'immagine di se stesso e il fratello, seduti insieme a guardare le stelle. Prende il tagliaerba e parte, attraversa a passo di lumaca strade, campi di mais, cieli, il Mississippi. Incontra gente che gli racconta i propri incubi personali, incubi di tutti i giorni, quelli che pesano e sempre ritornano un attimo prima di deviare sulle strade perdute. C'è, eccome, l'orrore, in "Una storia vera"; ma c'è anche la saggezza che, più o meno, ci fa tirare avanti e invecchiare; c'è la tristezza lancinante sul volto di che guarda fuori dalla finestra e rivede sempre un bambino sul prato; c'è la fatica silenziosa di andare d'accordo con il passato.
Si giova, il film, della bellissima musica di Angelo Badalamenti e di straordinarie interpretazioni. Grandissimo Richard Farnsworth, caratterista doc promosso al ruolo di protagonista, rassicurante Sissy Spacek. Uno dei più bei film visti sulla Croisette'99. Una fotografia splendida, con dei movimenti di macchina anch'essi estremamente "lineari": continui carrelli a seguire intervallati da totali sapientemente fotografati.
“È bellissimo. Elementare (nel senso più alto del termine). È John Ford che torna sulla strada, si immerge in un paesaggio sempre uguale, cerca la gente comune, davanti a un bicchiere di birra i ricordi strazianti degli uomini uccisi in guerra decenni prima, davanti a un fuoco acceso all'aperto la voglia di aiutare una ragazza dispersa. È Ma' Joad ("Furore - The Grapes of Wrath") con la sua ostinazione a tenere insieme la famiglia. Anche se, poi, qualcuno se ne va sempre solo sulle strade d'America.
Giudizio Critico: * * * * *
Capitolo #11
Strade (perdute) di Hollywood: Mulholland Drive come Sunset Boulevard
Dopo esser rimasta vittima di un incidente d'auto sulla strada di Mulholland Drive, a Hollywood, Rita perde la memoria. Sarà Betty Elms, un'attrice australiana appena arrivata a Los Angeles, ad aiutarla a recuperare l'identità perduta... Mulholland Drive è una jam session notturna sull’illusione-dissoluzione del successo, tra autoscontri frontali ed effetti terrorizzanti e narcotizzanti. Benvenuti a Los Angeles, Sunset Boulevard, centro delle fantasie e delle devianze, in cui le vittime sacrificali sorridono sempre e sognano accompagnando ogni frase con espressioni di meraviglia.
Struttura geometrica ad anello ed ironia deformante, con parodia velenosa del potere hollywoodiano ricco di compromessi, più orge, scambi sessuali e citazioni autocompiaciute (la stanza rossa di Twin Peaks, ricolorata di marrone), ampliano oltre ogni possibile limite il dileggio verso un mondo che non conosce la creatività, con inserti di musical anni Cinquanta e una recitazione parlata, sussurrata a bassa voce. Mulholland Drive deforma quanto più possibile ciò che resta dopo la cancellazione della memoria: è la satira più dissacrante e destabilizzante della perfetta fabbrica dei sogni, con colori pastello e dialoghi stupidi e vuoti che infliggono l’ultimo colpo mortale alla struttura delle soap e ai suoi derivati.
Il film in gara per la Palma d'Oro doveva essere lo spunto per un grande serial tv come Twin Peaks, invece, dopo innumerevoli tagli alla puntata pilota imposti dalla produzione, Mulholland Drive è diventato un lungometraggio.
La tv giudicò troppo lunga, incomprensibile e poco politically correct il telefilm in cui gli interpreti fumano molto, ci sono scene di amore lesbico e un cervello che schizza su un muro dopo un colpo di pistola.
La mente è un luogo favoloso", ha detto il regista. "Cosa vi accade dentro nessuno lo sa. Ogni tanto ci guardo dentro ed è come pescare in un oceano. Questo non è un film sul mio modo di fare cinema, ogni cosa ha una sua precisa direzione anche se ci sono degli elementi che si possono paragonare tra di loro".
”Per me questa è semplicemente una storia d'amore, anche se ci sono elementi del noir", ha detto il regista. "Non bisogna mai chiedersi, quando ci si trova di fronte alle idee, che tipo di film si sta guardando".La critica ha generalmente condannato l’incomprensibilità del film. Fortunatamente la giuria di Cannes non le ha dato ascolto.
Figuratevi cosa sarebbe oggi il cinema se, prendiamo il caso dell’Italia, si orientasse sui giudizi ottusi e inquisitori di un Mereghetti o di una Irene Bignardi.
Qualcuno ha parlato di un ritorno alle atmosfere di Velluto Blu e di Cuore Selvaggio. Una sorta di labirinto in cui lo spettatore è chiamato a trovare la strada giusta.
Noi il film non lo abbiamo ancora visto, ma attendiamo paziente la sua uscita. Tuttavia abbiamo letto lo script originale e possiamo confermare (con sventato orgoglio) che la prima mezz’ora del film è meravigliosa, da antologia.
Autoreferenzialismo? Certo, ma di alta classe!
Giudizio Critico (basato sulla sceneggiatura): * * * *