Giovann’Angelo,
Giovann’Antonio
di Mauro Andrea Di Salvo
Milano,
aprile 1490
La fame incominciava a irrigidirgli lo stomaco.
Lavorava a quella pala d’organo dal mattino presto, come il fratello, del
resto, e gli occhi gli lacrimavano per la luce e il fumo delle candele. Era
abituato, certo, era parte del suo mestiere di pittore - “Maestro Pittore, prego”,
pensò stiracchiando un sorriso mentre torceva e inarcava le spalle per tergersi
le palpebre, ché le mani erano sporche di colore. Si fermò un attimo a guardare
il suo lavoro. Veniva bene, era soddisfatto. I santi con la loro aureola di
foglia d’oro messa a bolo e, dietro, il paesaggio della sua Seregno col
campanile e il resto, e fra la folla plaudente il ritratto di papà Fermolo[1],
severo e compreso nel suo ruolo di comparsa. Questo era il suo ringraziamento
al vecchio padre, che lo aveva assecondato nella passione per la pittura. Fra
cento, cinquecento anni, quando le sue ossa fossero state polvere da un pezzo,
da lassù avrebbe ancora guardato i fedeli riuniti per la messa con la stessa
luce negli occhi. Anzi, sì, ci voleva un altro po’ di biacca nelle pupille,
dov’è il pennello fino? Ma lo stomaco ruggì di nuovo, consigliandogli di
rinviare la ricerca e il tocco. Lo imbarazzava quel sordo brontolio del ventre,
così irrispettoso e così poco consono allo spirito del luogo, dove echeggiava
sì un trambusto di cantiere, ma in cui sembrava sempre di sentire in lontananza
come un canto gregoriano - o d’angeli, addirittura. Il suo stomaco vuoto non
mancò di sottolineare il pensiero con un altro grugnito. E va bene! Anche la
fame era un dono del Signore, dopo tutto. Avrebbe voluto del pane, del buon
pane caldo senza niente dentro, come piaceva a lui... si girò per chiamare
Francesco[2],
avrebbe ben potuto fare un salto dal fornaio, quello bravo dietro San Satiro, e
tornare di volata! Ma pensò che aveva voglia di sgranchirsi le gambe lui
stesso, e si tirò su con un verso dal traliccio, sporcandosi il ginocchio con
la mano. “Dove vai, Giannangelo[3]?”
il fratello gli buttò una voce. “Ho fame! Torno subito, vuoi niente?” Ma
Giannantonio scrollò le spalle e si rimise al lavoro scuotendo la testa, “No,
devo finire la tunica, qua...”, rispose a voce ben alta, per farsi sentire
dagli altri che lavoravano fra gli immensi piloni in Candoglia. E si riaccucciò
vicino a un bell’angelo dalla veste vermiglia, coprendo con un finto colpo di
tosse il brontolio del suo stomaco, che non condivideva affatto quella scelta.
Giovann’Angelo scese al livello del pavimento e
guardò in alto. Non si era mai visto niente del genere. I piloni sfumavano
nella lontananza azzurrina delle volte, in alto, molto più in alto di ogni
altra chiesa in cui fosse mai entrato. E che gran blocchi di marmo! I cavalli
faticavano lungo le alzaie per trainare controcorrente i barconi[4]
carichi di pietra fino al laghetto di Santo Stefano, accanto al nuovo Ospedale
Maggiore progettato dal Filarete su ordine di Francesco Sforza per radunarvi
gli appestati. La nuova cattedrale di Milano, voluta un secolo prima da Gian
Galeazzo Visconti[5] in uno stile
che la rendesse degna delle capitali d’impero transalpine, sorgeva sulle rovine
fresche di Santa Maria Maggiore[6]
e del Battistero[7]. Da quando,
due anni prima, erano stati contattati dai ministri della Fabbrica per lavorare
in Duomo a quella pala, lui e suo fratello erano diventati importanti in paese;
Seregno, dov’erano nati, li riconosceva magistri e li teneva in gran conto, la gente li
salutava per le strade e le donne sorridevano loro nascondendo la bocca con la
mano. In quegli anni, poi, la gran
machina del Duomo era stata un via
vai di scienziati e di gente eccellentissima, chiamati dagli Sforza per
risolvere l’annoso problema del tiburio, ancora senza cupola. In quei giorni
anche Francesco di Giorgio, dopo del tempo trascorso col naso in su e molti
scarabocchi, aveva dato il suo parere ai ministri della Fabbrica. Ma prima di lui
erano stati contattati Antonio Averulino detto il Filarete, il Fancelli,
Bramante. Giannangelo ricordava bene che un anno prima di cominciare a
lavorarci, in Duomo, nel 1487, aveva visto anche la gran barba di Leonardo
aggirarsi pensosa fra gli operai lucidi di sudore. Ormai però i giochi erano
fatti, e tutti sapevano che la cupola l’avrebbero costruita dei lombardi,
l’Amadeo o il Dolcebuono, come dei lombardi, i Solari, avevano escogitato
trent’anni prima l’artifizio dei quattro grandi archi tondi in serizzo,
costruiti sopra agli arconi acuti del tiburio e disassati rispetto ai piloni,
per potervi poggiare il tamburo ottagono. Ma questi eran problemi che lo
riguardavano solo di riflesso: era una impresa entusiasmante, questa del Duomo,
cui era fiero di partecipare. Lui, però, era pittore, della scuola di San Luca[8];
e aveva fame.
Uscì al sole di aprile, e la luce lo accecò per un
attimo. L’aria era fresca e chiara e c’era un gran via vai di gente
indaffarata. Dall’anno prima la vecchia facciata di Santa Maria Maggiore faceva
da fronte provvisorio al nuovo Duomo, all’altezza della sesta campata, ma lui
non si era ancora abituato: faceva un po’ impressione vedere le basi enormi dei
nuovi piloni giusto lì davanti, nella piazza. Il portico delle Bollette[9]
era affollato come al solito di curiosi venuti a leggere - o a farsi leggere -
i nomi dei debitori insolventi, ma lui tirò dritto, fra la folla vociante,
radente la contrada del Rebecchino. Quanta gente accalcata nonostante l’ultima
peste[10],
in fondo Leonardo aveva ragione a parlare di “fetore”. Una bella ragazza bruna,
affacciata a una finestra, gli sorrise ammiccante e lui ricambiò con tutti i
denti che aveva, cercando di farsi più alto e fiero, e per poco non si schiantò
contro la colonna[11] che segnava
il punto in cui sarebbe sorta la facciata definitiva del Duomo. Che gran chiesa
sarebbe stata! E gli artisti che ci avevano lavorato avrebbero avuto eterna
fama. Non gli importava più della ragazza che adesso rideva e lo prendeva in
giro a gran voce, e allora affrettò il passo, ché la fame urgeva, schivò un
paio di quelle carrette o “carrozze” che si cominciavano a vedere sempre più
spesso in giro, tagliò a sinistra lasciandosi alle spalle il portico del Figini
[12]e
quanto restava di Santa Tecla[13]
e si infilò nel dedalo di strade dov’era San Satiro. Qualche tempo prima il
Bramante[14]
aveva trasformato la vecchia chiesa in uno stile nuovo e moderno, con dietro
l’altare uno scorcio prospettico che faceva ammattire le vecchiette e fingeva
d’essere quel coro che non si poteva fare. Lui era di casa in quelle vie, aveva
lavorato a lungo nella nuova chiesa e anche nel tiburio dell’edicola vecchia,
sette od otto anni prima, e c’eran pure stati problemi coi pagamenti. Lo
ricordava bene, quel ciclo di pitture fatte con i maestri Pietro da Velate e
Giampietro de’ Risei, erano lì da vedere. E i ministri della scuola avevano
sempre da ridire![15] Meglio non
pensarci in una giornata così bella, tanto più che era arrivato. Il fornaio lo
salutò amichevolmente, lo conosceva e poi lui ci sapeva fare, con le persone
come con il pane: per questo aveva tanti clienti affezionati, e otto figli.
Giovann’Angelo aggrottò la fronte e schioccò la lingua guardando i bei pani
allineati, come un intenditore di buon vino davanti alle bottiglie impolverate
di una ricca cantina, e stava per aprir bocca quando sentì una gran pacca sulla
schiena. Si girò di scatto e si trovò di fronte il fratello. Ansimante e
felice, Giovann’Antonio si sfregava le mani “Ho finito prima del previsto”
disse in un fiato, eludendo lo sguardo interrogativo e divertito del fratello,
“offri tu?”.
Postfazione.
Il lettore vorrà perdonare questo piccolo scherzo.
Di Giovann’Angelo e Giovann’Antonio da Seregno oggi non rimane più nulla. Non
un quadro, né un affresco, né una tavola o un disegno a carbone. Solo qualche
documento. Di Giovann’Angelo perdiamo ogni traccia dopo il 1491, anno che lo
vede ancora in Duomo “...in depingendo
antas organorum noviter constructorum”[16].
Sappiamo invece che Giovann’Antonio lavorò in Duomo anche nel 1503[17],
chiamato con Gio Boltraffio, come lui definito “pittore egregio”, ad esprimere
un parere sulla controversa porta di Compito; e che, tre anni dopo, dipinse la
cappella “...et seu anchonam schole
sacratiss. Corporis Dom. nostri Jesu Christi”[18]
nella chiesa di Sant’Ambrogio a Vigevano. Poi, più niente.
Di questi due fratelli di Seregno, pittori negli
stessi anni di Leonardo, del Bergognone, di Michelangelo, non rimane più nulla.
La storia li ha riassorbiti nel fondale indistinto che comprende la maggior
parte di noi. Li sentiamo vicini, anche se sono passati più di cinquecento anni
da quel giorno di aprile 1490 che è stato teatro della nostra affettuosa
invenzione. Da qui, la tentazione vivissima di riportarli in vita, anche solo
per i pochi minuti necessari a leggere queste righe.
Note.
[1] Conosciamo il nome del padre
attraverso il documento di cui alla nota 7.
[2] Francesco da Pietrasanta,
con atto dell’11 luglio 1485, si impegnava a lavorare per cinque anni de arte pingendi con i fratelli Giannangelo
e Giannantonio da Seregno. Arch. Not. Milano, notaio Benino Cairati - Cod Triv.
1817, fol. 215, III.
[3]Nei dialoghi si è preferito
utilizzare le forme familiari Giannangelo,
Giannantonio, pure ricordate dai
documenti, piuttosto dei più formali Giovann’Angelo,
Giovann’Antonio.
[4] I barconi e le chiatte usati
per il trasporto dei blocchi e delle attrezzature per il Duomo portavano sul
fianco la scritta A.U.F., che significava Ad
Usum Fabricae (= a uso della Fabbrica del Duomo), e che consentiva loro di
circolare liberamente per la rete dei canali milanesi senza pagare alcun dazio;
da qui, probabilmente, l’espressione “a ufo”.
[5] Riunificato il Ducato nel
1385, “...per consolidare il suo potere e, probabilmente, per poterlo estendere
e concretare in un regno italico, Gian Galeazzo Visconti riuscì nel 1386 a
coinvolgere la Chiesa milanese, prima affiancandosi al suo Arcivescovo Antonio
da Saluzzo, poi praticamente sostituendosi ad esso, in una grandiosa
realizzazione rappresentata dalla cattedrale, ‘il Duomo’ appunto, che, per il
suo stile mutato da lombardo in mitteleuropeo gotico, per le sue proporzioni e
la sua magnificenza, doveva divenire la testimonianza di un’aspirazione regale
e insieme l’espressione di un ideale religioso e di una concordia civile”
(C.Ferrari da Passano, Il Duomo rinato,
Veneranda Fabbrica del Duomo, Diakronia, Milano 1988, vol. 1, p. 36).
[6] Santa Maria Maggiore,
edificata nel IX secolo sul sito della ormai fatiscente basilica Vetus, la
prima cattedrale di Milano.
[7] Il battistero di San
Giovanni alle Fonti, forse il primo di forma ottagona del cristianesimo, voluto
intorno al 380 dal vescovo Ambrogio che vi battezzò sant’Agostino la notte del
24 aprile 387, durante la veglia pasquale. I resti del Battistero, venuti alla
luce durante gli scavi della linea 1 della metropolitana milanese, sono oggi
segnalati da una traccia sul sagrato del Duomo, ma sono anche visibili: si
accede ad essi dall’interno del Duomo, per una porticina che si apre subito
accanto alla porta sinistra del fronte principale.
[8] La scuola di San Luca, o di
Milano, era una sorta di “università” dei pittori milanesi, simile a quelle
sorte in altre città d’Italia - come a Roma, nel 1478, sotto gli auspici di
papa Sisto IV -; una corporazione, ma anche una scuola in senso proprio. Ne dà
notizia un rogito del notaio Benino Cairati del 2 febbraio 1481 (Archivio
Storico Lombardo, E. Motta, 1895, p. 412). Quel giorno, “...convocata et congregata universitate
scollarium scolle sancti Luce Evangeliste ac artis pictorum civitatis Mediolani”,
venivano eletti i delegati della scuola ad impetrare a Ludovico il Moro, duca
di fatto nel nome del nipote Gian Galeazzo Maria, l’approvazione dei 29
capitoli del loro statuto. Fra i delegati era appunto Giovann’Angelo da
Seregno, figlio di Fermolo.
[9] Il portico delle Bollette
venne edificato intorno alla metà del Quattrocento sul sito di un fabbricato
posto a settentrione della basilica di Santa Maria Maggiore: vi venivano
esposte “le cedole degli appalti e quelle dei debitori insolventi” (E. Brivio, Una piazza per il Duomo, N.E.D., Milano
1982, p.18).
[10] La peste del 1484-85 aveva
fatto alcune migliaia di vittime e aveva reso necessaria l’erezione, nel 1488,
del Lazzaretto fuori porta Venezia. Resti delle mura perimetrali sono ancora
visibili in via San Gregorio.
[11] Eretta nel 1456.
[12] Il portico del Figini,
eretto nel 1472 da Guiniforte Solari per Pietro Figini in corrispondenza delle
fondazioni della navata settentrionale di Santa Tecla.
[13] Santa Tecla, edificata nella
prima metà del IV secolo e demolita in due tempi fra la metà del Quattrocento e
la metà del Cinquecento per far spazio al Duomo.
[14] Dopo un evento miracoloso
legato all’immagine della Vergine custodita nella vecchia chiesa parrocchiale
di Santa Maria presso SanSatiro, si costituì una confraternita - o “scuola” -
omonima allo scopo di costruire, nello stesso sito, un tempio più grande e
ricco. Bramante trasformò l’aula unica della vecchia chiesa nel transetto della
nuova, a pianta centrale “mancata” per l’ostacolo rappresentato da una via
retrostante. Per questo motivo Bramante realizzò in stucco un finto coro, per
“creare” uno spazio consono alla nuova architettura.
[15] I documenti dell’epoca
testimoniano dei frequenti contrasti di interesse e di competenza fra i
rappresentanti della scuola di Santa Maria di San Satiro e il parroco della
vecchia cappella. È del 1483 un atto notarile con cui i maestri Francesco de
Vicomoro e Antonio Raimondi venivano delegati dai ministri della scuola e dai
pittori Giovann’Angelo da Seregno, Pietro da Velate e Giampietro de’ Risei per
risolvere le divergenze sorte fra le parti in merito ai lavori svolti da questi
ultimi nel tiburio della vecchia cappella e in quello sopra l’altar maggiore
della nuova chiesa (Archivio Storico Lombardo, G. Biscaro, 3 settembre 1910, e
Doc. V). Nello stesso anno Leonardo cominciava a Milano la sua Vergine delle rocce e Torquemada
fondava in Spagna la Santa Inquisizione.
[16] Annali Fabbrica Duomo, vol.
III, p. 71.
[17] Annali Fabbrica Duomo, vol.
III, p. 126.
[18] “Viglevanum”,
1909, a. III, fasc. 1, pp. 37-38.